Stato di disgrazia

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Lo Stato, come dice Pierre Bourdieu nelle sue lezioni intitolate, per l’appunto ,“Sullo Stato” (che vi premetto deficitarie e dispersive, in quanto lambiscono appena le problematiche annose sulla genesi dello stesso, benché i suoi obiettivi annunciati siano proprio questi) teatralizza, per sua natura intrinseca, l’azione politica che conduce all’emanazione o modificazione delle regole imperative ricadenti sulla collettività amministrata.

In risposta a queste esigenze, tra le altre cose, nascono spesso Commissioni di saggi o di esperti, ritenuti tali secondo l’opinione comune (ahi quanto lo sappiamo in Italia dove saggio vuol dire, soprattutto, seggio), investite dalla macchina pubblica e chiamate a tradurre i principi politici prevalenti in norme giuridiche operative,  nonché riprodurre la ritualità ufficiale di cui lo Stato abbisogna per confermare un certo ordine sociale, in cui si riconoscono, in maggioranza, i suoi appartenenti e si superano le molte posizioni particolaristiche. Ciò, ovviamente, succede quando le suddette Commissioni fanno il loro lavoro (certo non neutrale, ma con un occhio alla proiezione universale) e non diventano pretesto per i giochi di potere, tanto per fare un esempio, di un uomo solo sul colle.

Tuttavia, quando i competenti settori statali che avviano detti procedimenti sono screditati e depotenziati, insieme agli agenti operanti nei suoi gangli vitali, il processo di teatralizzazione, atto a generare identificazione, partorisce ulteriori fratture e distanziamenti tra istituzioni e collettività. Pertanto, la rappresentazione del potere, che deve creare assimilazione fra i membri, o come scrive Bourdieu, “confermare e produrre l’ordine sociale in maniera tale che appaia coerente all’ufficialità della società considerata”, diventa, invece, una intollerabile commedia o, peggio ancora, una farsa che, non soltanto non fornisce alcun risultato correttivo e tangibile per la popolazione, ma evidenzia, persino, la futilità dei metodi utilizzati e l’arroganza di chi li amplifica, il quale viene attaccato, insieme alla carica ricoperta (la quale, similmente, diviene pleonastica e fonte di sperpero), per i costi economici e sociali delle sue iniziative ridondanti, aggravanti il depauperamento nazionale. Così, risulta sempre più intollerabile per la collettività accettare che chi gli rovina l’esistenza se la (s)passi da privilegiato, senza lesina di sfarzi, cerimonie e corazzieri al seguito.

In Italia, la situazione esistente corrisponde esattamente alle circostanze descritte teoricamente. Perché siamo arrivati a questi infimi livelli di pagliacciata? Perché il nostro Stato è stato occupato da mercenari, assistiti da eserciti forestieri, agli inizi degli anni ’90 (dopo la defenestrazione giudiziaria di un’intera classe dirigente), spossessato progressivamente della sua sovranità, messo in mano, dall’esterno, ad una élite mandataria che ha avuto come compito esclusivo quello di guidare i suoi principali apparati come succursali di una o più centrali straniere.  In seguito a ciò, il nostro Stato ha perso quelle qualità fondamentali, di indipendenza e d’autonomia, che pertengono ai popoli padroni delle loro scelte e dei loro destini. La sua agenda politica viene ora scritta a Washington, mentre i libri contabili vengono vagliati e custoditi a Bruxelles. In sostanza, il Paese è quasi del tutto commissariato. I suoi organi esecutivi e legislativi hanno margini di agibilità ridottissimi, al massimo tattici e distraenti l’attenzione di massa, e si limitano ad approvare o ad adattare prescrizioni elaborate altrove, contro i suoi medesimi interessi. La conflittualità interdominanti, inestirpabile dalla lotta per il potere in qualsiasi contesto capitalistico, si abbassa, in questi frangenti, al rango di guerra per bande che si contendono le briciole per la loro sopravvivenza, nuocendo a tutto il Paese.

I partiti che si disputano il Governo, oppure puntano a diramarsi nei corpi burocratici, lo fanno con una prospettiva di corporazione che implica il mero accaparramento delle risorse pubbliche, compresa la relativa distribuzione clientelare,  finalizzato a garantirsi la misera autoperpetuazione, a danno di tutti quelli esclusi dalla cricca prevalente.

Non si fanno progetti lungimiranti e non si formulano strategie espansive, lungo le direttrici evenemenziali dell’epoca storica – che dovrebbero riguardare una ricollocazione geopolitica non caratterizzata da “succubanza” e un rilancio del patrimonio industriale, per affermarsi sui mercati internazionali (altro che svendita delle imprese partecipate!) – perché costoro, in quanto “quisling incaricati”, sono unicamente autorizzati a drenare le poche ricchezze rimaste senza disturbare i predominanti esteri, nei settori di più ampia redditività, laddove non c’è mai reale concorrenza e la minaccia dei cannoni precede il passaggio delle merci.

Eppure, il problema dirimente per le “debolezze partitocratiche” dell’arco costituzionale, mentre tutto va a ritrecine e Roma si denuda dei suoi asset strategici, è diventata l’Imu. E’ un’altra manovra diversiva attuata da politicanti furfanti che prendono ordini da fuori. Il colpo di grazia di autentici disgraziati ad uno Stato in disgrazia. A questo punto, non vediamo altre soluzioni per il bene dell’Itralia, e delle due l’una: o questo ceto (sub)dominante viene spazzato via nella sua interezza, oppure sarà il Belpaese ad essere cancellato dalle geografia politica del globo con irrecuperabile  ignominia. Purtroppo, la seconda opzione è in netto vantaggio, a svantaggio di tutti noi.