TRA LIBERISMO E PROTEZIONISMO

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Il Commercio mondiale dopo decenni di sviluppo e di inarrestabile crescita ha subito una battuta d’arresto a livello globale:  un terzo meno di quanto fu prodotto e scambiato nel 2007-2008. Inesorabile “de globalizzazione”. E tutto questo nonostante quel grandioso processo  in Europa che con l’Atto Unico (1986) ha portato all’instaurazione di un mercato interno senza barriere legali tra gli stati membri e basato sulla libera circolazione delle persone e dei capitali.

Si dice che globalizzazione e apertura ai mercati siano stati per decenni uno dei principali fattori della crescita economica: la concorrenza stimola l’innovazione favorendo la produttività e la crescita economica, l’efficienza, la riduzione dei costi e i prezzi più bassi giovano non solo al consumatore ma anche alle imprese.

Durante la presidenza Obama si è cercato, senza successo, di stipulare Accordi Transatlantici e Accordi Transpacifici, in quanto gli Stati Uniti volevano rafforzare il loro ruolo di esportatori di sicurezza nel mondo. Quei tentativi sono falliti ed il nuovo presidente Trump ha dichiarato di voler procedere con accordi bilaterali.

Si dice che dopo una lunga recessione il motore della crescita sembra essere di nuovo in movimento. Nel recente Worl Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale (17 aprile 2017)  si narra che l’economia mondiale ha ripreso a crescere con dati che riguardano gli Usa al 2,3 per cento per il 2017, Area Euro con l’1,7 per cento (l’Italia allo 0,8 per cento) la Cina al 6,6 per cento. Sia pur tendenzialmente, c’è una ripresa dell’economia mondiale ma è altrettanto ovvio che esista una caduta generale dei livelli industriali e conseguente disoccupazione come non s’erano visti già dal ’29 . E  permane una stagnazione permanente nonostante tutti i distinguo che via via si vanno delineandosi con riprese fittizie e non consolidate. Se si pensa alla Cina c’è una caduta verticale della produzione industriale da circa il 12 per cento all’attuale 6 per cento, come conferma  di una regressione dell’intero sviluppo economico mondiale, sfociato  in una stagnazione  generalizzata.

Ed è soltanto questo il combustibile che può alimentare il cosiddetto protezionismo, anche se le politiche attuali sembrano girare in tutt’altro modo. Il mondo del liberalismo economico è in auge e tutto lascia pensare che man mano che avanza il disastro politico delle  attuali classi dirigenti dei paesi occidentali l’unica risposta che sapranno dare  sarà ancora quella delle tesi neoliberiste di globalizzazione.

Quello che viene sottaciuto  sono i ritardi sulle caratteristiche nuove di un multipolarismo che avanza e che molti governi occidentali, oppressi  da settant’anni di occupazione militare Usa sul territorio europeo, fanno finta di non riconoscere. Si vuole  affossare l’Europa e con essa l’Italia,  erra di nessuno,  mentre una sorta di “protezionismo” sarebbe un primo passo decisivo per l’autonomia nazionale.

A questo punto è  d’obbligo un richiamo a List (1) come  il più importante  cultore e teorico del protezionismo. Il problema fondamentale per List fu quello di ravvisare un concetto di nazione inteso come forza produttiva che viene acquisita in uno scambio tra nazioni; vale a dire nel protezionismo di una nazione che  guadagna  un vantaggio politico nei confronti di una altra.

E’ quindi necessario sospendere temporaneamente il libero scambio e sostenere le industrie nascenti nei paesi industrializzati e solo successivamente estendere il libero scambio ai  paesi  integrati in virtù della protezione avutasi.

Il neoliberismo serve alla nazione predominante Usa apertasi con una fase monocentrica dalla seconda guerra mondiale in poi circa di dominio assoluto con il suo primato industriale tecnico-scientifico oltre essere all’avanguardia nei settori più innovativi di processo e di prodotto. La conseguenza è che gli altri paesi industriali hanno dovuto specializzarsi nei settori della passata epoca della industrializzazione fordista, settore auto e similari (per esempio, se si vuole affidare a delle nuove produzioni competitive come quelle in Usa si deve assegnare a delle commesse che riguardano singole parti delle componenti industriali delle imprese statunitense).

Con la deduzione, ( ed a questo punto cito G.La Grassa un articolo di aprile 2007) “ Non produrre in proprio i nuovi beni significa però perdere in potenzialità come sistema-paese (la “nazione” nei termini listiani); ridiventa attuale – pur ad un completamento diverso grado di sviluppo ormai industriale in tutti i paesi capitalistici avanzati ed in quelli che sono in via di forte crescita – la già riportata affermazione di List :” c’è dunque da temere che le nazioni  più forti (allora l’Inghilterra oggi gli Usa) usino lo strumento della ‘ libertà di commercio ‘ per ridurre in stato di dipendenza il commercio e l’industria delle nazioni deboli “. Fra queste “nazioni deboli” metterei nella presente fase storica soprattutto quelle europee ( e l’Unione Europea è solo uno strumento per renderla ancora più deboli tramite l’attività “perversa” di organismi comunitari che si fanno promotori del libero scambio, esattamente come gli junker tedeschi o i proprietari terrieri degli stati del sud degli Stati Uniti di allora) e il Giappone; mentre sembra che abbiano imparato la lezione Russia e Cina; su India, Brasile,ecc. sospenderei il giudizio”.

  • Friedrich List nacque nel Wùrtemberg (Reutlingen) nell’anno della Rivoluzione francese e morì nel 1846 (a Kufstein). Fu pensatore e politico di stampo democratico-liberale, eletto deputato e espulso per le sue idee. Girò per l’Europa a Parigi conobbe Jean Batiste Say rientro in patria dove fu arrestato e successivamente liberato ed infine sbarcò negli Usa nel 1825. Fu lì che s’interessò alla guerra civile tra gli stati schiavisti del sud la cui economia era fondata sulle grandi piantagioni di cotone che era principalmente esportato verso l’industria inglese, e gli stati del nord prevalentemente industriali. Di lì nascono le idee di List sulla protezione doganale per “l’industria nascente”.

 

GIANNI DUCHINI giugno ‘17