Tra liberisti e keynesiani siamo ancora ai tempi di Marco Cacco

Karl-Marx

Su Il Foglio di oggi si riprende un vecchio brano dell’economista Bastiat. Quest’ultimo è conosciuto dal grande pubblico soprattutto per la frase: “Dove passano le merci, non passano gli eserciti”. Ci ritorneremo a breve cercando di confutare questa affermazione con il medesimo metodo (il)logico usato Bastiat.
Bastiat fu definito da Marx “il più superficiale e quindi il meglio riuscito rappresentante dell’apologetica economica volgare”. Bastiat era uno di quelli che eternizzavano le leggi del capitalismo (sempre armoniche, ovviamente a meno di disturbi esterni) e che non comprendevano la sua natura soltanto sociale e storicamente determinata, quel signore “comicissimo…il quale s’immagina che gli antichi greci e romani vivessero soltanto di rapina. Ma se si vive di rapina per molti secoli, ci dovrà pur essere continuamente qualcosa da rapinare, ossia l’oggetto della rapina dovrà continuamente riprodursi. Sembra dunque che anche greci e romani avessero un processo di produzione, quindi un’economia, la quale costituiva il fondamento materiale del loro mondo esattamente come l’economia borghese costituisce il fondamento materiale del mondo contemporaneo. O forse il Bastiat ritiene che un modo di produzione poggiante sul lavoro degli schiavi poggi su un sistema di rapina? Allora si mette su un terreno pericoloso. Se un gigante del pensiero come Aristotele ha errato nella sua valutazione del lavoro degli schiavi , perché un economista nano come il Bastiat dovrebbe aver ragione nella sua valutazione del lavoro salariato”.
Bastiat, dunque, a parere di Marx, non aveva le idee chiare, né sulla “forma valore o l’espressione di valore delle merci [che] nasce dalla natura del valore di merce; non, inversamente, il valore e la grandezza di valore dal loro modo di esprimersi come valore di scambio” (come appunto pensava Bastiat) , né sul processo di produzione e nemmeno sui rapporti sociali che costituiscono la trama all’interno della quale agiscono gli individui. Porre l’individuo isolato al centro della dottrina economica non ha molto senso, del resto il sistema che genera questa ideologia dell’atomismo soggettivo è proprio quello che concretamente si fonda sull’opposto, cioè sullo sviluppo accentuato di determinati rapporti sociali (“si sviluppano su scala crescente la forma cooperativa del processo di lavoro, la cosciente applicazione tecnica della scienza, lo sfruttamento metodico della terra, la conversione dei mezzi di lavoro in mezzi di lavoro utilizzabili soltanto in comune, l’economia di tutti i mezzi di produzione grazie al loro impiego come mezzi di produzione del lavoro sociale combinato, l’inserimento e l’intreccio di tutti i popoli nella rete del mercato mondiale…”, Marx).
Scrive ancora Marx:
“Quanto più risaliamo il corso della storia, tanto più l’individuo, e quindi anche l’individuo che produce, ci appare come un essere non autonomo, facente parte di un insieme più vasto: dapprima lo troviamo, in modo ancora completamente naturale, nella famiglia e nella famiglia che si è allargata in tribù; poi nelle diverse forme della comunità, quale è sorta dal contrasto e dalla fusione tra le varie tribù. È solo nel XVIII secolo, nella «società civile», che le diverse forme del contesto sociale si presentano al singolo come un semplice mezzo per raggiungere i suoi scopi individuali, come una necessità esteriore. Ma l’epoca che genera questa prospettiva, cioè quella dell’individuo isolato, è per l’appunto l’epoca in cui i rapporti sociali (da questo punto di vista, generali) sono fino a questo momento i più sviluppati. L’uomo è, nel senso più letterale del termine, uno ζῶον πολιτιϰόν: non solo un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce ad isolarsi. La produzione di un individuo isolato, al di fuori della società, – un caso raro che può capitare ad un uomo già civilizzato che venga a trovarsi accidentalmente in una zona selvaggia, e che già possegga in sé dinamicamente le forze della società – è un non senso pari a quello di una lingua che si sviluppi senza individui che vivano e parlino insieme. Ma è inutile soffermarsi più a lungo su questo punto; anzi non ci sarebbe stato neppure bisogno di toccarlo se questa insulsa concezione, che poteva avere una sua ragion d’essere per gli uomini del XVIII secolo, non fosse stata seriamente reintrodotta nella più recente economia da Bastiat, Carey, Proudhon e altri.”[Introduzione, 186], (Inoltre, in una nota de Il Capitale, precisa che: “Si può quindi dedurre che cosa un F. Bastiat capisca dell’essenza della produzione capitalistica, quando scrive che il salariato è una formalità esteriore e indifferente della produzione capitalistica e scopre «che non è la forma della remunerazione a creare per lui (per l’operaio) questa dipendenza» (378. Harmonies Economiques. Paris. 1851). È una scoperta – un non equivoco plagio da veri economisti – degna dello stesso ignorante dal linguaggio retorico il quale, nello stesso libro, dunque nel 1851, scopriva «cosa ancora più decisiva e infallibile, la scomparsa delle grandi crisi industriali in Inghilterra» (p. 396). Sebbene F. Bastiat nel 1851 avesse eliminato le crisi dall’Inghilterra, già nel 1857 proprio l’Inghilterra ne attraversava una e nel 1861, come è possibile leggere nei rapporti ufficiali delle Camere di Commercio inglesi, solo lo scoppio della guerra civile americana le evitò una crisi industriale di grandezza fino ad allora non prevedibile”).
Bastiat, dunque, è uno dei soliti economisti di servizio (un commis voyageur del libero scambio) che vendono come massimo esercizio di raziocinio i propri pregiudizi sociali.
L’intento sotteso del giornale (che sta ripubblicando interi brani dell’economista francese) non è però quello di riesumare vecchie teoresi ammuffite contro il marxismo che, rispetto alle prime, emana persino un fresco odore di rosa, ma di di falsificare i soliti discorsi keynesiani o neokeynesiani, o, comunque, quelli legati al “suprematistismo” da “domanda”, i quali puntano immancabilmente sull’incremento della spesa (pubblica, ma non necessariamente) anche per scopi “inutili”, se adatti a risollevare un’economia in difficoltà.
Dobbiamo precisare quanto dichiarato in illo tempore da Keynes : «Se il Tesoro dovesse riempire vecchie bottiglie con banconote, sotterrarle a profondità adeguate in miniere di carbone in disuso, riversare nelle miniere rifiuti urbani fino alla superficie, e lasciare poi alla libera iniziativa, sulla base dei consolidati principi di laissez faire, il compito di dissotterrare le banconote (dopo aver indetto una gara per le concessioni di sfruttamento di quel territorio), la disoccupazione non aumenterebbe più e, con l’aiuto delle successive spendite, il reddito reale e la ricchezza della comunità sarebbero probabilmente molto più elevati di quanto si darebbe altrimenti. Certamente, sarebbe più sensato costruire case o altro. Ma, se ci sono difficoltà politiche o pratiche nel farlo, quel che si è detto sopra sarebbe meglio che niente».
Ovviamente, si tratta di un ragionamento paradossale ed, in ogni caso, lo studioso inglese, non sosteneva che dovesse essere lo Stato ad occuparsi dello svuotamento e del riempimento delle buche, bensì che si lanciasse uno stimolo (pubblico) affinché la libera intrapresa si rimettesse in moto. In ogni caso, lungi da me difendere le ricette keynesiane o neokeynesiane, le quali possono avere una certa valenza scientifica, ma non sono la panacea ai mali economici e sociali attuali. Non lo furono nel lungo periodo storico in cui spopolarono (fornendo una “giustificazione” teorica ex post a necessità storico-geopolitiche risolte praticamente), non lo sono, a maggior ragione, oggi che i tempi sono decisamente mutati. Condivido, come tutti ben sapete, il pensiero di La Grassa quando afferma che la disputa liberisti-keynesiani è mera diatriba antitetico-polare, uno stretto cappio economicistico col quale i tifosi del mercato cercano di impiccare i supporters dei correttivi statali allo stesso mercato e viceversa. Ma prioritaria è invece “la produzione di società, la riproduzione di quella specifica forma storica dei rapporti sociali, [che] non sarà mai compreso da personaggi siffatti”.
Torniamo al racconto di Bastiat, pubblicato su Il Foglio, ed ecco quel che dice:

“Nella sfera economica, un atto, un’abitudine, un’istituzione, una legge non generano solo un effetto, ma una serie d’effetti. Di questi effetti, solo il primo è immediato; esso si manifesta simultaneamente con la sua causa: si vede. Gli altri non si sviluppano che successivamente: non si vedono; va bene se li si può prevedere. Qui sta tutta la differenza tra un cattivo e un buon economista: uno si limita all’effetto visibile, mentre l’altro tiene conto e dell’effetto che si vede e di quelli che occorre prevedere. Ma questa differenza è enorme, perché quasi sempre accade che, se la conseguenza immediata è favorevole, le conseguenze ulteriori sono funeste, o viceversa.
Siete mai stati testimoni del furore del buon borghese Giacomo Buonuomo, quando il suo terribile figliolo sia riuscito a rompere una finestra di vetro? Se avete assistito a questo spettacolo, sicuramente avete anche constatato come tutti i presenti, fossero anche trenta, sembrino essersi messi d’accordo per offrire al proprietario una identica consolazione: non tutto il male viene per nuocere; incidenti come questo mandano avanti l’industria; bisogna che tutti possano vivere; che fine farebbero i vetrai, se non si rompessero mai i vetri?

Ora, in questa formula di condoglianza vi è tutta una teoria, che è meglio sorprendere in flagranza di reato; cosa in questo caso semplicissima, dal momento che questa teoria è esattamente la stessa, per sfortuna, che sostiene la maggior parte delle nostre istituzioni economiche. Supponendo che siano necessari sei franchi per riparare il danno, se si vuol dire che l’incidente fa arrivare all’industria del vetro sei franchi, che incentiva la detta industria per sei franchi, io sono d’accordo, non ho nulla da contestare, il ragionamento fila. Il vetraio viene, fa il necessario, incassa sei franchi, si sfregherà le mani e benedirà in cuor suo il ragazzino terribile. Questo è quello che si vede.

Ma se, per via deduttiva, si arrivasse a concludere, come si fa troppo spesso, che è bene che si rompano i vetri, che ciò fa circolare il denaro, che ne risulta un incentivo per l’industria in generale, io sarei obbligato a gridare: alt! La vostra teoria si ferma a quello che si vede, e non tiene conto di quello che non si vede. Non si vede che, poiché il nostro borghese ha speso sei franchi in una cosa, non potrà più spenderli in un’altra. Non si vede che, se non avesse avuto dei vetri da sostituire, egli avrebbe sostituito, per esempio, le sue scarpe scalcagnate, oppure avrebbe messo un libro in più nella sua biblioteca. In breve, avrebbe fatto dei suoi sei franchi un uso qualunque, che invece non farà.

Facciamo perciò il conto per l’industria in generale. Poiché il vetro è rotto, l’industria vetraria è incentivata nella misura di sei franchi; è quello che si vede. Se il vetro non fosse stato rotto, l’industria delle scarpe (o qualunque altra) sarebbe stata incentivata nella misura di sei franchi; è quello che non si vede. E se si prendesse in considerazione quello che non si vede perché è un fatto negativo, e quello che si vede, perché è un fatto positivo, si comprenderebbe bene che non vi è alcun interesse per l’industria in generale, o per l’insieme del lavoro nazionale, a che dei vetri si rompano o non si rompano.

Facciamo adesso il conto di Giacomo Buonuomo. Nella prima ipotesi, quella del vetro rotto, egli spende sei franchi, ed ha, né più né meno di primo, il vantaggio di un vetro. Nella seconda, quella nella quale l’incidente non è accaduto, avrebbe speso sei franchi in scarpe ed avrebbe, insieme, il vantaggio di un paio di scarpe e quello di un vetro. Ora, poiché Giacomo Buonuomo fa parte della società, bisogna concludere da ciò che, considerato nel suo insieme e tenuto conto dei suoi livelli e dei suoi vantaggi, la società ha perduto il valore del vetro rotto. Per cui, generalizzando, noi arriviamo a questa conclusione inattesa: la società perde il valore delle cose inutilmente distrutte, ed a questo aforisma, che farà raddrizzare i capelli in testa ai protezionisti: rompere, distruggere, dissipare, non equivale ad incoraggiare il lavoro nazionale, o più brevemente: distruggere non vuol dire fare profitti.

Che cosa dite, voi del giornale Moniteur Industriel, che dite, adepti dei questo buon autore de Saint-Chamans, che ha calcolato con tanta precisione quanto l’industria trarrebbe profitto dall’incendio di Parigi, per la quantità di case che dovrebbero essere ricostruite? Sono spiaciuto di dover guastare i suoi calcoli ingegnosi, sebbene ne abbia fatto passare lo spirito nella nostra legislazione. Ma io lo prego di ricominciarli, facendo entrare nei suoi conti quello che non si vede di fianco a quello che si vede.

Bisogna che il lettore si soffermi a constatare bene che non ci sono solo due personaggi, ma tre, nel nostro piccolo dramma che io ho posto all’attenzione. L’uno, Giacomo Buonuomo, rappresenta il consumatore, costretto dal danno a godere di un solo vantaggio anziché di due. L’altro, il vetraio, ci mostra il produttore la cui industria è incoraggiata dall’incidente. Il terzo è il ciabattino (o qualunque altro mestiere), il cui lavoro è scoraggiato proprio per quella causa. E’ questo ultimo personaggio che si tiene sempre nell’ombra e che, impersonando quello che non si vede, è un elemento essenziale della questione. E’ lui che ben presto ci insegnerà che non è meno assurdo di vedere un profitto in una restrizione , la quale non è dopo tutto che una distruzione parziale. – Così, andate a fondo di tutti gli argomenti che si fanno valere in suo favore, non ci troverete che la parafrasi del motto popolare: che cosa sarebbe dei vetrai, se qualcuno non rompesse dei vetri?”

Qual è la morale della favola? Che Bastiat vede solo quello che gli piace “intravedere” ma questo non vuol dire saper guardare oltre l’evidenza e l’immediatezza dei fenomeni. Innanzitutto, se i vetri non si rompessero così facilmente quale stimolo ci sarebbe all’innovazione dell’industria vetriera e al miglioramento della produzione? Oggi tutto si rompe rapidamente ma ci troviamo nella condizione tecnologica per cui una cosa piuttosto che ripararla conviene ricomprarla. Siamo forse più poveri e meno efficienti? E’ lo spreco che genera il necessario. Quindi direi l’esatto contrario. Se i nostri piccoli criminali non si fossero esercitati con le vetrine del vicino forse non sarebbero potuti diventare grandi scassinatori di banche. Ma le banche ringraziano i rimedi ai troppi facili fracassamenti precedenti che hanno prodotto le vetrate balistiche a prova di furfante. Ugualmente ringraziano i produttori che hanno dovuto ingegnarsi e i lavoratori all’uopo impiegati. Per non dire delle altre ricadute non previste, non solo in termini di input ma anche di output. Ricordate l’apologo di Marx: “Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore compendi, eccetera. Un delinquente produce delitti. Se si considera piu’da vicino la connessione che esiste fra questa ultima branca di produzione e l’insieme della societa’, si abbandoneranno molti pregiudizi. Il criminale non solo produce crimini, ma anche il diritto penale e quindi anche il professore che tiene cattedra di diritto penale, e l’inevitabile manuale in cui questo stesso professore getta sul mercato generale i suoi contributi come “merce”. Cio’ provoca un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale che, come ci assicura un testimonio competente, il professor Roscher, la composizione del manuale procura al suo autore. Il criminale produce inoltre tutta l’organizzazione poliziesca e la giustizia penale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati, eccetera, e tutte quelle differenti professioni che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano le differenti facolta’ dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuove maniere di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle piu’ ingegnose invenzioni meccaniche, e nella produzione dei suoi strumenti ha dato impiego a una massa di onesti lavoratori. Il delinquente produce un’impressione, sia morale che tragica, secondo i casi, e rende cosi’ un “servizio” al movimento dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto penale, codici penali e legislatori penali, ma produce anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie, come dimostrano non solo “La colpa” di Mullner o “I masnadieri” di Schiller, ma anche l’ “Edipo” e il “Riccardo Terzo”. Il criminale rompe la monotonia e la calma tranquillita’ della vita borghese. Egli la preserva cosi’ dalla stagnazione e provoca quella inquieta tensione, quella mobilita’ senza la quale lo stimolo della concorrenza verrebbe smussato. Egli da’ cosi’ uno sprone alle forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della eccessiva popolazione al mercato del lavoro, diminuendo cosi’la concorrenza fra gli operai e impedendo, in una certa misura, la caduta del salario al di sotto del “minimum”, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione. Il criminale appare cosi’ come uno di quei fattori naturali di equilibrio, che stabiliscono un giusto livello e aprono tutta una prospettiva di “utili” occupazioni. Si potrebbe dimostrare fin nei dettagli l’influenza del delitto sullo sviluppo della forza produttiva. Le serrature sarebbero giunte alla perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? E Cosi’ la fabbricazione delle banconote, se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe forse trovato impiego nelle comuni sfere commerciali senza le frodi nel commercio? La chimica pratica non deve altrettanto alla falsificazione delle merci e agli sforzi per scoprirla, quanto all’onesto fervore produttivo? Il delitto con i suoi mezzi, sempre nuovi di attacco alla proprieta’, chiama in vita sempre nuovi mezzi di difesa, dispiegando cosi’ un’azione produttiva del tutto simile a quella esercitata dagli scioperi sull’invenzione delle macchine. E, abbandonando la sfera del delitto privato, senza delitti nazionali sarebbe forse sorto il mercato mondiale, o anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo, l’albero del peccato non e’nello stesso tempo l’albero della conoscenza? Mandeville, nella sua Fable of the bees (1705), aveva gia’ mostrato la produttivita’ di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Cio’ che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, e’ il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, e’ la solida base, la vita e il sostegno di tutti mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione[…]; e’ in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la societa’ sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonche’ Mandeville era, naturalmente, infinitamente piu’ audace e onesto degli apologeti filistei della societa’ borghese.”

Bastiat però vede oltre l’immanenza, eccetto quando si tratta di merce e mercato. Marx lo aveva già sbugiardato dimostrando che egli era accecato dalla sfera dello scambio, tanto da non aver capito che la valorizzazione della merce avviene, grazie alla combinazione dei vari fattori, nella sfera produttiva, anche se poi tale valore si deve realizzare nella vendita sul mercato. In secondo luogo, e qui torniamo alla sua celebrata frase ripresa all’inizio, Bastiat non vede che se il commercio si sviluppa pacificamente è perché ha alle spalle la forza di un esercito nazionale che ha imposto le sue regole (quelle dell’Inghilterra dell’epoca) a tutti spacciandole per neutrali. È facile essere arbitri quando si è gli unici interpreti del regolamento. Le merci viaggiano tranquillamente dopo che gli eserciti hanno già combattuto per la supremazia. Se tale preminenza decade e si riapre la contesa per i territori nulla è più al sicuro, né merci, né capitali, né uomini.
Ma, come detto, l’intento de Il Foglio, è quello di scontrarsi con le correnti economiche opposte (che sono sempre errate) come attesta il commento di L. Capone:

“Ci sono delle idee sbagliate di grande successo. Hanno sempre dato cattivi frutti quando sono state coltivate e nonostante ciò, ogni volta che si ripresentano sotto abiti diversi, ottengono sempre seguito tra le masse. Attirano consensi perché intuitive e semplici, ma sono sbagliate: l’aumento della spesa pubblica (o il taglio delle tasse) che per magia si ripaga da solo, fare opere pubbliche non perché servono ma per “dare lavoro”, proteggere le aziende nazionali dalla concorrenza straniera, favorire le esportazioni e penalizzare le importazioni, difendersi dall’innovazione – dai robot alle aziende digitali – perché la tecnologia distrugge posti di lavoro, mandare i più anziani prima in pensione per creare occupazione per i giovani, creare banche pubbliche per dare prestiti agevolati a chiunque non abbia credito dalle banche private oppure, perché no, stampare soldi per distribuirli a chiunque ne abbia bisogno”.

Questi stanno indietro di secoli, per questo vanno a ripescare negli sbagli del passato, dimostrando tutta la loro incapacità a capire il presente. E’ tutto da rifare, è tutto da buttare a mare. Questi sono ancora convinti che siano le teorie economiche a fare grandi le nazioni, ma ci vogliono tante merci quanto cannoni (con governanti capaci di maneggiarli nel contesto mondiale).