TU VUO’ FA’ L’AMERICANO, NAPOLITANO?

225px-Presidente_Napolitano

 

In una lectio magistralis pubblicata sul Corriere della Sera, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha fornito un’epitome della sua visione/versione dei processi geopolitici in corso, indicando i percorsi comunitari, le direttrici d’integrazione internazionale e il quadro delle alleanze mondiali che l’Italia e l’Europa dovrebbero perseguire nel loro cammino contemporaneo.

Il Capo dello Stato, nella sua esposizione, pur augurandosi l’avvento di una nuova èra di sano multilateralismo ribadisce, senza se e senza ma, l’indiscutibile amicizia del nostro Paese nei confronti dell’America e dell’Occidente, luoghi privilegiati della democrazia e dei diritti umani.

Della Russia, sua vecchia patria ideologica, Napolitano parla en passant, ricordando il recupero di posizioni strategiche ed il recente consolidamento politico, avveratosi grazie alle copiosa disponibilità di risorse energetiche. E la mantiene a debita distanza persino dai BRIC (anche se l’acronimo la include, quasi a voler esorcizzare le imminenti polarizzazioni non favorevoli agli yankees) che nella sua trattazione diventano i BIC, come la penna che gli sfugge di mano pur di non dare il dovuto risalto alla cura ricostituente realizzata da Putin e dal suo entourage, dopo anni di smobilitazioni e umiliazioni. Qualcuno dovrebbe però spiegare agli sherpa e agli spin doctors del Presidente che il gas ed il petrolio sono appena alcuni degli strumenti che hanno permesso alla nuova classe dirigente russa di riorganizzarsi politicamente e di rilanciare la sfida ai nostri tempi convulsi. Se bastassero le fonti energetiche per attivare la potenza statale, tanti paesi dell’Africa e del Medio-oriente sarebbero in prima fila nella competizione globale. Ed, invece, questi diventano, loro malgrado, esclusivamente il terreno di battaglia dei big mondiali che si disputano le loro risorse e che sfruttano la loro collocazione logistica sulle rotte epocali.

Se oggi il mondo è un posto dove le schermaglie non si risolvono con operazioni di polizia, che non richiedono nessun atto di diplomazia, se non vige la legge di un’unica superpotenza, aggressiva e tracotante, lo si deve, in primis, a Mosca e alla sua rinata leadership ad Est. Senza il contraltare del Cremlino, la Casa Bianca avrebbe esteso il suo spazio vitale ben oltre i confini attuali, che sono già abbastanza vasti e sempre in via di ridefinizione, puntellamento, allargamento ed, a volte, anche ridimensionamento tattico, a sostegno della sua guida egemonica, ormai in relativa decadenza.

Il multilateralismo non è processo che sorge dalla generosità dei dominanti e dallo spirito democratico dei singoli Stati, i quali condividono le decisioni per amore dei diritti e della libertà dei popoli, esso è, piuttosto, il risultato di una redistribuzione delle energie sulla scacchiera planetaria derivante da concreti e contrastanti rapporti di forza. Il multilateralismo è la conseguenza di uno sviluppo storico, non l’effetto dell’altruismo dei gruppi dirigenti nazionali; spesso, inoltre, questo termine gentile cela il tentativo di assorbire, per via procedurale, tensioni che, tuttavia, troveranno, presto a tardi, uno sbocco manifestamente conflittuale. Il multilateralismo è il concetto che dissimula agli occhi comuni l’irrefrenabile evoluzione multipolare delle disfide internazionali.

Inversamente da quanto afferma Napolitano, l’adesione incondizionata dell’Italia al patto occidentale, nella presente fase multipolare, sta portando scarsi vantaggi. Il nostro Paese avrebbe avuto opportunità migliori continuando a coltivare il terreno delle alleanze ad est e nel Mediterraneo, opzioni che sono state, invece, ostacolate dai nostri partner continentali ed extracontinentali, i quali hanno ostruito il flusso dei nostri affari e dei nostri accordi per dirottarli a proprio beneficio.

Così il Belpaese, ormai bello solo di fuori e completamente marcito all’interno, colpito a morte dalla crisi, che è débâcle di comando e di sovranità nazionale, prima ancora di essere default finanziario, è stato marginalizzato in tutti i consessi che contano. Essere rimasti a rimorchio degli Usa o a fare la ruota di scorta dell’UE, in ogni circostanza, anche quando ciò andava ad incidere negativamente sulla nostra sfera di sopravvivenza (come avvenuto con la guerra in Libia, le sanzioni all’Iran o la destabilizzazione della Siria, siti dove avevamo un bel giro d’affari e ottimi legami apicali), essersi rivelati pedissequamente assertivi, verso tutto quello che discendeva e discende dai centri decisionali atlantici ed europei, è stato il sintomo più evidente del meschino provincialismo e dell’autolesionismo dei nostri governanti, ed è a causa di queste mancanze di orizzonti e di coraggio che siamo stati retrocessi al rango di colonia povera della cornice occidentale.

A Napolitano va bene così. Ma ciò che va a pennello a questa oligarchia subdominante nostrana, come si può tristemente riscontrare, ci danneggia come collettività. Egli è stato l’artefice, sul finire degli anni settanta, di un salto di campo ideologico oscuro e abusivo, almeno alla luce di quello che l’élite piccìista andava raccontando ai suoi militanti e simpatizzanti, i quali, a lungo, hanno continuato a credere al ruolo del Partito Comunista, quale organizzazione anti-sistemica impegnata nell’edificazione di una formazione sociale alternativa al capitalismo. E’ stato lui il primo comunista ad attraversare l’Oceano per concordare con Washington il definitivo passaggio di campo del PCI mentre, già nel ’76, Enrico Berlinguer aveva preparato il terreno per la sterzata definitiva, affermando di sentirsi protetto sotto l’ombrello della Nato. Più che di un ombrello per la patria si è trattato di un paravento per un drappello di arrivisti e rinnegati, stanchi di vivere sull’uscio della stanza dei bottoni e disposti a tutto per conquistarsi il potere decisionale, anche ad abiurare i vecchi ideali e a svendere l’indipendenza nazionale. Per questo Giorgio Napolitano sarà ricordato, per sempre, come un grande Presidente. Negli Stati Uniti d’America.