UN PASSAGGIO ESSENZIALE NELLA TEORIA DI MARX

gianfranco

 

Si tratta di un brano, un semplice e solo brano delle migliaia di pagine scritte da Marx e spesso pubblicate dai suo successori, magari con aggiunte non sempre messe in evidenza nella loro non stesura (o almeno non completa e letterale) fatta proprio da lui. Ma non m’interessa nulla di tutto questo. L’importante è fissare le parti salienti di una teoria scientifica e mostrarne la rilevanza ancora attuale e, ancor più, laddove essa va rielaborata alla luce dell’esperienza storica di un secolo e mezzo! Riporto quindi un brano tratto dal III Libro de “Il Capitale”, cap. XVII.

<<<Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore, ossia il profitto totale (poiché lo stipendio del dirigente è o dovrebbe essere semplice salario di un certo tipo di lavoro qualificato, il cui prezzo sul mercato è regolato come quello di qualsiasi altro lavoro), questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, così separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale. In queste condizioni il profitto (e non più soltanto quella parte del profitto, l’interesse, che trae la sua giustificazione dal profitto di chi prende a prestito) si presenta come semplice appropriazione di plusvalore altrui, risultante dalla trasformazione dei mezzi di produzione in capitale, ossia dalla loro estraniazione rispetto ai produttori effettivi, dal loro contrapporsi come proprietà altrui a tutti gli individui REALMENTE ATTIVI NELLA PRODUZIONE, DAL DIRIGENTE ALL’ULTIMO GIORNALIERO [maiuscolo mio]. Nelle società per azioni la funzione è separata dalla proprietà del capitale e per conseguenza anche il lavoro è completamente separato dalla proprietà dei mezzi di produzione e dal plusvalore. Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori [come erano gli artigiani precapitalistici; nota mia], ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni, che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali.
…………………………[qui vi è un pezzo che si può tralasciare]
Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione. Essa si presenta poi come tale anche all’apparenza. In certe sfere stabilisce il monopolio e richiede quindi l’intervento dello Stato. Ricostituisce una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di parassiti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di direttori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni [non vi fischiano le orecchie?]. E’ produzione privata senza il controllo della proprietà privata. >>>.

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Discorso che mi sembra estremamente chiaro e non bisognoso di molti commenti per quel che significa. Certamente Marx scrive (appunti poi sistemati da Engels) un secolo e mezzo fa. E mi sembra presentare alcuni momenti di modernità. Tuttavia, ha in testa il capitalismo <<borghese>>, nato da quello mercantile e che presenta varie commistioni con elementi delle tradizioni, cultura, mentalità, della società precedente, in mano alla nobiltà. Ad un certo punto, almeno nella traduzione, salta fuori il nome di imprenditore, ma Marx non ha nozione dell’impresa come si andrà configurando già a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo; e che vedrà soprattutto il fiorire novecentesco del capitalismo statunitense, quello definito assai più tardi (1941) da Burnham capitalismo “manageriale”. Si tratta di quel capitalismo che per il momento ho definito, dopo un paio di decenni di studio, <<formazione sociale degli strateghi (funzionari) del capitale>>.
In Marx il fulcro dell’impresa è in realtà l’opificio industriale, sede del processo lavorativo in quanto trasformazione di materia prima in prodotto finito: di consumo oppure di investimento come ad es. le macchine e il complesso strumentale da impiegare in ulteriori processi trasformativi. Egli prende dunque in considerazione soltanto il dirigente di fabbrica, quello che poi verrà indicato dal marxismo successivo, ivi compreso Lenin, quale “specialista borghese”. Marx, insomma, attribuisce chiaramente al dirigente in oggetto, nella prima fase del capitalismo, la proprietà dei mezzi di produzione. Come scrive anche nelle Glosse a Wagner, l’ultimo lavoro economico di Marx scritto (ma pubblicato dopo la sua morte) negli anni 1881-82 – tra l’altro lo stesso periodo in cui invia la lettera (risposta) a Vera Zasulič, da cui i “marxisti” fuori di testa hanno tratto la conclusione che Marx smentisse tutta l’analisi de “Il Capitale” – in cui si afferma che il proprietario capitalista “contribuisce a creare ciò di cui si appropria”, cioè il plusvalore (che è il pluslavoro della forza lavoro salariata). E anzi per Marx (come per Lenin e ogni marxista scientifico e non “pietistico”) “senza direttore d’orchestra l’orchestra non suona” (per quanto bravi siano gli orchestrali). Di conseguenza, il capitalista di quella prima fase del modo di produzione capitalistico non solo “contribuisce a creare”, ma è proprio essenziale per la creazione (la produzione); senza di lui, addio pluslavoro e plusvalore, non si crea nulla.
Successivamente – per effetto non della “lotta di classe”, ma invece della competizione intercapitalistica in cui pochi hanno successo e molti falliscono – si verifica la centralizzazione del capitale con passaggio alla forma oligopolistica di mercato, caratterizzata fra l’altro dall’impresa quale “società per azioni”. A questo punto, nella previsione di Marx, il dirigente della “fabbrica” diventerebbe un lavoratore salariato a tutti gli effetti e verrebbe quindi a far parte dell’“associazione dei produttori”, cui spetterebbe ormai l’esecuzione dell’intero processo produttivo; il capitalista si riduce a mero proprietario (ad es. azionista) e il suo profitto è una “quasi” rendita (il dividendo azionario). Questa appunto l’interpretazione marxiana del processo evolutivo capitalistico, che risulta in tutta evidenza dal lungo brano citato.
“Qui casca il palco”. E qui è iniziata tutta la mia opera di revisione per eliminare quella centralità della proprietà, ormai superata. Si tratta di quella privata, quella di cui parla Marx. Non cambia proprio un gran che con quella statale. Questa potrebbe perfino essere ancora peggiore se dà vita ad un ceto di “burocrati” pressoché incapaci e soltanto succubi di un potere politico miope; assai diversa l’attitudine produttiva attribuita da Marx all’insieme dei produttori associati, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero”. Egli però scriveva nel 1860 e anni successivi; non è certo lui il responsabile della perdita di efficacia interpretativa del marxismo, ma i suoi seguaci incancreniti per ben oltre un secolo a cianciare sul preteso “socialismo”, sulla formazione sociale di quelli che non sono mai diventati “produttori associati”.
Già Kautsky (e Lenin non lo critica su tale punto) aveva capito che non si andava per nulla costituendo qualcosa di simile. Il gruppo dirigente dei processi produttivi, pur eventualmente privo della proprietà, era indicato come insieme di “specialisti borghesi”, pienamente assegnati alla classe dominante in convergenza semmai con i proprietari assenteisti (rispetto alla direzione di detti processi produttivi), che tuttavia invece sono spesso proprio gli strateghi delle politiche imprenditoriali nella “concorrenza” che solo gli stupidi liberisti riducono a semplice competizione nel mercato. In realtà, il grande dirigente d’impresa (ma non più dei processi produttivi) è proprio colui che assicura il collegamento con i veri apparati del potere politico, funzionale a detta “concorrenza”. Non a caso, un grande dirigente rivoluzionario come Lenin intuisce benissimo che il “monopolio” (la centralizzazione dei capitali) “non annulla la concorrenza, ma la spinge al suo livello più alto”. Ed è ovvio che sia così, dato che non si tratta più di concorrenza ma di reale conflitto (strategico) per le “sfere d’influenza”, conflitto che ingloba e dà forma specifica alla concorrenza mercantile.
I marxisti – dovendo riconoscere che l’alta dirigenza della produzione, pur non proprietaria, non faceva parte del “proletariato” o “classe operaia”, presunto soggetto della “rivoluzione anticapitalistica” – hanno allora insistito sulla rivoluzionarietà del “semplice giornaliero” (o poco più su), insomma dell’operaio di fabbrica, del Charlot di “Tempi moderni”. Veri fraintendimenti, che sono stati pure miei. Tuttavia, da più di vent’anni ho faticosamente iniziato una “marcia” almeno in buona parte diversa, di cui non parlo qui (ho scritto ormai centinaia, anzi potrei dire migliaia, di pagine in proposito). Tuttavia, ci sono problemi lungo la nuova via che non ho certo risolto. Ho scritto negli ultimissimi anni alcuni libri sempre dibattendo tale problema onde affinarlo per quanto possibile.
Ultimamente ho anche consegnato ad un blocco di video su Marx (le “dieci discussioni” accompagnate da un libro su “Denaro e forme sociali”) la coerentizzazione del suo modello teorico. Che io sappia, non esiste una altrettanto rigorosamente organica esposizione del modello teorico (scientifico) di Marx; anche al di là di ciò che egli avrebbe effettivamente detto o voluto dire. Non m’interessa affatto riempire le pagine di sue citazioni e cercare di diventarne l’esegeta e il “corretto interprete”. Per me Marx è una sorta di Galilei della scienza sociale. Bisogna capire quale salto ha fatto fare a quest’ultima al di là della consapevolezza che poteva averne all’epoca; mettendo inoltre in luce i limiti di tale modello teorico, proprio dovuti ai tempi in cui esso fu formulato.
Non pretendo però di aver risolto il problema. Non lo posso fare io, che appartengo alla vecchia epoca storica iniziata grosso modo con il marxiano “Manifesto del Partito comunista” (1848) e già in fase di trapasso (troppo lenta per la vita umana) da alcuni (pochi) decenni; fase oggi in accelerazione, ma non ancora vicina alla piena entrata nella nuova epoca. Quelli come me (di orientamento marxista ovviamente) hanno il compito di mettere ordine nella vecchia teoria, di estrarne il “succo” in base alle conoscenze attuali e alla esperienza storica di un buon secolo e mezzo. La mia reale intenzione è di far rilevare sia le alterazioni che essa subì già appena morto Marx sia l’errata sua previsione di dati eventi e la non realizzazione di altri pur iniziati in suo nome. Al massimo si possono indicare alcune ipotesi di revisione e fuoriuscita (ma sempre da “quella porta”). A chi saprà vivere realmente la “fase storica” che avanza, senza inutili nostalgie e indebite “frenate”, spetterà il compito di arrivare a nuove ipotesi e magari anche a effettive sintesi in ben diverse teorizzazioni intorno alla società, alle sue strutture e dinamiche evolutive.
Per questo ritengo fondamentale l’effettiva messa in circolazione delle mie “dieci discussioni su Marx” con il libro “Denaro e forme sociali”. ESIGO che tale mia “fatica” venga distribuita senza ulteriori indugi. In tutta la vita sono stato boicottato soprattutto dagli schifosi intellettuali e “operatori culturali” di una “sinistra”, che da alcuni decenni ormai è il cancro della nostra società; e che molti idioti (di ogni orientamento) confondono con i comunisti. Io sono stato comunista. E parlo al passato non per abiura, ma solo per il riconoscimento che nella storia certi movimenti si esauriscono. Per fare un esempio, continuo a nutrire grandi simpatie per i giacobini e il loro essenziale “anno del terrore”. Non posso però dirmi giacobino ai giorni nostri. E quindi nemmeno mi dico comunista, ma certo stimo e ricordo con affetto i “fu” comunisti e odio invece mortalmente gli ancora “sinistri”; perfino più degli ancora “destri” (ma anche loro…. per carità!). Parlo ovviamente dei gruppi dirigenti dei diversi schieramenti. I seguaci vanno considerati con ben altro atteggiamento più benevolo. I nervi però saltano spesso di fronte a certi farabutti e mentitori.

AVANTI CON MARX IN UNA SUA COMPLETA RIFORMULAZIONE!