uozz amerigan, auanagana… AIM SORRI FOR BERLUSCONI.. HIS MORTACC’.. (di A. F.)

La bacheca facebook di Barack Obama (una pagina ovviamente del tutto ignorata dal personaggio cui è dedicata la pagina, come spesso accade nel caso di volti pubblici) è stata riempita di messaggi da parte di utenti italiani, che hanno così voluto scusarsi per le frasi pronunciate all’ultimo G8 da Berlusconi, il quale ha sostanzialmente denunciato al suo omologo americano la situazione di supposta degenerazione di una larga parte della magistratura italiana. “Sorry Mr Obama”, detto dagli italiani, suona un po’ a metà strada tra la compiacenza dell’ammeregano Nando Moriconi, interpretato dal grande Alberto Sordi, e una frase dei figli della cameriera dopo che questa ha fatto cadere i cucchiaini da tè dal vassoio della colazione. In questo caso, il pasto abbondante del numero uno di Washington sembrerebbe proprio essere la Libia, sotto bombardamento e vittima di un’aggressione pianificata a tavolino da mesi (forse da anni), con l’infiltrazione di mercenari occidentali ed egiziani all’interno della Cirenaica, al fine di sostenere l’opposizione filo-monarchica e reazionaria insediata nell’area di Bengasi, destabilizzare la Repubblica Araba di Libia Popolare e Socialista, e provocare un terremoto mediatico mondiale, potendo così sbattere Gheddafi nella graticola della condanna internazionale, sulla scia di quanto già visto in precedenza con Slobodan Milosevic e con Saddam Hussein. Ciò che più atterrisce è che la presumibile stragrande maggioranza di questi antiberlusconiani che chiedono scusa a colui che rappresenta (soltanto figurativamente, è chiaro: a muovere le fila dello Stato Maggiore negli Stati Uniti sono soprattutto ben altri personaggi) la subordinazione del nostro Paese ai dettami dell’alleanza nord-atlantica, è composta da personaggi di sinistra, elettori del PD, dell’IdV o di SEL, e probabilmente anche diverse persone di Rifondazione, vista la posizione del partito di Ferrero, totalmente allineata alla vulgata disinformativa occidentale, tanto da spedire subito squadriglie d’assalto (assieme al PCL di Ferrando e a Sinistra Critica) contro l’Ambasciata Libica di Roma, con bandiere monarchiche e neo-coloniali di Re Idris alla mano. 

Obama è dunque ancora un “buono”, nonostante fosse chiaro già da un secolo che i Presidenti degli Usa non sono mai buoni (sicuramente anche quelli delle altre potenze non sono “buoni”, come un po’ tutti i leader del mondo, ma almeno non si atteggiano da tali), e che la sua elezione rappresentasse semplicemente un cambiamento nel make-up da parte di Washington, pronta a piazzare alla White House un afro-americano democratico ben inserito nell’alta società, per dare fiato alle trombe propagandistiche (andate troppo “fuori accordo” negli otto anni di Bush, specie per quanto riguarda i rapporti con l’Europa) di un american dream ormai morto e sepolto da almeno quaranta anni. La gente d'altronde ci crede ancora e tra un auanagana e un Kansas City campa coi suoi ricordi: la babbiona cresciuta con Jack Kerouak o con Patti Smith non rinuncia al suo sogno, e nemmeno i quarantenni hanno intenzione di dimenticarsi del loro “paninozzo” al Burghy sognando di guidare il caccia come dei novelli Tom Cruise su Top Gun. Qualunque sia la tendenza “politica”, mamma Amerika non si discute, e, a parte un lievissimo cedimento tra l’elettorato di destra nei primi periodi della guerra, ormai tutti si sono ricompattati. La guerra in Libia non è più percepita come tale, anzi non è proprio percepita per nulla. Vespa si costruisce un nuovo plastico per la sua solita menata notturna di cronache nere, Vinci si spara una posa da vero reporter col ciuffo (che fa molto ammeregano) e preferisce concentrarsi sulle “fondamentali” vicende interne inerenti a Fabrizio Corona, e nei telegiornali si continua a mostrare il solito gruppetto di “ribelli” in mezzo a un deserto che spara nel cielo contro delle tremende particelle di O2 (l’arcinoto e pericolosissimo OSSIGENO), lanciate evidentemente da Gheddafi. 
Dal momento che gli Usa non vogliono e non possono avventurarsi all’interno di questa ennesima ipotetica sabbia mobile, dopo i fallimenti in Afghanistan e in Iraq (dove prosegue come se nulla fosse una quasi decennale occupazione militare, senza che nessun media generalista ci informi di nulla) per ora si tenta di risolvere la diatriba internazionalmente, sperando in un cedimento della Russia, debolmente rappresentata da un codardo liberale come Medvedev (ad oggi il più grave errore di Putin dopo quello di non aver messo a morte Berezovskij, Prokorov, Chernoi, Gusinskij e Kodorkhovskij), ma anche in condizione di pesante inferiorità strategica nei confronti degli Usa, oltre che nella possibilità di ottenere in cambio l’allentamento della morsa atlantica nei confronti della Siria, vero (e probabilmente unico) partner affidabile di Mosca in Medio Oriente, sin dai tempi della Guerra Fredda. 
La visita di Obama in Polonia subito dopo il G8 di Deauville, non promette niente di buono per la Russia, e l’ordine del giorno di ridiscutere con il nuovo presidente polacco il programma missilistico non lascia spazio alla fantasia. Mosca, come del resto anche Pechino, sono ancora in una posizione di inferiorità strategica e politica nei confronti di Washington, forte di una possibilità di spesa militare ancora gigantesca (seppur più limitata del passato), dei suoi partenariati in Medio Oriente (Arabia Saudita) e in Asia (Giappone, Corea del Sud e Taiwan) e, ovviamente, di un’alleanza dai poteri decisionali de facto unilaterali come la Nato. Siamo soltanto all’inizio di una fase che abbiamo iniziato a chiamare multipolare: gli elementi concreti per poterne parlare esistono. Il cedimento del potere di Saakashvili in Georgia e l’arresto della Tymoshenko in Ucraina (personaggi quasi linciati dalle rispettive folle al grido di “Addatornà Baffone”, ma abilmente dipinti come “democratici” dalla disinformazione nord-atlantica che evidentemente ha ben imparato a suddividere le rivolte popolari in “degne di nota e di sostengo” e in “cattive da silenziare”), oltre alla rinnovata unione doganale tra Mosca, Astana e Minsk, sta ponendo le prime basi per un progressivo percorso di ricostruzione dell’Impero geopolitico di cui la Russia è depositaria ed erede da secoli, ivi compresa l’Era Sovietica. La Cina, al contrario, è politicamente compatta, con uno Stato forte ed un territorio praticamente impenetrabile, ma commercialmente e finanziariamente ancora troppo vincolata agli umori dei mercati occidentali per poter mettere a frutto in modo pieno i successi ottenuti in campo strategico e tecnologico. 
Siamo in una fase di transizione che dall’unipolarismo ci sta conducendo verso il multipolarismo, perciò, come in ogni periodo storico di cambiamento che si rispetti, i risvolti e le dinamiche non sono mai chiari e nitidi. In ogni caso, non possiamo certo sperare (e purtroppo sta diventando un’abitudine) che altre potenze risolvano i nostri problemi e compensino in qualche modo le nostri pesanti limitazioni di sovranità. Anche se un giorno la Russia o la Cina dovessero scalzare lo strapotere atlantico, avremmo comunque tra i piedi milioni di deficienti di casa nostra pronti a chiedere scusa all’Obama di turno.