USA, LA CARTA DEL PACIFICO

 

 

Quella che possiamo indicare come la fase post-atlantica costituisce il torno temporale del passaggio dall’epoca bipolare e dalla tentazione unipolare ad un riassetto multipolare in via di definizione. Per forza di cose, nello stesso tempo costituisce una graduale decomposizione della struttura sistemica a matrice americana. In questa incerta transizione, tra le diverse carte giocabili, quella di un rinnovato controllo dei mercati dell’area asiatica – come dimostrano gli eventi – rimane per Washington prioritaria. La globalizzazione non sfugge alla geopolitica.

 

Sorvolando sull’interesse e sul peso rilevanti dei fronti di guerra aperti americani, un fattore cruciale è la trasposizione in itinere sullo scacchiere eura-asiatico, e in particolare sul versante transpacifico, delle dinamiche economiche decisive. E ciò è anche la trasposizione, ormai il consolidamento, di alcune delle principali dinamiche geopolitiche nella contesa della bilancia di potenza. A dimostrazione di quanto la riproposizione della porta aperta sia parte stessa di una leva politica, sta l’accentuato interesse statunitense ai mercati dell’Asia come strategia ad excludendum di potenziali attori regionali predominanti e concorrenti. E sta, appunto, a dimostrazione che l’implementazione del libero mercato non esula da una funzione fortemente politica e geostrategica. Di fatti, ora si tratta di una risposta di Washington alla sua crisi egemonica.

L’attualità scorre sul filo delle analogie storiche. Negli anni Trenta-Quaranta si misuravano le aspirazioni al proprio “grande spazio” da parte di Tokyo e Berlino, rispettivamente in Asia e in Europa. La bilancia di potenza risentiva di forte spinte imperialistiche. Come non mancava di evidenziare allora Carl Schmitt nei suoi scritti politici, gli Stati Uniti operavano già nell’area asiatica per mezzo della dottrina Stimson del 1932. Il Segretario di Stato dell’amministrazione Hoover ribadiva come interesse vitale americano il mantenimento della “porta aperta” in Cina di fronte all’attacco giapponese in Manciuria. Non si trattava di una levata di scudi a protezione del regime di libero scambio quanto la conferma di una presa di posizione contro la “dottrina Monroe nipponica”, cioè l’aspirazione di Tokyo ad una sfera di influenza in Asia. Non era nemmeno la sottolineatura di uno strumento economico pacifico di contro allo strumento bellico. Era un’azione strategica di controllo. La filosofia della porta aperta che Stimson riannoda nella sua dottrina rappresentava già un elaborato della politica estera statunitense nel varcare le soglie del XX secolo. (Nel corso degli anni ha avuto più di un’interpretazione sia da parte dei decisori politici che nell’ambito del dibattito specialistico). Allora, in un primo approccio, come indicato dal presidente Theodore Roosevelt nel 1905, Washington riteneva congeniale ai propri interessi che Tokyo esercitasse influenza economica sulla Cina se ciò avesse significato, da una parte, maggiori margini di penetrazione del capitale anglo-americano nell’area asiatica (fatte salve le divergenze con Londra) e, dall’altra, una bilancia tra Russia e Giappone sul territorio cinese. In questo senso, la “dottrina Monroe nipponica” poteva non essere motivo di frizione, se fosse rimasta legata ad un dispositivo diplomatico di sostanziale equilibrio e accordo. E siamo – crediamo – ad una rilevazione strategica fondamentale che ci ricollega allo schema del liberal-capitalismo come instrumentum regni della potenza a vocazione dominante: gli americani immaginavano ciò nella sicurezza di disporre con Londra di un apparato industriale produttivo e militare tale da consentire loro il controllo delle materie prime e la supremazia nei mercati nonché il mantenimento di un equilibrio di sicurezza tale da fugare minacce. Tuttavia, lo stesso T. Roosevelt aveva in conto che, riguardo per esempio alla Manciuria, non si dovesse fare in modo che i giapponesi recepissero come ostile la “porta aperta”. Anzi, paventava già che un intervento militare – e quindi un innalzamento degli obiettivi strategici – di Tokyo avrebbe inevitabilmente indotto gli USA a scendere sul campo di battaglia. Di fatto, uno dei nodi del secondo conflitto mondiale è qui già ben manifesto.

Del resto, agli inizi del ‘900 – scenario multipolare – gli americani non disponevano dei necessari mezzi politico-militari per procedere come successivamente fecero allorchè l’influenza nipponica in Asia divenne concreto pericolo. Infatti, la retorica della porta aperta cozzava palesemente con la logica di una bilancia di potenza che non pendesse a favore di Washington. Il disconoscimento di interessi strategici altrui, ieri come oggi, era funzionale al controllo degli spazi continentali. Accadde poi che, incenerita l’aspirazione nipponica, la dinamica della bilancia portò la Russia sovietica a colmare il vuoto lasciato dal Giappone. La guerra di Corea (attenzione alle frizioni attuali su questo versante e alle sue possibili analogie strategiche) fu proprio il risultato di questa alterazione degli equilibri. Tuttavia, Washington non mancò di incidere nuovamente sulla proiezione di Tokyo, in ascesa economica ma con pesanti vincoli di sovranità. L’intervento in Vietnam, nel ventaglio degli obiettivi, sul piano strategico riproponeva in Indocina quello della dottrina Stimson di incunearsi nella sfera di influenza giapponese. Questa volta con l’intento di evitare che il potenziale industriale nipponico fungesse da testa di ponte nel vasto blocco russo-cinese. Pechino, dal canto suo, era già in fase di sganciamento da Mosca e l’abilissimo Kissinger mise sul piatto un’alleanza che arginasse l’influenza di Russia e Giappone e impedisse egemonie in Asia. Ancora oggi, con Lenin, possiamo individuare nella forza economica ed in quella politico-militare i due piani combinati di una potenza.

È interesse degli Stati Uniti che l’area asiatica non venga loro preclusa e che in essa non maturi alcuna effettiva potenza né una piattaforma politico-militare composta da più attori. Nel lavorare per il mantenimento di una comunità economico-finanziario-commerciale come l’APEC in cui essi stessi siano inclusi, ricalcano mutatis mutandis i presupposti concettuali della “porta aperta”. In siffatta visione strategica si innestano i crescenti accordi e legami che gli americani vanno non solo rinsaldando, ma incrementando. Solo che ora l’obiettivo è Pechino e non Tokyo, che fu poi colpita tatticamente con il primo conflitto iracheno con la strozzatura americana delle rotte petrolifere. Così, se il dispositivo delle relazioni liberiste improntato sul Washington Consensus ha depotenziato la direttrice di influenza del Giappone, ora la strategia tende a ripetersi con la Cina, puntando anche sull’India come fattore di contro-bilanciamento. Gioco non facile, perché si muovono potenze notevoli anche sotto il profilo demografico; perché gli USA – si è visto – non detengono più in esclusiva le redini economiche globali e Pechino stessa rivendica piena autonomia di scelta e di movimento.

Si parla di Beijing Consensus, ad indicare quella struttura di legami ed iniziative più interventista (statalista), con cui Pechino penetra nei mercati, costruisce, raccoglie energia e materie prime, fa acquisizioni e crea dipendenze. Una dottrina Monroe a proprio modo, seguendo l’analogia prima indicata. Ma la Cina ha essa stessa sfruttato il dinamismo liberista, cogliendo l’occasione di modellarsi come forza esportatrice sui mercati internazionali e ora la sua leva monetaria è un’arma di primo livello. Pechino irrompe laddove il monopolio americano dell’economia mondiale tale più non è. Viaggia sì sul treno della globalizzazione, ma non segue i canoni americanocentrici. E ora nello scenario multipolare partecipa a pieno titolo alla bilancia di potenza, tentando di sgretolare la rete di controllo statunitense. E’ una vocazione a vasta portata regionale con significativi riverberi anche internazionali, ma che non deve indurre a credere ad una contrapposizione dualistica per tutta una serie di fattori sistemici.

In questa fase post-atlantica, un pesante blocco di interessi politico-economici – non più marginali ma centrali per l’intero sistema globale – si consolida sul versante del Pacifico con attori regionali più forti. Impossibilitata al ritiro, Washington rilancia la carta della penetrazione nei mercati asiatici per difendersi dalla crisi e per partecipare alle partita degli equilibri geopolitici.