Commento di Massimo Morigi all’intervista di Gianfranco La Grassa: “Intervista (teorica) di G. La Grassa (di F. Ravelli)”, pubblicata su “Conflitti e Strategie” in data 15 luglio 2016

Karl-Marx

 

 

Oltre alla “falsificazione” di Marx,  la nascita mai avvenuta della nuova classe al potere del lavoratore collettivo cooperativo associato, sulla quale ci soffermeremo fra poco, siamo di fronte a due ulteriori “crampi” del pensiero marxiano che, uniti alla “falsificazione” di cui sopra ci consentono davvero, alla luce dell’impostazione conflittuale-strategica lagrassiana, di compiere un passo  decisivo per lo uno sviluppo delle scienze sociali e storiche che, non solo rivoluzionino gli attuali paradigmi teorici, ma anche possano dare l’inizio ad una reale prassi sociale anch’essa rivoluzionaria rispetto agli stantii paradigmi  politici democraticistici. Partiamo, molto semplicemente,  dal passo fondamentale del Capitale dove Marx individua il carattere del tutto ideologico dell’allora  (e tuttora) imperante economia politica: “Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico. Però una cosa è evidente. La natura non produce da un lato possessori di denaro o di merci e dall’altro semplici possessori della propria forza lavorativa. Tale rapporto non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia. È evidente come esso sia il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molte rivoluzioni economiche, della caduta di una intera serie di più vecchie formazioni della produzione sociale.” (Karl Marx, Il Capitale, trad. it., Roma, Newton Compton, 1970, I, pp. 199-200). Marx ci dice quindi, al contrario di quanto sostenevano gli economisti classici (e di quanto sostengono ancor oggi gli attuali economisti),  che è la storia e non la natura a produrre la società dominata dal capitalismo e che, di conseguenza,  le presunte leggi economiche non sono per niente naturali ma totalmente dovute all’evoluzione storica.  Questo totale cambio di paradigma segna ad un tempo la grandezza ed anche l’enorme ed invalicabile limite di Marx (e di tutte le varie scuole di pensiero e di azione che da lui prenderanno origine). Detto in estrema sintesi: vero è che la società capitalistica  e le presunte leggi dell’economia non hanno  affatto l’ineluttabilità della natura ma sono di pura origine storico-sociale. Falso è, come invece traspare chiaramente dal testo appena citato, che sussista una suddivisione reale fra natura e storia. Come ho già affermato in altri luoghi, questo errata epistemologia è l’errore  più grande di tutta la tradizione filosofica occidentale, al quale, con risultati del tutto insoddisfacenti cercarono di porre rimedio Hegel e Schelling e che, quindi, non si può fare particolare biasimo a Marx per esservi caduto. Ma se non si può certo biasimare  in particolare Marx per questo errore, su un piano del giudizio storico sono del tutto da deprecare i problemi derivati da questo errore. La conseguenza, veramente nefasta, è stata una visione terribilmente ristretta del metodo dialettico dove da una parte, cioè nel cosiddetto Diamat – sviluppo teorico finale delle cosiddette tre pseudoleggi dialettiche di Engels illustrate nella sua Dialettica della natura e nell’Anti-Dühring (conversione della quantità in qualità, compenetrazione degli opposti e negazione della negazione, tre leggi che sono la scimmiottatura della logica aristotelica) –,  la dialettica è diventata una forma corrotta di pensiero positivistico e che, sulla linea dell’ ineluttabilità di queste leggi pseudodialettiche engelsiane,  ha smesso, appunto, di essere dialettica per trasformarsi in instrumentum regni dei regimi totalitari del socialismo reale; dall’altra parte invece, cercando di preservare i limiti di libertà e di creazione prassistica dell’azione che  dovrebbe consentire la dialettica stessa, si è cercato di staccare la dialettica dalla comprensione dei fenomeni naturali, gravissima perdita gnoseologica il cui esempio più famoso è quello di  György Lukács, dove in Storia e coscienza di classe affermò che “Questa limitazione del metodo alla realtà storico-sociale è molto importante. I fraintendimenti che hanno origine dall’esposizione engelsiana della dialettica poggiano essenzialmente sul fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura.  Mentre nella conoscenza della natura non sono presenti le determinazioni decisive della dialettica: l’interazione tra soggetto  ed oggetto, l’unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro  modificazione nel pensiero, ecc. Purtroppo è qui impossibile discutere di questi problemi in modo più minuzioso.”(György Lukács, Storia e coscienza di classe, Milano, Sugar Editore. p.6). Altrove, sempre in Storia e coscienza di classe, Lukács sembra arrivare quasi ad un passo dallo scioglimento del nodo gordiano fra storia e natura che lo ha bloccato nel passo appena citato. Ad un passo senza mai arrivarci e non ci vuole molta immaginazione per vedere dove poggiasse questa impossibilità di “discutere di questi problemi in modo più minuzioso”: certamente non solo di natura teorica ma, soprattutto, di natura molto, molto pratica… Torniamo ora a Marx, quando afferma nella prefazione alla prima edizione del Capitale con una evidente contraddizione (per niente dialettica) rispetto al passo sempre del Capitale appena citato : “Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personalizzazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi.” Qui la società è quindi per Marx assimilabile ad una sorta di processo naturale, gli uomini piuttosto che agire in esso sono agiti da  forze che li sovrastano e la loro natura, insomma, è quella del gattungswesen, un ente naturale generico determinato dalle leggi e dalle forze che agiscono nella società stessa. In questo passaggio si sviluppa sì una linea di pensiero che unisce società e natura ma è una linea di pensiero similpositivistica, anticipatrice della Dialettica della natura e dell’ Anti-Dühring di Engels prima e poi del Diamat di cui abbiamo già detto. Veniamo ora ai nostri giorni. IL conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa nasce dopo la definitiva consunzione, filosofica prima che politica, di tutta la tradizione marxista che, se a livello storico-politico, è crollata per l’inefficienza economica del sistema unito alle lusinghe (totalmente) false del paese dei balocchi della forma di stato  “democratico-capitalistica”, sul piano teorico e filosofico aveva fatto bancarotta in ragione del suo economicismo,  che  prendeva le forme ideologiche di stato “diamattine” di un positivismo degradato, di modelli  economici meno inefficienti di quelli del cosiddetto “libero mercato” capitalistico e, last but not the least, di una  visione filosofica dell’uomo come gattungswesen, un ente naturale generico completamente sottoposto alle determinazioni sociali, con la non irrilevante conseguenza che alla mitizzata classe operaia (mito che era una versione degradata del  lavoratore collettivo cooperativo  associato) veniva riservato un trattamento da gattungswesen, appunto, mentre alla nomenklatura veniva, in pratica, violentemente concesso di “elevarsi al di  sopra” di essa; realizzando cioè nella prassi, a solo uso e consumo della burocratica classe dominante, un compiuto modello conflittuale-strategico, in cui il dominato era la tanto mitizzata (e presa per il fondelli) classe operaia-gattungswesen.  Il conflittualismo strategico di Gianfranco La Grassa, portando esplicitamente il conflitto al centro dell’interpretazione della società,  mantiene e approfondisce la fondamentale critica marxiana sulla naturalità dell’economia politica,  chiude quindi definitivamente con tutta questa tradizione marxista – economicistico-positivistico da una parte (diamat) o dialettico-dimidiata (massimo esempio quella avanzata da György Lukács in Storia e coscienza di classe) –  e però, per il completo sviluppo rivoluzionario del suo paradigma, è per lo scrivente assolutamente necessario un dialettico riorientamento gestaltico sia del  conflitto strategico che del suo stesso concetto. Questo riorientamento passa A) attraverso un deciso abbandono della mainstream impostazione della cultura occidentale che vede una suddivisione fra storia e natura (o cultura e natura) e quindi B) un ripudio delle categorie positivistiche, in primis quella di legge di natura deterministica e immodificabile ed immutabile. Insomma, e qui dissento da La Grassa, non è che il pensiero possa più o meno riprodurre la realtà, il punto è che il pensiero, se realmente pensiero strategico, produce la realtà. E su questo punto mi taccio, in parte perché la giustificazione di questa mia  ultima affermazione dovrebbe essere trovata nelle parole che la hanno  qui preceduta (e che, oltre a quanto ho già scritto o è in corso di pubblicazione sulla dialettica del  “Repubblicanesimo geopolitico”,  sono sulla falsariga di una filosofia della praxis che, partendo dalle marxiane Glosse a Feuerbach approda prima in Giovanni Gentile – cfr. del filosofo dell’attualismo La filosofia di Marx del 1899 –   e poi nella filosofia della praxis compiutamente espressa da  Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere) e in parte perché, oltre La Grassa, altri grandi (vedi la teoria del rispecchiamento di   Lenin in Materialismo e empiriocriticismo), hanno sempre espresso una differente opinione, un contraddittorio che necessita una puntuta analisi delle relative fonti e non certo il presente discorso da intendersi come inquadramento generale del  necessario e, ormai, non più rinviabile dibattito.

Massimo Morigi, 16 luglio 2016