Le ambizioni geografiche della Turchia

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[Traduzione di Francesco D’Eugenio da: Turkey’s Geographical Ambition – di R.Kaplan&R.Bhalla]

In un’epoca in cui l’Europa ed altre parti del mondo sono governate da mediocrità da dimenticare, Recep Tayyip Erdogan, Primo Ministro della Turchia per un decennio, trasuda ambizione. Forse l’unico altro leader di una grande nazione che emani un tale dinamico campo di forza attorno a sé è il russo Vladimir Putin, con il quale l’Occidente si trova molto a disagio.

Erdogan e Putin sono ambiziosi perché sono uomini senza remore che capiscono la geopolitica. Putin sa che un leader russo coscienzioso si assicura che la Russia abbia delle zone cuscinetto di qualche tipo in posti come l’Europa Orientale e il Caucaso; Erdogan sa che la Turchia deve diventare una considerevole potenza nel vicino oriente per poter guadagnare peso in Europa. Il problema di Erdogan è che la geografia turca, sospesa tra est e ovest, contiene tanti punti deboli quanti benefici. Ciò fa sì che a volte Erdogan si spinga troppo in là. Ma c’è una ragione storica e geografica dietro i suoi eccessi.

La storia comincia dopo la Prima Guerra Mondiale.

Poiché la Turchia Ottomana figurava nello schieramento perdente in quella guerra (assieme alla Germania guglielmina e all’Austria degli Asburgo), i paesi vincitori nel Trattato di Sevres del 1920 ritagliarono la Turchia e la sua periferia, assegnando territori e zone di influenza a Grecia, Armenia, Italia, Gran Bretagna e Francia. La reazione turca a tale umiliazione fu il Kemalismo, la filosofia di Mustafà Kemal Ataturk (il cognome “Ataturk”significa “Padre dei Turchi”), il solo generale ottomano imbattuto, che avrebbe guidato una rivolta militare contro le nuove potenze occupanti creando così uno stato sovrano turco attraverso il cuore dell’Anatolia. Il Kemalismo cedette volontariamente le parti non anatoliche dell’Impero Ottomano, ma compensò esigendo uno stato mono-etnico turco nell’Anatolia stessa. I curdi sparirono, per esempio. Essi divennero da allora in poi “Turchi di Montagna”. Sparì, infatti, l’intero edificio multiculturale dell’Impero Ottomano.

Il Kemalismo non rifiutò soltanto le minoranze, ma respinse anche la grafia araba della lingua turca. Ataturk rischiò tassi di analfabetismo maggiori pur di dare al turco l’alfabeto latino. Abolì i tribunali religiosi musulmani e scoraggiò l’uso del velo nelle donne e del fez negli uomini. Ataturk rilanciò inoltre i turchi come europei (senza curarsi troppo se gli europei li avrebbero o meno accettati come tali), tutto nel tentativo di ri-orientare la Turchia dall’Impero Ottomano ormai defunto in Medio Oriente e verso l’Europa.

Il Kemalismo fu una chiamata alle armi: la reazione marziale turca al Trattato di Sevres, nella stessa misura in cui il neo-zarismo di Putin è stato la reazione autoritaria all’anarchia di Eltsin nella Russia degli anni ’90. Per decenni la venerazione di Ataturk in Turchia andò oltre il culto della personalità: egli era piuttosto un semidio severo, benevolente e protettivo, il cui ritratto scrutava l’interno di ogni edificio pubblico.

Il problema era che il piano di Ataturk di orientare la Turchia così fortemente verso ovest si scontrava con la situazione geografica della Turchia, a cavallo tra occidente e oriente. Era necessario un riassestamento. Lo fornì Turgut Ozal, un religioso turco con tendenze sufi eletto Primo Ministro nel 1983.

Le capacità politiche di Ozal lo resero in grado di strappare gradualmente il controllo della politica interna e – in misura impressionante – della politica estera dalle mani fermamente kemaliste dei militari turchi. Laddove Ataturk e le generazioni di ufficiali turchi che lo seguirono pensavano in termini di una Turchia appendice dell’Europa, Ozal parlò di una Turchia la cui influenza si estendeva dall’Egeo alla Grande Muraglia Cinese. Nella mente di Ozal, la Turchia non avrebbe dovuto scegliere tra est e ovest. Essa era racchiusa geograficamente in entrambi e pertanto doveva rappresentarli politicamente entrambi. Ozal restituì il rispetto pubblico all’Islam, anche mentre appoggiava il Presidente USA Ronald Reagan durante l’ultima fase della Guerra Fredda. Grazie al suo filo-americanismo ed alla sua abilità nel maneggiare i kemalisti, almeno in Occidente Ozal – più di ogni suo predecessore – riuscì a farla franca pur essendo islamico.

Ozal utilizzò il linguaggio culturale dell’Islam per aprire la porta all’accettazione dei curdi. L’alienazione della Turchia dall’Europa a seguito del colpo di stato militare del 1980 permise ad Ozal di sviluppare legami economici con la Turchia orientale. Gradualmente diede potere ai musulmani devoti dell’Anatolia interna. Ozal, vent’anni prima di Erdogan, vide la Turchia quale campione dell’Islam moderato per tutto il mondo musulmano, sfidando il monito di Ataturk che una tale politica pan-islamica avrebbe fiaccato le forze della Turchia esponendo i Turchi alle voraci potenze straniere. Il termine neo-ottomanesimo fu infatti usato per la prima volta negli ultimi anni del governo di Ozal.

Ozal morì improvvisamente nel 1993, aprendo le porte a un decennio inutile per la politica turca, segnato dall’aumento della corruzione e dall’inconcludenza della dormiente élite secolare turca. La scena era pronta per Erdogan e i suoi seguaci islamici per una vittoria elettorale schiacciante nel 2002. Laddove Ozal veniva dal partito di centro-destra della Madrepatria, Erdogan veniva dal Partito Giustizia e Sviluppo, più apertamente islamista, sebbene lo stesso Erdogan e alcuni dei suoi consiglieri avessero moderato le loro idee nel corso degli anni. Naturalmente, ci furono molti cambiamenti nel pensiero politico islamico in Turchia tra Ozal ed Erdogan, ma una cosa è chiara: sia Ozal che Erdogan furono come due fermagli per i rispettivi periodi. In ogni caso a differenza di tutti i leader attuali in Europa e negli Stati Uniti, Erdogan aveva una visione simile a quella di Ozal, una visione che costituiva un ulteriore allontanamento dal Kemalismo.

Al posto della predilezione di Ataturk per l’esercito, Erdogan, come Ozal, ha coltivato il soft power delle connessioni economiche e culturali per ricreare in modo benigno e sottile una versione dell’Impero Ottomano dal Nord Africa all’Altopiano Iranico e all’Asia Centrale. Si rammenti che secondo l’interpretazione di uno dei più grandi studiosi occidentali dell’Islam, il defunto Marshall G. S. Hodgson dell’Università di Chicago, la religione islamica era originariamente un credo di mercanti, che unì i seguaci di oasi in oasi, permettendo scambi equi. Nella storia islamica, connessioni religiose autentiche attraverso il Medio Oriente e l’Oceano Indiano potrebbero – come infatti fecero – portare a relazioni commerciali salutari e a clientele politiche. Pertanto la storia medievale è assolutamente rilevante per il mondo post-moderno.

Erdogan si rende ora conto che proiettare il potere musulmano moderato della Turchia in tutto il Medio Oriente è pieno di complessità frustranti. Infatti, non è nemmeno chiaro se la Turchia abbia una capacità politica e militare per attualizzare tale visione. Vale a dire, la Turchia potrebbe provare a fare del suo meglio per aumentare il commercio con i vicini orientali, ma ancora non si avvicina ai grandi volumi commerciali della Turchia con l’Europa, ora impantanata in recessione. Nel Caucaso e in Asia centrale, la Turchia richiede influenza sulla base di affinità geografiche e linguistiche. Eppure, la Russia di Putin continua a esercitare una significativa influenza negli stati dell’Asia centrale e, attraverso l’invasione e le successive manovre politiche in Georgia, ha messo l’Azerbaigian in una posizione estremamente scomoda. In Mesopotamia, l’influenza della Turchia è semplicemente minore rispetto a quella del più vicino Iran. In Siria, Erdogan e il suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, hanno pensato – in modo non corretto, si scopre – che potevano effettivamente plasmare una opposizione islamista moderata sunnita per sostituire il regime alauita del presidente Bashar al-Assad. E mentre Erdogan ha guadagnato punti in tutto il mondo islamico per la sua travolgente opposizione nei confronti di Israele, egli ha poi imparato come tutto abbia un prezzo: l’animarsi delle relazioni tra Israele, la Grecia e la parte greca di Cipro, che ora permette agli avversari della Turchia nel Mediterraneo orientale di cooperare nel settore degli idrocarburi.

La radice del problema è in parte geografica. La Turchia costituisce un bastione di montagne e altipiani, che si situa nella mezza isola del ponte di terra anatolica compresa tra i Balcani e il Medio Oriente. Non è chiaramente parte integrante di un territorio come l’Iraq, per esempio, nel modo in cui l’Iran lo è; e la lingua turca non gode più del vantaggio della scrittura araba, che potrebbe dargli una maggiore leva culturale da altre parti nel Levante. Ma, cosa più importante, la Turchia è di per sé tormentata dalla sua stessa popolazione curda, che complica i suoi tentativi di esercitare una leva nei confronti dei vicini stati del Medio Oriente.

Il sud-est della Turchia è demograficamente dominato da un etnia curda, e confina con vaste regioni curde in Siria, Iraq e Iran. L’attuale frammentazione della Siria potenzialmente permette ai curdi presenti lì di unirsi con i curdi radicali in Anatolia, al fine di minare la Turchia. La rottura de facto dell’Iraq ha costretto la Turchia a seguire una politica di contenimento costruttivo con il nord curdo dell’Iraq, ma questo  ha minato la leva della Turchia nel resto dell’Iraq – in tal modo, a loro volta, minando i tentativi della Turchia di influenzare l’Iran. La Turchia vuole influenzare il Medio Oriente, ma il problema è che rimane troppo una parte del Medio Oriente per potersi districare dalle complessità della regione.

Erdogan sa che deve prima risolvere almeno parzialmente il problema dei curdi all’interno per ottenere altro potere nella regione. Egli ha anche menzionato ad alta voce la parola araba vilayet, associata all’Impero Ottomano. Questa parola denota una provincia semiautonoma, un concetto che potrebbe costituire la chiave per una sistemazione con i curdi locali, ma potrebbe allo stesso tempo riaccendere i suoi rivali nazionalisti all’interno della Turchia. Pertanto il suo è un grande passo simbolico che aspira a neutralizzare fondamentalmente il Kemalismo (e la sua enfasi su un’Anatolia saldamente turca). Visto il modo in cui ha già evirato i militari turchi – qualcosa che in pochi ritenevano possibile dieci anni fa – bisogna essere attenti a non sottovalutare Erdogan. La sua ambizione è già da sola degna di considerazione. Mentre le élite occidentali scherniscono senza risultati Putin, Erdogan prende appunti entusiasta quando lo incontra.