La fine della democrazia

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Ogni tornata elettorale ci consegna ormai un dato inequivocabile, gli italiani hanno smesso di votare perché non riconoscono più alla politica autorevolezza, capacità di rispondere ai problemi, spinta al cambiamento. Nessuno ha più voglia di affidare il proprio futuro al custode del cimitero. I cittadini non sono disaffezionati, semplicemente ritengono inutili queste cerimonie quinquennali, o anticipate, che non risolvono nulla.
Hanno imparato a stare lontani non solo dalle urne, ma dai rituali stessi della democrazia formale in tutte le sue declinazioni, perché le forze politiche, appaiono come debolezze speculari. Ciò vale anche per altri organismi un tempo definiti cinghie di trasmissione di dette organizzazioni e ora soltanto apparati burocratici autoreferenziali. Tutti questi fingono di scontrarsi su questioni marginali, ma in realtà sono sempre d’accordo sul non mettere mai in discussione il quadro generale di sopraffazione e soperchieria cui la nazione è costretta.
Chi vince o chi perde, chi ha torto o ragione, dunque, conta poco, perché a perdere e a soccombere è sempre il Paese. Il fatto che gli italiani non votino non è soltanto segno di apatia, lo è in qualche caso, ma è sintomo di una coscienza collettiva in negativo che può divenire consapevolezza positiva, sono le chance di uno spazio aperto e inesplorato, di un vuoto in cui si muovono particelle pronte a dar vita a qualcosa di nuovo, un brodo di energia ancora informe ma potenzialmente creativo. Il “partito del non voto” può ancora essere eroso dai meccanismi elettorali, oppure trasformarsi nella sorpresa di un’inedita e dirompente scoperta.
Da decenni i partiti hanno abdicato alla politica, piegandosi a forze soverchianti e accettando ogni compromesso pur di sopravvivere, scaricandone le conseguenze sul popolo. Non è più un problema di bipolarismo, anche i movimenti che si presentano come “terze vie” rispetto a centrodestra e centrosinistra non raccolgono consenso, perché in un sistema fondato sulla neutralizzazione dei reali interessi generali non c’è alveo per far discendere alcuna alternativa credibile.
Dalle elezioni, oggi, non può venire nulla di buono. Lo sappiamo e lo sanno. Nulla può nascere da chi si candida solo per farsi vedere a scadenze prestabilite. È l’intero sistema a essere contestato, attraverso il distacco e l’allontanamento dai riti stanchi e inutili di una democrazia che ripete sempre lo stesso ritornello, chiunque sia al governo e dietro l’ingranaggio di stato che funziona (ma non funziona) senza elezione.
E in una democrazia occupata dalle basi di un Paese straniero, nessuno può cambiare davvero nulla finché non avrà cacciato gli usurpatori dal proprio suolo. Quelle postazioni e infiltrazioni ad ogni livello esistevano anche prima, certo, ma la geopolitica del Novecento era segnata dalla presenza dell’URSS che, pur senza consentire di uscire dall’orbita americana, permetteva almeno di ricavarsi margini di autonomia nelle pieghe dei blocchi contrapposti. Oggi non esiste più niente di tutto questo, e proprio per questo abbattere determinate barriere dovrebbe essere il primo punto di qualsiasi programma politico autentico.
Una vera forza di cambiamento, dunque, non può che nascere fuori da ogni schema, con parole d’ordine chiare e idee non negoziabili, con una strategia che non esclude nessun mezzo per arrivare all’obiettivo. Una forza che non segua nessuno, che non tema di dire l’indicibile, perché non deve nulla ai cliché del proprio tempo, né alle subordinazioni di chi accetta l’ordine imposto dalle relazioni di potere consolidate. Un drappello di uomini capace di guidare la nazione e trascinare le masse senza chiedere permesso a nessuno, che impugni il timone dello Stato e dei suoi corpi con uno slancio nuovo, perché non ha nulla da perdere, essendo tutto già perduto, e tutto da riconquistare.
Si tratta, certo, di condizioni di possibilità che maturano lentamente e che non è affatto detto si realizzino nella direzione sperata, ma il solo fatto che possano esistere e concretizzarsi spinge a tentare. Stiamo correndo troppo, vero, ma è l’epoca stessa ad andare tragicamente veloce.