Sabra e Shatila

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Il massacro di Sabra e Shatila va sicuramente ricordato per la sua efferatezza e per la premeditazione con la quale fu concretato. La Memoria con la maiuscola non può essere solo quella del genocidio degli ebrei perché anche quest’ultimi, a lungo perseguitati nella Storia, all’occorrenza si sono fatti persecutori ed ancora oggi speculano sulla loro tragedia per commettere crimini contro l’umanità. Ci sono “memorie” volutamente messe da parte perché scomode per gli attuali vincitori e dominatori. Non ci sorprendiamo di ciò perché sappiamo benissimo che i buoni non esistono e certe narrazioni servono a creare un’ immunità per lasciarsi andare a delitti della peggior specie, con i favori dell’epoca. Non ci sono mai, e dico mai, Paesi morali che lottano contro Paesi immorali riproducendo la sempiterna battaglia tra bene e male. Le cose sono sempre più complicate rispetto al facile manicheismo ideologico di chi ritiene di essere dalla parte giusta degli eventi. Pertanto, riportiamo anche noi questo articolo dello scomparso Robert Fisk sui fatti consumatisi in Libano nel 1982 allorché centinaia di profughi palestinesi e siriani furono massacrati sotto gli occhi distratti della Comunità Internazionale: https://it.insideover.com/reportage/guerra/furono-le-mosche-a-farcelo-capire.html

Evidenziamo solo alcuni passi significativi per capire chi permise quell’eccidio, lo favorì indubitabilmente e lo osservò “con i binocoli”:
<<Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: “Stanno tornando”. Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
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Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.