HOMINES DURI

banche-italiane-sotto-esame-258

“Fummo in concordia che il detto messer Piero non fosse più chompagno di questa chompagnia né avesse parte in chompagnia da dì 31 d’ottobre anno 1340 inanzi e chosì ne demo una scritta a chonsoli dell’Arte di Chalimala”. Basterebbe modificare soggetti, oggetto e data della missiva per ritrovarci catapultati ai tempi nostri con banchieri e politici che truffano ed imbrogliano ad insaputa dei loro istituti e partiti, i quali sono pronti a prendere le distanze dai propri appartenenti ed iscritti non appena quest’ultimi sono colti con le mani nella marmellata.

Accadde agli albori di Tangentopoli, con Mario Chiesa che Craxi, per tenere fuori il PSI dal singolo episodio rivelante evidenti colpe collettive, additò al pubblico ludibrio stigmatizzando il suo compagno quale “isolato mariuolo”, prima che la “giustizia” cacciatrice di capri espiatori colpisse lui, la maggior parte dei socialisti, dei democristiani e di tutta la classe dirigente italiana di quel periodo, comunisti esclusi non perché fossero più morali ma perché più abilmente moralisti, trasformisti e  rinnegati degli altri.

Sta avvenendo adesso con i vari Lusi, Penati, Fiorito ecc. ecc., furfanti patentati che però sono riusciti a mimetizzarsi perfettamente tra tutti gli altri delinquenti di cordata non ancora scoperti e difficilmente identificabili, forse perché più grossi e più bravi di loro, facenti parte del medesimo giro. La regola è questa: finché nessuno se ne accorge o lo rivela per i soliti giochetti di potere tra potenti, benché non sia pensabile che nelle alte sfere non si abbia conoscenza di determinati meccanismi di finanziamento e sperperamento del denaro pubblico necessario all’affermazione elettoralistica, singola o di corrente, il sodalizio tra lestofanti tiene indissolubilmente, ma se il maneggione si fa mettere nel sacco si addossano a lui tutte le perversioni del mondo per salvare il resto della cricca. Abbatterne uno per salvarsi in mille, perchè uno è un ladro, quattro sono una banda, ma un centinaio sono già una classe dirigente.

Vizio antico, dunque, quello di prendere le distanze da chi viene scoperto nei propri loschi traffici che però rientrano negli ingranaggi di un sistema più vasto alimentato da molti individui, spesso al vertice dell’apparato. Così Carlo M. Cipolla racconta l’episodio che travolse Piero dei Bardi, dell’omonimo potente banco, nella Firenze della prima metà del ‘300: “Nel 1310 fu creata la Compagnia di «Lapo e Doffo de’ Bardi». Ne fecero parte 24 soci, di cui 13 erano membri della famiglia de’ Bardi. Tra costoro figuravano Gualterotto di Jacopo con quattro parti fino al 1322 e tre parti da quella data in poi e suo figlio Piero che entrò nella compagnia nel 1320 con due parti. Era il periodo d’oro per i Bardi e nulla lasciava sospettare i futuri disastri. Forse per consolidare i guadagni fatti in quegli anni, si decise nel 1331 di sciogliere la vecchia compagnia e ricostituirne una nuova con la ragione di «Societas Bardorum de Florentia quae appellatur societas Domini Rodulfi de Bardis et sociorum». La nuova compagnia era composta da 11 soci, di cui 6 erano membri della famiglia de’ Bardi. Tra costoro si ritrova Piero di Gualterotto con 41 parti. Suo fratello Aghinolfo non era socio ma teneva contanti in deposito presso la compagnia. La quale compagnia non fu fortunata. Incocciò nei mali tempi degli anni Trenta e Quaranta di cui si è detto prima e le cose per i Bardi cominciarono ad andare di male in peggio. Messi sempre più alle strette i Bardi reagirono nella maniera che era tipica della loro schiatta, e cioè ricorrendo alla violenza. Diversi membri della consorteria, guidati da Piero di Gualterotto, prepararono una rivoluzione intesa a rovesciare il governo-regime di cui erano pur una parte influente. Scopo del golpe era l’instaurazione di una fazione al governo che nelle speranze dei golpisti avrebbe aiutato i Bardi a uscire dal ginepraio in cui si erano cacciati. Scrisse al proposito G.A.Brucker: «se i Bardi e i loro alleati si fossero impadroniti del governo, avrebbero certamente fatto uso della loro posizione per tutelare i loro interessi sul fronte interno e si sarebbero garantiti efficace protezione dalle richieste dei creditori stranieri sul fronte estero».Il golpe però fallì. La congiura fu scoperta nel novembre del 1340 ed immediatamente soffocata. Ben sedici Bardi tra i più influenti della consorteria che avevano preso parte alla congiura furono esiliati. Tra costoro troviamo Piero di Gualterotto che era stato l’anima della congiura e suo fratello Aghinolfo. Piero era uno dei soci più influenti della Compagnia e il suo ruolo nella tentata rivoluzione mise la Compagnia stessa in serio imbarazzo, tanto da indurre i direttori a scrivere una lettera patetica al governo in cui si sosteneva che Piero era stato eliminato dalla compagnia prima che desse inizio alla sua torbida impresa: «Fummo in concordia che il detto messer Piero non fosse più chompagno di questa chompagnia né avesse partein chompagnia da dì 31 d’ottobre anno 1340 inanzi e chosì ne demo una scritta achonsoli dell’Arte di Chalimala».  (Tre storie Extra Vaganti, Carlo M. Cipolla, Il Mulino, 1994)

Inutile andare a confrontare questa “patetica” lettera con le dichiarazioni molto più patetiche dei vari Alfano, Rutelli, Bersani, Di Pietro ecc. ecc. i quali per troppo tempo, rivelando con la loro distrazione quantomeno l’inadeguatezza ad essere leader di alcunché, non hanno visto e saputo niente di quel che combinavano i loro dirigenti, parlamentari e consiglieri territoriali. Il fatto è che se il farabutto rende bene senza dare nell’occhio è una pedina fondamentale per i propri piani, se, invece, si fa individuare diventa pericoloso per il resto dei masnadieri.

Nel settore finanziario, che sin dalla sua nascita era un ricettacolo di briganti e di banditi, i quali si arricchivano alle spalle dei potenti e dei pezzenti (oggi soprattutto di quest’ultimi), le cose non sono migliorate affatto ma questa gente è ben coperta dalla complessità dei meccanismi della finanza che oscillano tra legalità ed illegalità e che rendono ostica la comprensione dei processi ingegneristico-finanziari, spesso vere e proprie truffe autorizzate, anche al magistrato più onesto e volenteroso. Tuttavia, non c’è banchiere o finanziere o amministrare delegato del settore che non abbia ricevuto le attenzioni dei giudici per business oscuri, evasione fiscale e prodotti di carta straccia venduti come oro a clienti ignari e gabbati. Per non sbagliare e continuare ad affondare nella melma, in Italia abbiamo pensato bene di far entrare questi mascalzoni direttamente nelle istituzioni pubbliche, su su fino al Governo del paese. Anzi, se non sei un po’ faccendiere o banchiere nemmeno hai diritto alle cariche parlamentari. Sarà per questo che una specie d’industriale per diritto dinastico, pronto al grande balzo in politica, ieri ha deciso di entrare nel cda di una delle banche più importanti della Penisola. Ed anche Montezemolo scende in banco e si candida alla guida di questa povera nazione allo sbando.

In appendice, tratto dal libro di Cipolla già citato, la storia dei Bardi di Firenze. Buona Lettura

*********

 

Uomini duri

Il Banco o Compagnia de’ Bardi era all’inizio del Trecento una delle compagni e mercantil-finanziarie più potenti e ricche d’Europa se non addirittura la più potente e la più ricca. Tra la fine del Duecento e i primi del Trecento il Banco contava tra i 100e i 120 impiegati e tra i suoi clienti si annoveravano i più brillanti e ricchi personaggi del tempo, inclusi Principi, Re e Cardinali. Giovanni Villani il cronista-mercante che di queste cose si intendeva, era convinto che i Bardi ed i Peruzzi (un’altra compagnia fiorentina di straordinaria potenza) fossero «le due colonne della Cristianità»: e a nessuno passò mai per la testa di contraddirlo. La fama dei Bardi, già notevole mentre la Compagnia era ancora in vita, crebbe ulteriormente nei libri di storia per via del suo fallimento nel 1346 dovuto soprattutto al mancato rimborso del debito della corona inglese, ma di questa addizionale fama è probabile che i Bardi avrebbero fatto volentieri a meno. Comunque sia, ancor oggi i Bardi sono considerati una delle glorie nazionali. La Compagnia de’ Bardi apparteneva a una generazione di imprese ben definita. Nell’Alto Medio Evo (cioè a dire grosso modo tra il VII ed il X secolo) quando in Europa predominava l’economia curtense, compagnie e banchi non esistevano. La società e l’economia europee erano troppo primitive: il commercio era condotto da mercatores che da soli oppure in carovana si aggiravano da una fiera all’altra e da un castello all’altro offrendo in vendita merci varie ed esotiche (quali stoffe orientali, oggetti di avorio, gioielli), merci indispensabili (come il sale), merci strane (come reliquie di santi, per lo più false), indulgendo nel frattempo in attività poco raccomandabili: certamente praticavano il mercato nero in periodi di carestia e stando ad uno scrittore dell’epoca taluni mercanti catturavano fanciulli che poi castravano per venderli sui mercati musulmani di Spagna. Se la cosa fosse vera, è impossibile dire; comunque, che tali voci circolassero è prova di quel che la gente pensava che i mercanti fossero capaci di fare. In un mondo dove prevaleva l’immobilismo, dove tutti, o quasi, erano legati ad un pezzo di terra e ciascuno aveva il suo signore, il mercante era l’individuo deviante, errante e vagabondo per antonomasia, senza patria e senza dimora. I mercatores dell’alto Medio Evo erano dunque dei déracinés riguardati ovunque e da chiunque con estremo sospetto, un po’ come gli zingari oggigiorno, e gli uomini di Chiesa li condannavano senza riserve per via del loro attaccamento al denaro e ad una vita condotta tutta correndo dietro al guadagno materiale. Un documento fiammingo del secolo XI li chiama homines duri e non senza ragione. Solo homines duri potevano e ardivano infischiarsi della condanna della Chiesa ed affrontare di continuo i rischi e i mortali pericoli che erano perennemente in agguato sulle strade o meglio sui sentieri e sulle piste che rappresentavano la rudimentale rete viaria dell’Europa del tempo e che si trovavano a passare per vaste zone disabitate o traverso fitte  boscaglie dove convivevano animali pericolosi e non meno pericolosi banditi. Il commercio si confondeva allora con il banditismo e la navigazione con la pirateria. Operare in uno di questi settori significava imbattersi di continuo in brutti ceffi dal coltello facile, vivere di continuo nel pericolo di imboscate ed uccidere sovente pernon essere uccisi. Chi se la sentiva di condurre un tipo di vita così pericoloso era senza dubbio un uomo “duro”. Non soltanto i tipi “miti” e quelli “molli”, ma anche le persone normali non erano fatte per questo tipo di vita. E così si tirò avanti a fatica per qualche secolo. Con il secolo XI però le cose cominciarono a mutare. A questo cambiamento fu dato il nome di Rivoluzione Commerciale. È una mania degli storici quella di affibbiare il termine di “rivoluzione” a tutti i mutamenti di lungo periodo di una certa importanza e non si fa eccezione per il complesso di mutamenti che occorsero tra il X ed il XIII secolo. Uno dei più importanti cambiamenti verificatisi in questo periodo fu la progressiva scomparsa nel commercio di terra (quindi l’osservazione non vale per il commercio di mare) del mercante itinerante che viaggiava con la sua merce caricata sulle sue spalle o sugli asini e i muli della carovana. Questi esseri vagabondi furono sempre più frequentemente sostituiti da mercanti più simili a quelli che noi conosciamo, che facevano viaggiare le loro merci invece che viaggiare con esse, che avevano una sede permanente, che tenevano sulle maggiori piazze d’Europa fattori loro dipendenti e/o rappresentanti, che sapevano leggere e scrivere, che avevano sviluppato una contabilità mercantile e avevano preso l’iniziativa di aprire scuole laiche in antitesi alle scuole religiose. In genere costoro erano individui ben più civili dei loro predecessori dei secoli VII-XI, ma erano pur sempre homines duri. Fino ad epoca molto recente non ci fu posto nel commercio e nella navigazione per personaggi dal carattere mite. La cosiddetta “rivoluzione commerciale” fu comunque in buona parte dell’Europa occidentale anche una profonda rivoluzione sociale. Nuovi ceti emersero mentre altri decaddero. Soprattutto nelle città dell’Italia centrosettentrionale, nelle città dei Paesi Bassi, in quelle dell’Hansa germanica ed in quelle della Catalogna il fenomeno più vistoso ed importante fu l’ascesa del ceto mercantile. I mercanti che nel mondo agrario-feudale erano rimasti confinati ai più bassi gradini della scala sociale attuarono una scalata sociale senza precedenti piazzandosi ai vertici della società: in termini volgari ma efficaci si può dire che divennero i padroni delle città che fiorirono e prosperarono nelle zone citate. Nelle altre aree dell’Europa occidentale il fenomeno si verificò in forme molto più attenuate e fuori d’Europa non si verificò affatto. Il fenomeno ebbe importanza e conseguenze incalcolabili nel settore economico come in quello politico.I mercanti che nelle zone in questione divennero praticamente i padroni del vapore furono soprattutto i grandi mercanti, cioè quei mercanti che esercitavano il commercio su scala internazionale e che univano all’attività mercantile anche quella manifatturiera e finanziaria (cambiavalute e banca).In Italia la nuova forma organizzativa di questi operatori economici fu nel commercio di terra la cosiddetta “compagnia”. Alla base della compagnia stava solida e severa la famiglia, di tipo eminentemente patriarcale. Il “vecchio” giudicava  decideva, sentenziava e comandava e gli altri ubbidivano, senza eccezioni e senza diritto di “mugugno”. La famiglia provvedeva la compagnia di uomini e di capitale. Anche questa era una novità perché i mercanti dei secoli VII-XI come si è già detto, erano dei déracinés e quindi mancavano del sostegno e della corresponsabilità della famiglia: molti di loro non sapevano manco se avevano una famiglia. Quando col nuovo millennio comparvero le prime compagnie commerciali,depositi e capitale venivano apportati esclusivamente dai membri delle rispettive famiglie. In prosieguo di tempo (e, aggiungerei, abbastanza presto) le cose però cambiarono e le compagnie cominciarono ad accettare depositi e più tardi quote di capitale da membri estranei alla consorteria. Nel 1298, al tempo del suo fallimento, su 23 soci della compagnia senese dei Buonsignori, soltanto quattro erano figli del fondatore della Compagnia e uno era un nipote. Nel 1310 sui 24 soci che componevano la Compagnia dei Bardi del tempo solo 10 provenivano dalla linea principale dei Bardi. Numerosi Bardi figuravano tra i depositanti ma bisogna riconoscere che la grande maggioranza dei membri della famiglia non prendeva parte attiva nel management della compagnia. La compagnia de’ Bardi come la maggior parte delle altre compagnie commerciali e finanziarie del tempo era un affare familiare solo in senso molto lato. Nel corso del tempo i Bardi formarono non una ma varie compagnie e ciò per una ben precisa ragione: limitare nel tempo la durata della responsabilità dei soci. Occorre ricordare a questo proposito che a quei tempi le compagnie a responsabilità limitata non erano ancora nate. Ogni socio era responsabile con tutto il suo patrimonio per le perdite della compagnia nella sua totalità. L’unico modo di limitare la scomoda responsabilità illimitata e di consolidare i profitti di una compagnia era quello di chiuderne i conti e ricreare una nuova compagnia al posto della vecchia. I secoli X, XI, XII e XIII furono caratterizzati in Europa da una vivace espansione demografica. Tutto quel che possiamo dire al riguardo è semplicemente che nacquero più persone di quante ne morirono: non è molto, ma anche questo pochissimo, lo si immagina più che lo si provi. Sembra anche che la differenza positiva tra nati e morti fosse più un fatto delle campagne che delle città, ma una forte corrente di migrazione dalla campagna alle città fece sì che la popolazione urbana aumentasse più di quella rurale. Quando si verifica una espansione demografica crescono gli uomini ma in genere crescono anche le famiglie. Nel periodo in questione crebbero anche i Bardi, sia come individui che come famiglie. Attorno al 1340 vivevano nella città e contado di Firenze più di 120 adulti maschi Bardi, tutti legati tra di loro da vincoli di parentela. Era una consorteria, lo si è già detto, potente per numero e per ricchezza – forse la più potente e la più ricca – ed era in larghissima parte concentrata Oltr’Arno, dove ancor oggi si trova via de’ Bardi. Nel 1427 su 60 famiglie dei Bardi che vivevano in Firenze  ben 45 risiedevano nel quartiere d’Oltr’Arno. Il fatto che i Bardi scegliessero di vivere vicini gli uni agli altri, in case contigue, sovente intercomunicanti, in una ben definita zona della città conferma l’elevato grado di coesione del gruppo. In più di un caso si vide che la contiguità delle dimore fu un fattore positivo che rafforzò notevolmente la consorteria quando questa si trovò a dover menar le mani. E ai Bardi i momenti e le occasioni di menar le mani non mancavano mai. Pare che i Bardi originassero da Ruballa e che una volta inurbatisi cumulassero presto vistose ricchezze praticando l’attività del cambio. Come capita di frequente nelle società umane il successo economico stimola ingenue pretese di origine nobiliare: così ai primi del Trecento i Bardi erano considerati tra i «legnaggi de’nobili» ma la verità era che i Bardi erano «guelfi di piccolo cominciamento”. Lo strumento che i Fati usarono per determinare il corso della storia dei Bardi fu l’Inghilterra. I Bardi comparvero in Inghilterra nel terz’ultimo decennio del secolo XIII. Ve li aveva attratti una delle materie prime più pregiate del tempo: la lana. Il mercato offriva allora lana spagnola, lana italiana, lana nordafricana. Ma la lana inglese era considerata di gran lunga la migliore e la ragione di questo fatto stava nel clima umido e piovoso delle isole britanniche. La migliore lana inglese, cioè la crema della crema, la si acquistava presso i rubicondi e ben pasciuti frati inglesi che, essendo riusciti nel corso dei secoli ad accaparrarsi i migliori pascoli, potevano disporre anche delle migliori lane dell’isola. C’era allora, come c’è sempre stata, un’aspra concorrenza tra i mercanti dei vari paesi per appropriarsi di queste buone lane: ma anche quando la partita sembrava vinta nei magnifici chiostri dei ricchi monasteri, il giuoco non era finito perché per esportare le lane inglesi occorreva il permesso speciale del monarca. Di qui le diverse e attente manovre dei mercanti per entrare a corte e stabilire buoni e preferenziali rapporti con la corona inglese e i cortigiani chela circondavano. I Re inglesi, così come i loro cortigiani, erano inveterati spendaccioni e tale circostanza favoriva i mercanti italiani se questi si dimostravano pronti ad aprire le loro borse. Quando Edoardo I morì nel 1307 i debiti della corona inglese ammontavano intutto a circa 60.000 lire sterline. La maggior parte di questa somma, secondo le sane abitudini locali, non venne mai restituita. Tra i creditori insoddisfatti vi era la potente compagnia fiorentina dei Frescobaldi. Costoro erano stati generosi nel fornire prestiti al monarca inglese e questi d’altra parte s’era dimostrato riconoscente concedendo diversi proficui privilegi ai fiorentini: così aveva ceduto loro l’amministrazione in esclusiva delle miniere di argento di Devon, la percezione dei redditi reali in Irlanda, la raccolta dei diritti di dogana nei porti inglesi e simili altre bagatelle. Nell’insieme però i benefici che i Frescobaldi traevano non erano tali da compensare il costo deip restiti che il monarca inglese era riuscito a spremere dai fiorentini. La situazione  della compagnia toscana di conseguenza si fece sempre più precaria. I Frescobaldi producevano e vendevano (e ancor oggi producono e vendono) buon vino del Chiantie questo prodotto deve aver dato loro la lucidità necessaria a capire che le sofferenze del loro banco erano eccessive e comportavano rischi troppo pesanti. Ebbero quindil’abilità di iniziare per tempo una politica di rientro e nel 1310 i loro crediti presso lacorte inglese erano ridotti alla ragionevole somma di circa 20.000 sterline.Il successo dei Frescobaldi nel ridurre le loro perdite alimentò l’invidia deicortigiani inglesi che già non tenevano in simpatia la compagnia fiorentina(soprattutto da quando questa aveva chiuso il cordone della borsa) e tanto fecero etanto si agitarono che il Re finì col dover esiliare i suoi amici italiani.Vien sovente ripetuto da persone che si credono o vogliono parere dotte e sagge,che la storia è maestra di vita e che l’uomo apprende molto dall’esperienza! Io sonouno storico di professione ma più di quarant’anni di ricerche e di indagini storiche mihanno convinto che questa ingenua convinzione fa acqua da tutte le parti e chel’uomo non impara un accidente di nulla né dalla sua esperienza personale né daquella, collettiva o individuale, dei suoi simili e continua pertanto a ripetere conmonotonica pervicacia gli stessi errori e gli stessi misfatti, con conseguenze deleterieper il progresso umano.Il poeta Giovanni Frescobaldi lasciò in un verso un consiglio tanto chiaro quantosaggio: «Alla larga dei cortigiani». Ma quando c’è di mezzo il denaro gli uomini siguardano bene dal dare ascolto ai savi consigli della gente prudente. I Bardi perprimi, seguiti poi dai Peruzzi, si intrufolarono abilmente nella corte inglese eallentarono imprudentemente i cordoni della borsa. Dall’autunno del 1312 in avantiBardi e Peruzzi prestarono somme sempre più ragguardevoli a Edoardo IIIfinanziandogli le spese e le imprese più insensate: fra queste una spedizione militarein Francia. Nessun monarca inglese aveva preso a prestito somme tanto rilevantiquante ne prese re Edoardo III tra il 1335 ed il 1340. Nel 1338-39 i Bardi e i Peruzzierano creditori per oltre 125.000 lire sterline: una somma enorme. E purtroppo perloro la guerra in Francia finì in un disastro per gli inglesi e il loro regale debitoredovette dichiarare bancarotta.Gli anni Venti erano stati di eccezionale prosperità per i Bardi. Si è già accennatoche a quel tempo il numero degli impiegati della Compagnia raggiunse il numero di100-120 circa. Spesso un elevato numero di impiegati significa inefficienza di naturaburocratica. Ma non era questo il caso dei Bardi. L’azienda contava allora circa 25filiali, con agenti stabili, uffici e magazzini sparsi in tutta Europa: ad Ancona, Aquila,Avignone, Barcellona, Bari, Barletta, Castello di Castro, Bruges, Cipro,Costantinopoli, Genova, Gerusalemme, Majorca, Marsiglia, Napoli, Nizza, Orvieto,Palermo, Parigi, Pisa, Rodi, Siviglia, Tunisi e Venezia. Gli utili dell’aziendaarrivarono a toccare il livello annuo del 30 per cento circa ed ancora nel 1330l’azienda corrispose ai soci un sostanzioso 10-13 per cento. Ma, come avrebbesentenziato Bertoldo, dopo il sole viene immancabilmente la pioggia. Per uncomplesso di circostanze che sarebbe qui troppo lungo spiegare (ma che ho spiegato  dettagliatamente in altra sede 3) con gli inizi degli anni Trenta scoppiò una violentacrisi destinata a farsi di giorno in giorno sempre più acuta sino a raggiungereun’intensità mai conosciuta prima di allora. L’economia fiorentina ne fu letteralmentetravolta. Le compagnie fallirono, una dopo l’altra, e crollarono come castelli di carte.Saltarono gli Acciaiuoli, i Bonaccorsi, i Cocchi, gli Antellesi, i Corsini, i da Uzzano, iPerendoli. Tutto il Gotha della finanza fiorentina finiva così davanti ai giudicifallimentari. Dopo aver ostinatamente cercato di far fronte all’impossibile situazioneanche i due giganti crollarono: i Peruzzi nel 1343 ed i Bardi nel 1346. Il crollo dellebanche travolse anche coloro che vi tenevano depositi. Né questo fu tutto. Labancarotta delle compagnie provocò anche lo sconquasso nei settori secondario eterziario perché le compagnie, oltre all’attività mercantile, esercitavano l’attivitàbancaria e manifatturiera. I loro fallimenti provocarono una drastica e devastantecontrazione del credito. Così ogni settore dell’economia ne fu toccato: «lamercatanzia e ogni arte n’abassò e venne in pessimo stato ed anche le piccolecompagnie e singulari artefici fallirono in questi tempi». È il Villani che scrive ed allasua testimonianza fa riscontro quella di Lionardo Aretino: «questo disordine tantoinopinato e tanto grave havendo disfatto la sostanza di molti si tirò dietro anchora ladestructione di minori traffichi… e appresso il credito era ridotto in sì pochi nelmercato che ogni cosa metteva in confusione». Concludeva amaramente il Villani:«fu alla nostra città maggiore ruina e sconfitta che nulla mai avesse il nostroComune».Analizzando alcuni anni or sono i drammatici avvenimenti della prima metà delTrecento azzardai un cauto (ed insisto: cauto) paragone fra quanto accadde in Europanegli anni ’40 del secolo XIV e gli anni 70 del secolo XX ed affermai allora che nelturbine che stravolse l’Europa nella prima metà del Trecento, l’Italia o, meglio, leRepubbliche dell’Italia centrale e settentrionale si presentarono come paesi sviluppatimentre l’Inghilterra giuocò il ruolo del paese sottosviluppato.Gli Inglesi sono gente curiosa. Se uno studioso si azzarda a emettere giudizinegativi sull’Inghilterra e i suoi abitanti, si danno due casi: se è inglese non vi sono ingenere reazioni ostili: anzi un giudizio negativo viene in tal caso assunto come provadella obiettività e del fair play britannici. Se però chi enuncia le critiche è unostraniero allora le cose cambiano. Poco tempo fa R.H. Britnell se la prese con me inun numero dell’autorevole “Transactions of the Royal Historical Society” per aver ioosato accennare alle condizioni economiche dell’Inghilterra ai primi del Trecentocome alle condizioni di un paese sottosviluppato in relazione alle condizioni ben piùevolute prevalenti a quel tempo nell’Italia settentrionale. Dopo una serie di assennateaffermazioni sulle condizioni e sulla organizzazione dell’agricoltura del tempo, Mr.Britnell esce con affermazioni quali: «il prevalere dei centri e della vita urbana inItalia non implica che la produttività vi fosse più elevata [che in Inghilterra] … ladifferenza [tra Italia e Inghilterra] risultò dal fatto che conoscenze e attitudini socialidel tutto simili operarono in ambienti diversi… Il predominio commerciale italiano  non significò affatto l’esistenza in Italia di un superiore livello di benessereeconomico e neppure di una leadership in quella direzione… L’unico effetto che gliItaliani ebbero sulla politica economica inglese fu tramite la pressione cheesercitarono per farsi pagare i loro servigi».Qualche anno fa apparve in Inghilterra una storia economica inglese dovuta a unostorico di lunga esperienza e ottimo conoscitore della storia del suo paese, il prof.D.C. Coleman. Scrive a un certo punto l’autore: «[Ancora verso il 1480] sia dal puntodi vista tecnologico che dal punto di vista economico l’Inghilterra era in posizione diarretratezza… L’Inghilterra era alla periferia dell’Europa non solo dal punto di vistageografico ma anche dai punti di vista economico e culturale. Le economie dominantisi trovavano nel bacino del Mediterraneo soprattutto nella Penisola Italiana, nellaGermania meridionale, nei centri commerciali e manufatturieri delle Fiandre, nellecittà della Lega Hanseatica. Di fatto gli Hanseatici e altri stranieri tra cuiprincipalmente gli italiani controllavano circa il 40 per cento del commercio inglesed’oltre mare. La marina mercantile inglese dava chiari segni di dinamismo ma eraancora di scarso significato. Londra, l’unica città inglese di una certa importanzacommerciale non reggeva il confronto con le grandi città dell’Europa continentale…E non c’era nulla in Inghilterra che rassomigliasse a un centro di potere e ricchezzaquale la famiglia de’ Medici che aveva in Firenze la base della sua straordinariaorganizzazione finanziaria». È impossibile che Mr. Britnell non conosca il libro e ilsuo contenuto. Tuttavia lo studioso inglese si guardò bene dal citare (e tanto meno dalcriticare) l’opera e se la prese con me anche se il mio giudizio è molto più blando diquello del prof. Coleman. Ma lasciamo da parte le fisime degli studiosi e veniamo aifatti. A ragione o a torto, io rimango convinto che l’Inghilterra dei primi del Trecento,ad onta di innegabili recenti progressi, era ancora un Paese sottosviluppato – equando dico “sottosviluppato” intendo sottosviluppato ovviamente non rispetto aiparadigmi di sviluppo del secolo XX bensì rispetto ai paradigmi di sviluppo deltempo.Quanto è stato esposto troppo sinteticamente nelle pagine che precedono nonfornisce certamente un quadro completo della complessa situazione venutasi a crearea Firenze ai primi del Trecento, ma penso possa adeguatamente fornire lo scenario incui compirono le loro scriteriate imprese quattro Bardi del ramo principale dellaconsorteria: Piero di Gualterotto, suo fratello Aghinolfo, suo figlio Sozzo eRubecchio di Lapaccio. I loro nomi erano già tutto un programma. Nel 1310 fu creata la Compagnia di «Lapo e Doffo de’ Bardi». Ne fecero parte 24soci, di cui 13 erano membri della famiglia de’ Bardi. Tra costoro figuravanoGualterotto di Jacopo con quattro parti fino al 1322 e tre parti da quella data in poi esuo figlio Piero che entrò nella compagnia nel 1320 con due parti. Era il periodo d’oro per i Bardi e nulla lasciava sospettare i futuri disastri. Forse per consolidare iguadagni fatti in quegli anni, si decise nel 1331 di sciogliere la vecchia compagnia ericostituirne una nuova con la ragione di «Societas Bardorum de Florentia quaeappellatur societas Domini Rodulfi de Bardis et sociorum». La nuova compagnia eracomposta da 11 soci, di cui 6 erano membri della famiglia de’ Bardi. Tra costoro si ritrova Piero di Gualterotto con 41 parti. Suo fratello Aghinolfo non era socio mateneva contanti in deposito presso la compagnia.La quale compagnia non fu fortunata. Incocciò nei mali tempi degli anni Trenta eQuaranta di cui si è detto prima e le cose per i Bardi cominciarono ad andare di malein peggio. Messi sempre più alle strette i Bardi reagirono nella maniera che era tipicadella loro schiatta, e cioè ricorrendo alla violenza. Diversi membri della consorteria,guidati da Piero di Gualterotto, prepararono una rivoluzione intesa a rovesciare ilgoverno-regime di cui erano pur una parte influente. Scopo del golpe eral’instaurazione di una fazione al governo che nelle speranze dei golpisti avrebbeaiutato i Bardi a uscire dal ginepraio in cui si erano cacciati. Scrisse al proposito G.A.Brucker: «se i Bardi e i loro alleati si fossero impadroniti del governo, avrebberocertamente fatto uso della loro posizione per tutelare i loro interessi sul fronte internoe si sarebbero garantiti efficace protezione dalle richieste dei creditori stranieri sulfronte estero».Il golpe però fallì. La congiura fu scoperta nel novembre del 1340 edimmediatamente soffocata. Ben sedici Bardi tra i più influenti della consorteria cheavevano preso parte alla congiura furono esiliati. Tra costoro troviamo Piero diGualterotto che era stato l’anima della congiura e suo fratello Aghinolfo. Piero erauno dei soci più influenti della Compagnia e il suo ruolo nella tentata rivoluzionemise la Compagnia stessa in serio imbarazzo, tanto da indurre i direttori a scrivereuna lettera patetica al governo in cui si sosteneva che Piero era stato eliminato dallacompagnia prima che desse inizio alla sua torbida impresa: «Fummo in concordia che il detto messer Piero non fosse più chompagno di questa chompagnia né avesse partein chompagnia da dì 31 d’ottobre anno 1340 inanzi e chosì ne demo una scritta achonsoli dell’Arte di Chalimala».I Bardi erano adusati a farla da padroni in Firenze, ma la loro posizione si deterioròsensibilmente dopo la batosta del 1340. Si è già detto che la loro situazioneeconomica era andata via via peggiorando dal 1330. La lezione presa nel 1340 e laconseguente condanna all’esilio dei più influenti capi della consorteria furono ilclassico gocciolone che fece traboccare la misura. La serie nera poi non si fermò lì.Poco dopo la condanna all’esilio, ed esattamente il 22 settembre 1343 il popoloattaccò le case dei magnati. Nel drammatico evento ventidue case andaronoabbruciate e le perdite dei Bardi assommarono alla cospicua somma di circa 60.000fiorini d’oro tra valuta e mobilio.In quell’infausto periodo Aghinolfo ritirò via via tutti i suoi depositi presso laCompagnia. In termini economici Aghinolfo in quegli anni fece uso del suo risparmioper finanziare il suo consumo corrente. Ma i Bardi non erano propensi a prendere lecose in questi termini pacati. Per via della crisi che attanagliava l’economiafiorentina, non si trovavano più contanti sul mercato. Nessuno più spendeva: ladomanda di moneta era elevatissima. Scriveva il Villani: «per li detti fallimenti dellecompagnie mancarono i denari contanti che appena se ne trovavano». I Bardirimanevano una delle consorterie più ricche di Firenze, ma dovevano essere a corto diliquido e in ogni caso mal sopportavano le difficoltà finanziarie e le perditeeconomiche che li affliggevano. Prepotenti come erano, non riuscivano a digerire quanto stava accadendo loro, e decisero di uscirne a tutti i costi. Cominciò così lastraordinaria avventura di Sozzo, Aghinolfo e Rubecchio.Sozzo e Aghinolfo erano rispettivamente figlio e fratello di Piero che, come si èvisto prima, guidò la congiura del 1340 per rovesciare il governo. Nel 1332 Pieroaveva fatto un bel colpo per la consorteria acquistando dagli Alberti per la somma di10.000 fiorini d’oro il castello di Vernio con il suo territorio. Vernio è situato in unazona che sta sopra a Prato, alle sorgenti del Bisenzio. È un territorio sterile emontagnoso; quando fu acquistato da Piero aveva un’estensione di circa 18 miglia e ilcastello contava una popolazione di circa 3 o 4 mila abitanti. Dette così le cose,quell’acquisto non pare granché, ma l’importanza di Vernio stava tutta nella suaposizione geografica. Chi controllava Vernio controllava praticamente il cammino traFirenze e Bologna, e lo sport preferito dagli abitanti del castello era quello diassaltare e derubare l’intenso traffico di merci e di persone che transitavano traFirenze e Bologna. Gli Alberti abitualmente lasciavano correre: di conseguenzaVernio, quando Pietro lo acquistò, era un ricettacolo di delinquenti.Sei anni dopo l’acquisto, Piero fece compilare degli statuti che avrebbero dovutorimettere un po’ d’ordine nell’orribile vespaio e un erudito che studiò secoli dopo talistatuti non poté fare a meno di commentare che erano «ricchi di savie e ben acconcesanzioni». Tutto sembrava indicare che Piero volesse cambiar pagina e mettere laparola fine a tutta una serie incredibile di ruberie, ladrocini e omicidi. Ma Piero nonera affatto quel savio e onesto amministratore quale appare dai suoi statuti. Alcontrario: era un bandito della peggior specie. Per i Bardi le leggi erano strumentiefficaci per controllare “gli altri”. Loro, i Bardi, si sentivano non vincolati dalle leggi,bensì al di sopra delle stesse. Con i nuovi statuti di Vernio, Piero metteva in atto unpiano diabolico: punendo coloro che briganteggiavano, lui “legalmente” limitava la“concorrenza”, costituendo a suo favore il monopolio del brigantaggio nella zona. Piùdiabolici di così era difficile essere. E che Piero fosse il diavolo in persona ne eraconvinto, convintissimo il povero abate del monastero di Montepiano chenell’autunno del 1339 scriveva disperato all’Abate di Vallombrosa da cui ilmonastero di Montepiano dipendeva: «Atteso che oggi Piero di Gualterotto che vi [inVernio] dominava, l’avea [il monastero di Montepiano] talmente annientato e ridottoa segno che i monaci non vi avevano quasi più nulla, aveva scacciato quasi tutti ireligiosi e quelli che vi erano rimasti erano tenuti come schiavi e tormentati in moltemaniere».Stanco e mal ridotto dalle continue angherie, vessazioni e violenze praticate daPiero, il povero frate chiedeva al potente abate di Vallombrosa nientedimeno che lalicenza di abbandonare il monastero e di ritirarsi con tutta la famiglia nelle case delmonastero poste in Porta Fuja. Era una richiesta grave ed insolita, ma, accertata lagravità della situazione il generale di Vallombrosa non poté far altro che autorizzare imonaci ad abbandonare l’abbazia.Il caso era grave ma non era unico e veniva a ribadire nei fiorentini la convinzionedella pericolosità di lasciare nelle mani di prepotenti e violenti signorotti i castelliposti in zone strategiche ai confini del territorio della repubblica.L’inaspettato acquisto di Vernio da parte dei Bardi e l’insopportabile comportamento di costoro convinse la Repubblica che era tempo di muoversi. Nel1337 secondo il Villani «fecesi legge che nullo cittadino comperasse castello alcunoalle frontiere del distretto di Firenze. E ciò si fece perché quelli della casa de’ Bardiper la loro grande potentia e ricchezza, aveano in quelli tempi comperato il castello diVernio e quello di Mangona…». Passata questa legge fu logico che Firenze chiedesseai Bardi la cessione dei due castelli. Mangona fu facilmente occupata. Ma per Verniole cose si presentarono più difficili. In Vernio, tra l’altro, s’era rifugiato Piero dopo lacondanna all’esilio del 1340, e costui non aveva nessuna intenzione di accedere allerichieste della Repubblica. Vernio era un sito troppo ghiotto perché i Bardi locedessero. La Repubblica però non era meno testarda. Un esercito fiorentinorafforzato da 200 soldati pistoiesi strinse d’assedio Vernio e costrinse Piero a venderela sua preziosa rocca alla repubblica di Firenze al prezzo di 4.960 fiorini. Per Pieroera lo smacco totale; perdeva la sua fortezza e ci perdeva sul prezzo di vendita cheera meno della metà del prezzo d’acquisto. Furibondo si recò a Pisa dove si alleò coni nemici di Firenze. Non meno furibondi i Fiorentini emanarono allora il decretodell’agosto 1341 con cui condannavano alla forca con taglia di 1.000 fiorini tredicidei principali fuorusciti: in testa alla lista dei condannati figura Piero. Inoltre laRepubblica autorizzava la distruzione dei beni dei fuoriusciti in città e contado ecome se tutto ciò non bastasse si comminavano pene severissime per chiunquecoltivasse le loro terre. Due anni dopo questo pesantissimo decreto, come si è giàdetto, nel settembre del 1343, ventidue case dei Bardi venivano bruciate in Firenze edanni arrecati alle loro proprietà per un valore di circa 60.000 fiorini. Decisamente lecose per i Bardi si mettevano male.Piero ripiegò su Vernio (che era stato costretto a vendere, ma che non aveva ancoramollato) e il 30 settembre scrisse a Firenze chiedendo di poter vivere sicuro con i suoifigli. Il vecchio leone si sentiva stanco. La Repubblica generosamente consentì allarichiesta. Ma siccome i lupi perdono il pelo ma non il vizio, Piero si affrettò acatturare alcuni cittadini fiorentini di passaggio per Vernio e a trattenerli comeostaggi.Sozzo aveva ereditato dal padre i geni della furfanteria. Era arrogante e protervocome pochi e i suoi omicidi, vendette, carcerazioni, violenze e ruberie non si contano.Fu ripetutamente condannato a pene pecuniarie per le continue violenze checommetteva ma non ci fu verso di ridurlo alla ragione, né con le buone né con lecattive. Nel 1340 partecipò con suo padre Piero e suo zio Aghinolfo alla rivolta deiBardi per impadronirsi del governo della repubblica, ma fallita la rivolta tutti e trefurono esiliati.Aghinolfo non era meglio di Piero o di Sozzo. Fallita la rivolta del 1340 si rifugiòa Pisa dove continuò a tramare contro Firenze arrivando a firmare un trattato dialleanza tra lui e i suoi consorti da una parte e Pisa dall’altra, tutto in chiaveantifiorentina. Firenze reagì con una nuova condanna contro i ribelli, ma nel 1342 ilDuca di Atene, Gualtieri di Brienne, salito al potere proprio in quell’anno, annullòogni condanna pendente contro i Bardi e, bontà sua, restituì loro il castello di Vernio.Era una pratica frequente anche se giuridicamente poco encomiabile questa di  Gualtieri di ricorrere, per una ragione o per l’altra, alle dispensation escondemnationum. In virtù di questo colpo di grazia Aghinolfo poté ritornare a Firenzedove lo si ritrova nello stesso anno 1342. Ma appena rimesso piede in Firenzericominciò a complottare per rovesciare il governo. Infuriati e spazientiti, i Fiorentinilo cacciarono nuovamente dalla città nel 1343.Inseguito dal bando, Aghinolfo si rifugiò a Vernio, nel cui territorio si mise acondurre la vita grama e delinquenziale del masnadiero. Suo abituale luogo diricovero divenne una torraccia che da lui prese il nome. Sposò Selvaggia di TolosinoTolosini e pare giusto che la moglie di questo personaggio portasse un tal nome. Sepoi fosse tipo veramente selvaggio non vi è modo di provare. Si può solo ipotizzareche una donna che accettava di vivere con Aghinolfo nella torraccia che era al centrodi tutte le sue malefatte difficilmente poteva avere i tratti dolci e cortesi dellagentildonna e difficilmente sarebbe stata ammessa qualche secolo dopo alla cortedella regina Vittoria.Rubecchio era forse il più giovane della banda. Suo padre Lapaccio in gioventùaveva optato per la carriera delle armi. Nel 1313 era in presidio a Montecatini quandosi temette che Uguccione della Faggiola potesse attaccare il castello. Nel 1315partecipò alla battaglia che ebbe luogo nella stessa località. Dieci anni dopo si trovò acombattere i Lucchesi nella piana dell’Altopascio: questa volta però gli andò male ecadde vivo nelle mani dei nemici. Restò per anni a languire nelle carceri lucchesi, chenon erano dotate delle comodità dell’Hilton, e il pover’uomo tante ne dovette vederee soffrire che quando gli riuscì di essere riscattato per la pietà dei parenti nonfrappose i minimi indugi: piantò di fare il soldato e, colto da improvvisa e bencalcolata vocazione, si precipitò a rinchiudersi in un vicino convento. Nella vitaconventuale ebbe maggior fortuna e nel 1328 fu eletto Priore di S. Stefano inPerticaia.Soldataccio prima e poi per diversi anni prigioniero di guerra, Lapaccio di Pieronon può aver messo da parte risparmi di qualche entità per cui il figlio dovevatrovarsi in strettezze finanziarie molto più di suo zio Aghinolfo e suo cugino Sozzo.Nel 1345, nel pieno della gravissima crisi e in difficoltà economiche, Sozzo,Aghinolfo e Rubecchio strinsero sempre più i legami che li univano e diedero inizio auna serie di incontri in cui discutevano dello stato in cui erano venuti a trovarsi e chela loro prepotenza e la loro alterigia non potevano sopportare. Bardi fino al midolloerano pronti a tutto pur di uscire da una situazione che ritenevano umiliante edinsostenibile.Si è già detto che in quel malnato quindicennio 1333-48 il mercato soffrìpesantemente per la eccessiva scarsità di circolante, soprattutto di quello minuto. Si ègià citata la testimonianza del Villani secondo il quale «i denari contanti appena se netrovano». Si è anche attribuita la grave carestia monetae alla crisi in atto, perchénessuno osava spendere, la domanda di moneta aveva raggiunto livelli eccezionali etutti tesoreggiavano il liquido a loro disposizione. Ma per completezza occorreaggiungere altri elementi che caratterizzarono e aggravarono la situazione. Nel corsodegli anni Trenta e Quaranta la zecca fiorentina aveva emesso quantità ridotte di  moneta argentea. Inoltre, per ragioni che rimangono fondamentalmente ancoraoscure, si verificò in quegli anni una sostanziale rivalutazione dell’argento sull’oro.Calcoli sufficientemente attendibili fanno ritenere che tra il 1345 e il 1347 l’argentosi rivalutò rispetto all’oro per oltre un sei per cento causando la fuoruscitadall’Europa di masse di moneta argentea che presero la via dell’Asia.La moneta argentea in quei giorni si distingueva in moneta grossa e moneta piccola(la prima essenzialmente d’argento puro e la seconda sostanzialmente di rame). Lamoneta che fuoruscì dall’Europa fu soprattutto la moneta grossa, ma localmente la carestia monetae fu avvertita soprattutto per la moneta piccola e in Firenzespecificamente per la moneta piccola detta “quattrini” (1 quattrino = 4 denari) che erala moneta tipica e più largamente usata nel commercio al minuto. Tutte queste coseerano poco capite ma molto discusse ogni giorno e in ogni quartiere e non stupisceche i tre Bardi nella ricerca di una soluzione ai loro problemi ne fossero condizionati.Dopo avere discusso non so quanto animatamente e quanto a lungo il loroproblema i nostri eroi giunsero ad una decisione per noi a dir poco sorprendente:decisero cioè di mettersi a fabbricare moneta falsa. Da banchieri a falsari: unacarriera decisamente straordinaria.A parte l’aspetto delinquenziale della via scelta, c’è da dire che quel che i trecompari si accingevano a fare comportava almeno in teoria grossi rischi, del tuttosproporzionati ai guadagni che ne potevano trarre. La legislazione del tempo(fiorentina e non fiorentina) era durissima con i falsari. Se accalappiato, un falsarionon aveva scampo: veniva inviato al rogo e bruciato vivo. Ci sono esperti i qualisostengono che la morte sul rogo non è poi tanto terribile perché la vittima vienesoffocata dal fumo prima di avvertire il dolore del fuoco che gli brucia le carni. Adonta però delle rassicurazioni di questi esperti, credo che ci siano pochi esseri almondo, salvo i monaci buddisti, che affrontino gioiosamente il rogo se gli capita ditrovarsi in tale poco invidiabile posizione. Ai primi del Trecento, poi, gli esperti dellapreventiva soffocazione da fumo non erano ancora nati. Come si è accennato pocosopra, i rischi connessi con l’attività di falsario erano quindi del tutto sproporzionatiai profitti che si potevano trarre dall’attività stessa. Se i tre Bardi presero lastraordinaria decisione di fabbricare moneta falsa, qualche altra variabile deve essereentrata nei loro calcoli: ma su questo punto ritorneremo in seguito.I nostri eroi scelsero come luogo dove effettuare le loro coniazioni la cima di unamontagnola in località chiamata Castiglione di proprietà degli eredi di messerBastardo de Manzano 4.

Avendo deciso dove compiere il misfatto, i tre compari mandarono in avanscopertaRubecchio che prese contatto con gli eredi di Bastardo de Manzano ed appurò checostoro non avevano difficoltà ad affittare ai Bardi la montagnola con i suoi miseri  edifici, tanto più che non c’era nulla nella proposta dei Bardi che potesse destaresospetti. Rubecchio spiegò ai proprietari del terreno che lui e i suoi soci intendevanotenere alcune mucche al pascolo e la cosa pareva abbastanza logica e innocente. Presigli accordi, Rubecchio ritornò con Gualterotto e Aghinolfo e gli accordi furonoratificati. La prima fase del piano era andata liscia: ma bisogna ammettere che eraanche la più facile.Resta poco chiaro perché i Bardi avessero scelto la cima di un monte per la loroimpresa. Normalmente i falsari preferivano le cantine di un maniero dove solidimuraglioni contenevano i rumori delle martellate e delle altre operazionimetallurgiche, e i fumi delle operazioni di amalgama e fusione restavano fuori dallavista della gente. La cima di una montagnola non pare fosse la località più adatta pernascondere la natura delle operazioni che i Bardi intendevano svolgere.Un altro passo da compiere era la scelta dei pezzi da falsificare. Dopo avercipensato bene, decisero di fabbricare copie delle seguenti monete5:carlini anconetani lucchesini sextini quattrini.La lista delle monete di cui si pianificava la falsificazione prova che il piano dei tremariuoli non mancava di una sua razionalità. Scelsero per lo più monete straniere cheperò godevano di buon credito sul mercato internazionale e quindi erano ben accette  su ogni piazza. D’altra parte scegliendo di coniare monete straniere e non fiorentineprobabilmente i tre mariuoli speravano che se fossero stati accalappiati avrebberopotuto più facilmente sollevare cavilli difendendosi dall’accusa di falso monetario. Isextini lucchesi furono scelti per la stessa ragione ma altresì perché essendo moneteconiate per la prima volta in quegli anni era difficile per il pubblico distinguere unfalso dall’autentico. Resta il problema dei quattrini: questi erano tradizionale monetafiorentina e quindi per loro non valeva nessuna delle ragioni citate per le altremonete. Ma i tre falsari erano ben a conoscenza della scarsità di questo contante sulmercato fiorentino. Quando nel 1371 le autorità monetarie permisero nuovamente laconiazione di questa moneta che per più di un decennio non era stata battuta, siconstatò quale fosse la “fame” dei quattrini: in soli tre anni tra il 1372 ed il 1375 piùdi 40 milioni di pezzi furono richiesti dai privati alla zecca. I tre Bardi sapevano cheper quanti pezzi avessero prodotto non avrebbero avuto difficoltà ad esitarli. C’eraquindi un enorme potenziale mercato da sfruttare che alimentò nei tre mariuoli roseevisioni di grossi guadagni, tali da indurli a rischiare i pericoli connessi con lafalsificazione di moneta fiorentina.Sozzo, Aghinolfo e Rubecchio conoscevano evidentemente il mercato monetarioma non si erano mai cimentati nella fabbricazione di monete. Dovettero quindi andarea caccia di operai disposti a lavorare per loro.Presero inizialmente contatto con un certo Jacobo Stricchia da Siena che dovevaessere conosciuto da uno di loro.Il processo produttivo della moneta metallica si componeva di tre operazionifondamentali e distinte: 1) la preparazione dei conii; 2) la preparazione dei tondellidetti anche fedoni; 3) la battitura dei tondelli mediante i conii che li trasformavano inmoneta conferendogli un valore nominale. Per queste operazioni occorrevano diversioperai quali i sentenziatori, i remissori, i carbonari, i rimettitori, i fonditori, il fabbro,l’intagliatore, gli addirizzatori, il monetiere, l’affinatore, il saggiatore. Il numero dioperai occorrenti non era fisso: poteva variare a seconda del tipo di zecca. Ma c’eraun minimo sotto il quale non si poteva scendere.Lo Stricchia ovviamente non possedeva tutte le capacità e qualità necessarie per laconiazione della moneta: aveva bisogno di aiuto e forse fu lui stesso che indicò aiBardi due altri gaglioffi – Lucio da San Gemignano e Guccio da Siena – i qualiaccettarono di far parte dell’impresa. Sozzo, Aghinolfo, Rubecchio, Stricchia, Lucio eGuccio si radunarono così per un primo incontro e una prima discussione operativa incasa dei Bardi a Firenze. Dalla riunione emerse inequivocabilmente che il gruppo nonpossedeva le qualità tecniche sufficienti per condurre a termine l’impresa. Qualcunodei presenti fece allora il nome di Jacobo Dini, anche lui di Siena, che pare avessetutte le qualità di cui la banda abbisognava, ma doveva essere un tipo moltosospettoso e molto attaccato al denaro per cui con lui occorreva andar molto cauti. Labanda però non aveva scelta. E si decise di convocare il Dini a Firenze, in casa deiBardi, per una seconda riunione generale. La cosa però non era facile da combinare.Il Dini, sospettoso com’era, temeva una trappola per cui i Bardi si decisero adinviargli tramite lo Stricchia una lettera personale accompagnata da sette fiorini d’orocome compenso per il suo disturbo a muoversi da Siena. I Bardi dovevano essere  buoni psicologi perché la loro mossa ottenne il risultato voluto. La loro letterapersonale e i sette fiorini riuscirono a smuovere il Dini che venne a Firenze epartecipò alla seconda riunione. Il Dini intascò i sette fiorini, approvò la lista dellemonete da falsificare, e ottenne la promessa di ricevere la settima parte di tutte lemonete da lui prodotte («septimam partem omnium monetarum quae cuderentur etfabricerentur in loco predicto per ipsum Jacobum»). Infine diede ai presenti notizie einformazioni tecniche sull’operazione e promise la sua presenza alle operazioni dimanifattura dei falsi. I tre Bardi erano alle stelle e diedero ordine a Guccio di recarsiimmediatamente a Siena allo scopo di «procurare, habere, facere vel emere» tutti iconii necessari per la fabbricazione delle monete.I nostri eroi formavano una specie di armata Brancaleone e come l’armataBrancaleone del famoso film non riuscirono a combinare assolutamente nulla. I loropiani fallirono miseramente prima ancora di essere attuati. Jacobo, Stricchia, Guccioe Lucio riuscirono a coniare a titolo di prova alcuni quattrini che, non si sa per qualeragione, rimasero appiccicati alle mani di Rubecchio. La banda non fece in tempo aconiare qualche altro pezzo da mettere in circolazione che le autorità intervennerotempestivamente ed in un battibaleno misero fuori gioco gli incauti malfattori. Checosa era successo?Difficile fornire una risposta precisa perché i documenti superstiti non sono ricchidi particolari e quelli del processo che contenevano i particolari sono andati distrutti osmarriti e comunque io non sono riuscito a rintracciarli.La gente deve aver notato che, mentre poche mucche venivano portate dai Bardisul monte, c’era tutto un misterioso andirivieni di attrezzi che con le mucche e la loroattività avevano poco o nulla da spartire. Quando si coniarono i quattrini e i sextini diprova, la fusione del rame provocò una fumata strana che pure non rientrava nellaattività normale delle mucche e che pare sia stata notata dalla gente del circondario.Ma come cercherò di mostrare in seguito la ipotesi più probabile è che ci sia stata unaspiata da parte di Lucio e di Guccio. Sta di fatto che la situazione improvvisamenteprecipitò.Nella prima metà di ottobre 1345 ser Giovanni di Guidone da Magnale, notaio eufficiale della lega di Cascia, inviò diverse guardie a Siena e a San Gimignano percitare e interrogare taluni che si diceva avessero partecipato con Stricchia e Dini allafabbricazione di moneta falsa. Sulla base delle informazioni raccolte, ser Giovanni diGuidone riuscì a catturare Stricchia di Jacobo e Jacobo Dini da Siena che «avevanopreparato la coniazione di moneta falsa nel castello di Castiglione appartenente aifigli di Bastardo de Manzano nel contado di Firenze ed ivi avevano in effetticominciato a coniare falsi quattrini e falsi sestini». La cattura dello Stricchia e delDini avvenne nella pieve di Cascia, nel contado di Firenze. Avuti in mano loStricchia e il Dini, ser Giovanni li fece trasferire sotto scorta a Firenze dove i duemalcapitati furono portati alla presenza di ser Beraldo da Narni podestà di quellacittà. Il podestà non perdette tempo: istruì immediatamente il processo ed il 15ottobre emanò la sentenza che condannava Stricchia e Dini alla morte sul rogo. I duepoveri diavoli furono immediatamente bruciati vivi: «combusti fuere».Per la sua pronta ed efficace azione ser Giovanni di Guidone da Magnale ricevette, come premio, nientedimeno che 95 fiorini d’oro e 15 soldi. I “nunzi”, cioè le guardieche avevano arrestato e scortato a Firenze i due falsari, ricevettero un premio di 3fiorini e 10 soldi. Il tutto – cattura dei colpevoli, loro condanna, loro abbruciamento,premio alle forze di polizia – fu portato a termine con una rapidità sorprendente. Maci fu dell’altro. Lo stesso 15 ottobre 1345 il podestà istruì il processo contro Sozzo,Aghinolfo e Rubecchio. Per un eccesso di diligenza il podestà aggiunse alla listaanche Rino, un servitore di Rubecchio. Accusò tutti di cospirazione a coniare monetafalsa e ritenendo di aver ottenuto le prove della loro colpevolezza, condannò tutti gliimputati alla morte sul rogo. La sentenza fu emessa in contumacia perché i Bardiriuscirono a sfuggire alla cattura. I Bardi potevano contare su tutta una ragnatela diconnivenze, di rifugi, di case intercomunicanti: catturarli era un grosso problema.Non è neppure da escludere che, dato il rango sociale e la potenza economica epolitica dei condannati, le forze di polizia agissero con voluta inefficienza. Tuttoquesto non stupisce. Stupisce invece trovare che nel 1348, appena tre anni dopo ilfattaccio delle monete, Sozzo fosse in missione nel Mugello per conto dellarepubblica: tutti i misfatti da lui compiuti sembravano improvvisamente edinspiegabilmente dimenticati. Nel 1350, poi, dietro lo sborso di una misera somma, laposizione di Sozzo fu completamente regolarizzata con la cassazione e revocazione ditutte le condanne pendenti contro di lui. Così Sozzo ritornò a essere un liberocittadino.Si è portati a ritenere che un uomo con un po’ di sale in zucca, dopo tutto quelloche era accaduto, se ne stesse cheto e tranquillo cercando di farsi dimenticare.Macché. Nello stesso anno in cui la Repubblica generosamente gli perdonava tutte lemalefatte e revocava tutte le condanne pendenti a suo carico, Sozzo si lanciava in unanuova incredibile impresa: tagliò letteralmente la strada tra Firenze e Bologna e aprìun valico alternativo nel territorio dei conti di Cerbaia. Lo scopo di questa inaspettataopera di ingegneria civile non era il progresso dei traffici e il miglioramento dellecomunicazioni; era quello di obbligare i transitanti a passare per luoghi dove fossepiù facile per Sozzo attaccarli e derubarli. Fu fortunato perché la Repubblica non fuin grado di reagire come avrebbe voluto. I Visconti di Milano premevano sempre piùminacciosamente su Firenze e la Repubblica fiorentina ebbe assoluto bisogno delfortilizio di Vernio, per articolare intorno ad esso la resistenza contro i Visconti. IBardi acconsentirono a schierarsi a fianco di Firenze, che in compenso li autorizzò arafforzare le vetuste fortificazioni in Vernio e a costruirne delle altre. E così continuòsino alla fine dei suoi giorni la strana vita di Sozzo il quale più misfatti faceva e piùonorificenze riceveva. Nel 1362 fu inviato dalla Repubblica in missione inValdinievole; nel 1371 gli fu affidato il comando della guarnigione della rocca diMonte Colorato nella valle di Santerno; nel 1372 sedette tra i capitani di Parte guelfae si fece notare per la sua ferocia nelle ammonizioni che impartiva.Delle vicende di suo zio Aghinolfo al tempo della falsificazione della moneta si ègià accennato in precedenza. Anche lui continuò a compiere malefatte vita sua naturaldurante, che tuttavia paradossalmente non gli procurarono se non onori eonorificenze. Nel 1360 fu inviato ambasciatore in Valdarno e podestà aCastelfiorentino; nel 1363 fu castellano a San Gimignano, nel 1366 castellano aBarga dove divenne podestà e finalmente morì nel 1370. La straordinaria vicenda dei Bardi e dei loro accoliti non mancò di suscitarenotevole impressione in Firenze. L’anno 1345 fu un anno molto difficile per lapolitica monetaria di Firenze per via dell’aumento inusitato del valore dell’argentorispetto all’oro: aumento che mise in crisi il sistema bimetallico allora prevalentenella città toscana. A questi avvenimenti si aggiunse la strana operazione dei Bardiche non mancò di suscitare notevole impressione nella città toscana. I Villani peresempio nella loro cronaca riportarono: «In questi dì, certi malefattori cittadini,alquanti di casa Bardi… fecino venire da Siena certi maestri falsatori di moneta enell’alpe di Castro avevano ordinato e cominciato a falsare la detta moneta nuova e iquattrini. De’ quali maestri furono presi due e furono arsi e confessarono per lorospontanea volontà che i detti tre de’ Bardi la faceano loro fare e [i Bardi] furono citatie non comparirono e furono condannati tutti e tre al fuoco come falsari».Era naturale che ci fosse una certa commozione nella città per il delitto commessodai membri di una delle più autorevoli famiglie fiorentine. Ma è singolare che neicronisti e scrittori del tempo non compaia alcuna reazione al fatto, per noi inaudito,che due degli operai implicati nella vicenda finissero sul rogo mentre i Bardi cheerano i veri responsabili della malnata vicenda, se pur condannati, non solo nonricevettero la pena comminata ma furono poi presto riammessi nella “nomenklatura”con importanti compiti e incarichi nell’amministrazione cittadina. Ad ogni modo,indipendentemente dalle reazioni della gente, la penosa storia di quel che accadde aFirenze nell’ottobre del 1345 conferma per l’ennesima volta la sacrosanta teoriasecondo la quale, in estrema sintesi, sono sempre e soltanto i cenci e gli stracci quelliche vanno all’aria.C’è un altro punto su cui dobbiamo tornare. I due disgraziati che furono bruciativivi furono lo Stricchia e Jacobo Dini. Gli altri due operai che parteciparonoall’impresa, Lucio da San Gemignano e Guccio da Siena, non compaiono tra icondannati. Io non sono riuscito a trovare documenti relativi al loro destino, ma tuttolascia presumere che i due siano riusciti a svignarsela. Si ricorderà che lo Stricchiaaveva pescato i due e che con loro si era tenuta in casa Bardi una prima riunione. Inun secondo tempo, assoldato anche Jacobo Dini, si era tenuta una seconda riunionesempre in casa Bardi, cui avevano partecipato ancora detti Lucio e Guccio. Guccio siera incaricato di procurare alla banda i conii per la falsificazione delle monete. Daqualsiasi punto si guardi alla complicata vicenda si trova che Lucio e Guccio eranocolpevoli non meno degli altri. Perché dunque furono risparmiati? La mia ipotesi èche i due o perché avessero litigato con i soci o per il terrore che può averli assalitidurante l’impresa, abbiano tradito i compagni e svelato il piano alle autorità e checome premio per la delazione siano stati risparmiati al rogo.Studiando il problema dei falsari nella regione veneta, R.C. Mueller rilevògiustamente che «gli effetti della contraffazione di piccoli quantitativi di moneteanche pregiate, erano quasi nulli; gran parte dei falsari rischiava la propria incolumitàfisica per cercare profitti tutto sommato magri». Lo stesso può dirsi della infeliceimpresa dei Bardi. Il profitto di un falsario consisteva di due elementi: 1) la minor  quantità di argento inserita nella moneta falsa rispetto alla quantità d’argentocontenuta nelle monete legali; 2) il diritto di signoraggio che veniva automaticamenteraccolto dai falsari in luogo di venir percepito dalla Repubblica.Circa il punto 1) c’è da osservare che tutte le monete argentee medievali, data lagenerale scarsità di metallo prezioso, contenevano limitate quantità di argento. Igrossi che Sozzo e compagni contenevano sì e no dai 2 ai 4 grammi di argento puro alpezzo. I quattrini fiorentini contenevano la miseria di grammi 0,2 di argento fino.Circa il punto 2) c’è da dire che nelle bene amministrate repubbliche italiane, i dirittidi signoraggio erano molto ridotti, molto più bassi cioè che nelle repubblichestraniere. Di norma tra spese di signoraggio e costi di produzione nel caso dellemonete grosse non si prelevava in Italia più di un 2-5 per cento mentre per le monetepiccole non si prelevava più di un 5-20 per cento del valore nominale della moneta.Se i falsari volevano ricavare profitti sostanziosi dalle loro imprese dovevano coniarequantità molto grandi di pezzi falsi. Sozzo & C. non avevano l’attrezzatura perprodurre tali masse di monete. I possibili profitti che la banda avrebbe potuto farepaiono pertanto del tutto sproporzionati ai rischi che i membri della banda correvano.C’è da osservare però che la sproporzione rilevabile nell’impresa era attenuata dallaprecauzione di coniare in prevalenza monete non fiorentine; ma soprattutto per iBardi c’era evidentemente la convinzione, dimostratasi fondata, che difficilmentesarebbero stati accalappiati e che se anche lo fossero ben difficilmente un’eventualecondanna sarebbe stata portata a compimento: di fronte alla legge i cittadini nonerano tutti uguali ed i Bardi appartenevano al gruppo privilegiato che della leggepoteva infischiarsi. E, di fatto, se ne infischiavano.