ALLA RICERCA DEL PRINCIPE CHE NON C’E’ di Luigi Longo

 

Non crediate che gli avi nostri abbiano fatta grande questa

piccola repubblica con le armi: se fosse così, noi l’avremmo

molto più bella, per gli alleati, i cittadini, le armi, i cavalli, di

cui disponiamo in maggior copia che loro. No! Altri furono i

mezzi che li fecero grandi, e sono quelli che noi non abbiamo

più: laboriosità in patria, autorità fondata sulla giustizia fuori;

nelle assemblee, uno spirito indipendente, libero da intrighi e da

passioni. Noi invece che cosa abbiamo? Amore del lusso, cupidigia

la miseria nelle finanze pubbliche, la ricchezza in quelle private;

teniamo in pregio gli averi, ma ci piace stare senza far nulla; non

c’è più distinzioni tra furfanti e galantuomini; gli imbroglioni si

accaparrano i premi dovuti ai meritevoli. E non c’è da meravigliarsi:

ciascuno di voi delibera soltanto a vantaggio dei suoi interessi, a

casa siete schiavi dei piaceri, qui del denaro e del favoritismo; ecco

perché c’è chi si getta su una repubblica senza difesa!

Sallustio*

 

 

Il mio intento è quello di proporre alcune letture che pongono riflessioni utili alla comprensione dell’attuale congiuntura storica con particolare riferimento all’Italia.

La prima lettura riguarda la critica che fa John M. Keynes alla stupidità dei governi nazionali nell’imporre l’assurdità dei sacrifici;tale critica è di grande attualità se si considera << l’ultima >> manovra economica eseguita dal governo italiano per servitù volontaria agli agenti strategici dominanti USA e ai loro vassalli europei ( Germania, Inghilterra e Francia). Si tratta di un dialogo radiofonico (Bbc 4 gennaio 1933) tra Sir Josiah Stamp e John M. Keynes sull’<< Assurdità dei sacrifici >>. Il dialogo, insieme al discorso tenuto nel 1932 alla Society for Socialist Inquiry su << Il dilemma del socialismo moderno >>, è stato pubblicato nel 1996 dalla casa editrice Manifestolibri con una introduzione di Giovanni Mazzetti.

La seconda e la terza lettura riguardano il debito pubblico e il capitale finanziario visti come strumenti di lotta politica per il dominio e per lo sviluppo di una nazione da parte degli agenti strategici dominanti.

Metto a confronto due interpretazioni del debito pubblico: la prima, quella di Mario Monti (attraverso la critica di Giovanni Mazzetti), le cui conseguenze disastrose ricadono, oggi per le misure messe in atto dal suo governo, sulla maggioranza della popolazione italiana e sull’impoverimento strutturale dell’Italia, con lo smantellamento delle sue poche industrie strategiche di livello mondiale; la seconda, quella dello storico Carlo M. Cipolla, racconta il debito pubblico come invenzione dei Comuni medievali italiani per il loro sviluppo.

Sul capitale finanziario riporto ( sempre dallo stesso Cipolla) la storia di re Filippo II di Spagna che viene dissanguato dalle banche genovesi per rafforzare il dominio e la potenza dei capitalisti della città-stato di Genova.

La quarta e la quinta lettura proposte riguardano un tema che dovrebbe essere posto << all’ordine del giorno >> nell’attuale congiuntura storica: quello dell’autonomia nazionale.

Propongo questo tema attraverso la lezione storica di Machiavelli ne << Il Principe >> letto e interpretato sia da Georg W.F. Hegel sia da Louis Althusser.

Sottolineo l’attualità di Althusser quando sostiene << …l’astuzia è opposta alle leggi come l’immoralità alla moralità. Giocare d’astuzia con le leggi significa in effetti “ raggirare lo spirito degli uomini “, significa “ fregarli “ con la menzogna e l’inganno >> in riferimento alla guerra di aggressione alla Libia e alla gestione ( non decisione) del cambio di governo, da Silvio Berlusconi a Mario Monti, da parte del Presidente della Repubblica.

* La citazione che ho scelto come epigrafe è tratta da: Sallustio, La congiuntura di Catilina, a cura di Lidia Storoni Mazzolani, Rizzoli, Milano, 2009, pp.175.177.

1.J.M. Keynes, L’assurdità dei sacrifici, Manifestolibri, Roma, 1996, pp.15-19.

Stamp:… leggiamo continuamente sui giornali, credo restando noi stessi confusi, tutte queste controversie sullo spendere e sul risparmiare. A che conclusioni pensi che il pubblico sia giunto in merito? Ritieni che tutte queste discussioni abbiano fatto emergere dei punti particolari, rendendoli chiari, o è tutto così confuso come all’inizio?

KEYNES: La mia impressione è che l’umore della gente stia cambiando. C’era un bel po’ di panico circa un anno fa. Ma non è forse vero che ora ci si sta rendendo conto abbastanza generalmente che la spesa di un uomo è il reddito di un altro uomo? Comunque, questa mi sembra essere la verità fondamentale, che non deve mai essere dimenticata. Ogni volta che qualcuno taglia la sua spesa, sia come individuo, sia come Consiglio Comunale o come Ministero, il mattino successivo sicuramente qualcuno troverà il suo reddito decurtato; e questa non è la fine della storia. Chi si sveglia scoprendo che il suo reddito è stato decurtato o di essere stato licenziato in conseguenza di quel particolare risparmio, è costretto a sua volta a tagliare la sua

spesa, che lo voglia o meno.

S.: Ciò significa che egli riduce il reddito di un secondo uomo, e che qualcun altro rimarrà senza lavoro.

K.: Sì, questo è il guaio. Una volta che la caduta è iniziata, è difficilissimo fermarla.

S.: Un momento. Osserviamo il risparmio di un Ministero o di un individuo, e consideriamo il suo effetto. Un paese o una città, proprio come un individuo, debbono vivere nei limiti delle loro risorse o si troverebbero in grave difficoltà se provassero a spingersi oltre. Molto presto intaccherebbero il loro patrimonio.

K.: Ci può essere solo un obiettivo nel risparmiare, ed è esattamente quello di sostituire una spesa con un altro e più saggio tipo di spesa.

S.: Sostituire! Questo mi fa comprendere il punto. Ad esempio, se il Governo o le autorità locali risparmiassero per ridurre le imposte o i saggi di interesse e permettessero agli individui di spendere di più; o se gli individui spendessero meno in consumi, per usare essi stessi il denaro nella costruzione di case o di fabbriche, o per prestarlo ad altri a tale scopo. Non servirebbe tutto ciò ad aggiustare le cose?

K.: Ma, caro Stamp, è questo che sta accadendo? Ho il sospetto che le autorità spesso risparmino senza ridurre i tassi di interesse o le imposte, e senza passare il potere di acquisto aggiuntivo agli individui. Ma anche quando il singolo riceve il potere di acquisto aggiuntivo, di solito sceglie la sicurezza o, quanto meno, pensa che sia virtuoso risparmiare e non spendere. Ma non sono veramente questi risparmi, tesi a far abbassare i saggi e le imposte, che sono al centro delle mie polemiche. Sono piuttosto quelle forme di risparmio che comportano un taglio della spesa, nei casi in cui quest’ultima dovrebbe essere naturalmente coperta con il debito. Perché in

questi casi non c’è alcun vantaggio connesso col fatto che il contribuente avrà di più, a compensare la perdita di reddito dell’individuo che subisce il taglio.

S.: Allora, ciò che intendiamo realmente è che, salvo il caso in cui la mancata spesa pubblica venga bilanciata da una spesa personale aggiuntiva, ci sarà troppo risparmio. Dopo tutto, il normale risparmio è solo un differente tipo di spesa, trasmessa a qualche autorità pubblica o alle imprese, per produrre mattoni o macchinari. Il risparmio equivale a più mattoni, la spesa a più scarpe.

K.: Sì, questo è il problema in generale. A meno che qualcuno stia effettivamente usando il risparmio per i mattoni o per qualcosa di simile, le risorse produttive del paese vengono sprecate. Insomma il risparmio non è più un altro tipo di spesa. Ecco perché dico che la deliberata riduzione di investimenti utili, che dovrebbero normalmente essere attuati con il debito, mi sembra, nelle attuali circostanze, una follia e, addirittura, una politica oltraggiosa.

S.: La difficoltà sta nell’individuare ciò che tu chiami «investimenti utili normali».

K.: Al contrario. Il Ministro della Sanità, se sono ben informato, sta disapprovando praticamente tutte le normali richieste delle autorità locali di indebitarsi. Ho letto, per esempio, in un giornale – anche se non posso garantire i dati di persona – che un questionario spedito al Consiglio Nazionale delle Imprese Edili mostra che qualcosa come 30 milioni di sterline in lavori pubblici sono stati sospesi come risultato della campagna nazionale per il risparmio. La si dovrebbe chiamare «campagna nazionale per l’intensificazione della disoccupazione»!

S.: Per quale ragione si sono spinti fino a questo punto? Perché stanno facendo questo?

K.: Non posso immaginarlo. È probabilmente l’eredità di qualche decisione presa in un momento di panico molti mesi fa, che qualcuno ha dimenticato di invertire. Pensa a quello che significherebbe per lo stato d’animo della nazione, e in termini umani, se avessimo anche solo un quarto di milione di occupati in più. E non sono sicuro che le ripercussioni della spesa si fermerebbero a quella cifra.

S.: Sono piuttosto suscettibile per quanto riguarda gli interventi governativi. Comunque, prendersela con un Ministero, che lo meriti o no, è una cosa completamente diversa dall’incitare gli individui a spendere di più.

Anche se una sollecitazione a questi ultimi potrebbe sembrare una cosa sciocca e pericolosa; sciocca a causa della riduzione dei loro redditi, che potrebbe rendere una spesa superiore insopportabile; pericolosa perché, se si inizia con l’incoraggiare le persone a essere imprudenti e a rinunciare alle loro abitudini di frugalità, non si sa dove si va a finire.

K.: Sono pienamente d’accordo. Non è l’individuo il responsabile, e non è quindi ragionevole attendersi che il rimedio venga dall’azione individuale. Ecco perché pongo così tanto l’accento sull’intervento delle pubbliche autorità. Sono loro che debbono avviare il processo. Non ci si deve aspettare che gli individui spendano di più, quando alcuni di loro stanno già indebitandosi. Non ci si può aspettare che gli imprenditori procedano a degli investimenti aggiuntivi, quando stanno già subendo perdite. È la comunità organizzata che deve trovare modi saggi per spendere e avviare il processo.

S.: Voglio affrontare la questione anche dall’altro lato. Al fine di conservare l’abitudine individuale alla parsimonia, non è necessario che le pubbliche

autorità sentano la loro responsabilità in questa direzione? Se questa abitudine, così utile nella vita individuale, deve recare giovamento alla comunità, è essenziale che si trovino modi utili di usare il denaro risparmiato.

K.: Sì, questo è ciò che dico. E inoltre, quello della diminuzione dell’attività, e quindi del reddito nazionale, non è un modo incredibilmente miope in cui cercare di pareggiare il bilancio?

S.: Bene, lasciando da parte qualsiasi questione complessa riguardante il debito nazionale, mi sembra che tutto questo riguardi comunque il Ministro delle Finanze in due modi. Innanzi tutto, deve far fronte alle indennità di disoccupazione per gli uomini licenziati, e poi deve tener conto che il gettito delle imposte dipende dal reddito degli individui o dalle loro spese. Cosicché tutto ciò che riduce sia il reddito che le spese degli individui riduce il gettito delle imposte. E se si subisce una diminuzione dal lato delle entrate e un incremento dal lato delle uscite, si deve trovare un rimedio. Un bilancio squilibrato distrugge infatti il nostro credito, anche se c’è una differenza tra un periodo normale e uno anomalo.

K.: Ma Stamp, non si potrà mai equilibrare il bilancio attraverso misure che riducono il reddito nazionale. Il Ministro delle Finanze non farebbe altro che inseguire la sua stessa coda. La sola speranza di equilibrare il bilancio nel lungo periodo sta nel riportare le cose nuovamente alla normalità, ed evitare così l’enorme aggravio che deriva dalla disoccupazione. Per questo sostengo che, anche nel caso in cui si prende il bilancio come metro di giudizio, il criterio per giudicare se il risparmio sia utile o no è lo stato dell’occupazione. In una guerra, per esempio, tutti sono al lavoro, e talvolta anche attività importanti e necessarie non vengono svolte. Allora se si riduce

un tipo di spesa, una spesa alternativa e più saggia la sostituirà.

S.: La stessa cosa accadrebbe se il governo stesse attuando un grande progetto edilizio e un programma di risanamento delle aree degradate.

K.: Sì, o di costruzione di altre ferrovie. O stesse bonificando altre terre, o ci fosse un’industria in rapida espansione a causa di nuove invenzioni, o qualsiasi altra ragione di questo tipo.

S.: Ma se, come accade oggi, una metà della forza-lavoro e degli impianti del paese sono inattivi, ciò indica che se un tipo di spesa viene ridotto, essa non sarà rimpiazzata da una spesa alternativa più saggia. Significa che niente prenderà il suo posto: nessuno sarà più ricco e tutti diverranno più poveri.

K.: Trovo che siamo d’accordo più di quanto pensassimo. Ma molte persone ritengono oggi che persino le spese praticabili costituiscano una vera sciocchezza. Quando il Consiglio della Contea decide la costruzione di case, il paese sarà più ricco anche se le case non garantiranno alcuna rendita. Se non si costruiscono quelle case, non avremo nulla da mostrare fatta eccezione per il maggior numero di uomini che ricevono un sussidio.

2.Giovanni Mazzetti, Tempo di lavoro e forme della vita, Manifestolibri, Roma, 1999, pp. 167-169.

 

 

Il ruolo del deficit pubblico

La mistificazione più grande contenuta nelle argomentazioni del Professor Monti riguarda la sua interpretazione della natura del deficit pubblico, perché proprio questa interpretazione ha costituito uno dei maggiori ostacoli sulla via della piena utilizzazione delle risorse esistenti…Il Professore richiama…il senso comune prevalente e sostiene che il deficit rappresenterebbe un arbitrio perché, ad una spesa presente, farebbe corrispondere un costo per le generazioni future. Ma per convenire su un simile principio di valore, si dovrebbe portare l’orologio della storia indietro di tre o quattro secoli. Che cos’è infatti l’investimento capitalistico, che un così grande progresso ha garantito negli ultimi trecento anni? Nient’altro che un’anticipazione. L’imprenditore sostiene cioè una spesa, di norma contraendo un debito, con la convinzione che, in un momento successivo, potrà farne gravare i costi su quanti compreranno i suoi prodotti. E per di più a questi costi passati aggiungerà di volta in volta un profitto. Perché coloro che vengono dopo questo investimento dovrebbero essere grati all’imprenditore per averlo fatto, e sentirsi soddisfatti dall’acquisto, per esempio, di una casa o di un’automobile, mentre nei confronti dello Stato che costruisce una scuola o una strada, senza nemmeno guadagnarci sopra, dovrebbero essere risentiti, e considerarlo come un assurdo? Portata alle sue logiche conseguenze, la posizione del Professore sfocia dunque nella messa in discussione di tutta la nostra civiltà, e non può pertanto essere condivisa.

C’è tuttavia una linea di difesa, che il Commissario ( all’epoca della critica, fine agosto1998, il professore Mario Monti era Commissario Europeo, precisazione mia) potrebbe cercare di far valere. Esaminiamola brevemente per dimostrare come anch’essa non tenga in gran conto la storia. Egli potrebbe infatti sostenere: d’accordo, l’imprenditore fa gravare costi sui futuri acquirenti, ma questi sono liberi di accettarli o di non accettarli. Essi possono cioè anche non comperare la casa o l’automobile, mentre lo Stato ci costringe a sopportare i costi che sostiene, mediante il prelievo fiscale. Per questo il debito pubblico si presenta come un arbitrio, mentre il debito privato non lo è.

Ora, una simile argomentazione costituisce una prova certa della totale incomprensione, da parte del nostro Professore, della natura del moderno Stato sociale. Com’è noto, infatti, i padri fondatori del Welfare negarono una qualsiasi validità ad un intervento pubblico che fosse finalizzato a coprire i propri costi con prelievi fiscali, fatta eccezione per l’imposizione su quella parte dei patrimoni che tendeva a riversarsi sul solo mercato speculativo, sottraendosi agli usi produttivi. Essi si batterono invece affinché allo Stato fosse riconosciuto seppure ad un livello superiore, un potere analogo a quello degli istituti di credito, di creare il denaro necessario alla soddisfazione dei bisogni che tecnicamente potevano essere soddisfatti, ma che non lo erano proprio a causa del relativo contrarsi della circolazione monetaria. Essi sostenevano cioè che, di fronte ad una famiglia che avesse bisogno di comperarsi una casa o un’automobile, in una situazione nella quale questi beni potevano essere prodotti, fosse giusto intervenire con una spesa pubblica, fornendo a quella famiglia un’occasione di lavoro e facendo così emergere quella domanda potenziale che, lasciata nelle mani del mercato, risultava priva di mezzi monetari per esprimersi. L’effetto positivo sarebbe stato duplice. Lo Stato poteva infatti mettere la madre ad insegnare ed il padre a costruire scuole e produrre una ricchezza materiale attraverso la loro azione. In aggiunta essi avrebbero acquisito quei mezzi monetari che mancavano per soddisfare i loro bisogni di abitazione e di trasporto. La casa e l’automobile sarebbero stati in tal modo prodotti. La libertà positiva di acquisire ciò di cui si aveva bisogno e che poteva essere prodotto riusciva così a prendere corpo, mentre prima era inesistente. Nel primo caso la famiglia risultava sottomessa al denaro, e cioè comperava quei beni che, attraverso la spontanea evoluzione del mercato, era in grado di acquisire. Mentre nel secondo caso essa veniva messa in condizione di acquisire tutti i beni materialmente producibili, anche al di là del livello consentito dalla spontanea evoluzione del mercato. Ciò che accadeva proprio grazie alla spesa dello Stato.

Se, nel periodo tra le due guerre mondiali, il mercato non avesse miseramente mostrato i suoi limiti strutturali, la necessità di procedere in questa direzione non sarebbe ovviamente emersa. Per questo si può riconoscere che, con lo Stato sociale, si tende ad introdurre una libertà di produrre, contrapposta e superiore, rispetto alla semplice libertà di scegliere nell’attribuzione di un prodotto dato. E per questo è assolutamente sbagliato il sostenere che l’intervento pubblico nell’economia, e segnatamente l’intervento in deficit, deve essere considerato negativamente.

3.Carlo M. Cipolla, Piccole cronache, il Mulino, Bologna, 2010, pp.35-38 e pp.39-42.

 

 

 Chi ha inventato il debito pubblico

L’antichità classica non conobbe il debito pubblico. Il debito pubblico fu un’invenzione dei Comuni medievali italiani. Il primo esempio di debito pubblico di cui abbiamo notizia risale al 1167 e si trattò di un prestito forzoso imposto dalla Repubblica di Venezia ai suoi cittadini abbienti. Venezia, Genova e Firenze furono i centri che più precocemente svilupparono ed affinarono le tecniche del debito pubblico. A Genova nel 1274 si decretò il consolidamento del debito pubblico che aveva raggiunto la somma di 305 mila lire genovesi del tempo. Sempre a Genova nel 1407 quando il debito pubblico aveva raggiunto la somma di circa 3 milioni di lire genovesi i creditori dello Stato si consorziarono in un ente chiamato Casa di San Giorgio che divenne praticamente il padrone dello Stato.

A Firenze nel 1303 il debito pubblico ammontava a circa 50 mila fiorini d’oro: una cifra ragionevole. Ma a partire da quella data il Comune di Firenze si trovò impelagato in una serie di conflitti proprio nel momento in cui per l’introduzione dell’artiglieria e la sostituzione delle milizie civiche con le bande mercenarie le guerre si facevano tremendamente più costose.

Lo Stato ha tre modi per sopperire alle sue spese: tassare i cittadini, svilire la moneta, ricorrere al credito. Firenze rispettò gelosamente l’integrità della sua moneta, andò cauta nell’imporre tasse e pertanto ricorse abbondantemente al credito. Il debito pubblico fiorentino che era come s’è detto di circa 50 mila fiorini d’oro nel 1303 passò a circa 600 mila fiorini nel 1343, a circa un milione cinquecentomila fiorini nel 1364, a circa 3 milioni di fiorini nel 1400.

Il crescente bisogno di denaro da parte dello Stato spingeva al rialzo il tasso d’interesse.

D’altra parte vigeva in Firenze una disposizione emanata nel 1345 che fissava nel 5 per cento il tasso di interesse massimo da corrispondere ai creditori dello Stato. Per aggirare la difficoltà si arrivò nel 1358 ad autorizzare l’iscrizione dei prestiti sottoscritti per somme triple di quelle effettivamente versate. In altre parole se Tizio versava come prestito al Comune la somma di cento fiorini, sul gran libro del debito pubblico veniva indicato come creditore di trecento fiorini. Al tasso del 5 per cento Tizio veniva in effetti a percepire il 15 per cento ( 5 per cento per 3) sulla somma effettivamente versata (100 fiorini) ed inoltre faceva un eccezionale guadagno speculativo in conto capitale.

Non stupisce quindi apprendere dalla Cronica di Matteo Villani che in quel periodo molti uomini d’affari fiorentini cessarono di investire i loro capitali nella mercatura indirizzandoli invece sul debito pubblico. I privati con disponibilità liquide arricchivano mentre lo Stato si impoveriva.

Il fatto che i prestiti comportassero il pagamento di un interesse frenò il ricorso al credito da parte dello Stato Pontificio. Ma nel corso della prima metà del Cinquecento la spesa pubblica straordinaria ed ordinaria aumentò notevolmente. D’altra parte, le entrate pubbliche diminuirono drasticamente perché mezza Europa divenne protestante e quindi cessò di inviare a Roma rendite e tributi ( primo fra tutti il cosiddetto << obolo di San Pietro >>).

Il movimento a forbice di entrate calanti e uscite crescenti costrinse il Papa a vincere i suoi scrupoli. Il Primo ricorso al prestito pubblico ebbe luogo nel 1526 quando papa Clemente VII ( notasi: un Medici di Firenze) lanciò un prestito per 200 mila ducati d’oro al tasso del 10 per cento. I successori di papa Clemente seguirono il suo esempio. Il debito pubblico dello Stato Pontificio ammontava a 5,6 milioni di scudi nel 1592, superava i 9 milioni nel 1604 e raggiungeva i 28 milioni nel 1657. Nel 1592 il pagamento degli interessi assorbiva il 30 per cento della spesa statale.

Tecnicamente il debito pubblico pontificio fu gestito in maniera inappuntabile. Con tutta probabilità c’era dietro la consulenza dei fiorentini. Quanto ai Genovesi essi divennero i consulenti e gestori del debito pubblico spagnolo nella seconda metà del Cinquecento.

Delle grandi città italiane medievali quella che non riuscì ad organizzare un regolare servizio di debito pubblico fu Milano. Non per virtù e parsimonia dei Visconti e degli Sforza, bensì perché l’arbitrio e l’abuso che caratterizzavano il modo di governare dei duchi milanesi erano elementi tali che non ispiravano la fiducia di chi avesse disponibilità liquide. Per cui i Milanesi investivano volentieri i loro capitali nei titoli di debito pubblico di Genova o di Venezia.

Quando nella seconda metà del Quattrocento, stabilitasi l’alleanza tra Milanesi e Fiorentini, il duca Francesco Sforza convinse Lorenzo il Magnifico ad aprire una filiale della Banca Medici in Milano, si verificò un interessante fenomeno. I Milanesi dimostrarono una decisa propensione a depositare le loro disponibilità liquide presso la Banca Medici la quale a sua volta prestava le somme raccolte in larga parte al duca Francesco. Ma questi, debitore della Banca Medici per somme sempre più crescenti, non conosceva puntualità né nel pagare gli interessi pattuiti né nel rimborsare il capitale alle date promesse. La Banca Medici invece pagava puntualmente gli interessi ai suoi depositanti e rimborsava regolarmente i capitali depositati quando richiesti. Uno stato di cose del genere non poteva evidentemente durare. E nel 1478 Lorenzo ordinò la chiusura della filiale milanese della Banca Medici.

Don Felipe dissanguato dai banchieri genovesi

Qualche mese fa diedi ordine a una grossa banca di cui sono cliente di acquistare per mio conto < al meglio >> un certo tipo di obbligazioni valutate in Ecu. La banca prontamente eseguì l’operazione e, giustamente, mi caricò di una data somma per diritti di commissione. Quando ricevetti tutti i documenti giustificativi dell’operazione notai peraltro che il prezzo caricatomi corrispondeva alla più alta quotazione del titolo verificatosi in Borsa nella giornata dell’operazione.

Guarda il caso, anche il cambio Ecu/Lira praticatomi era il più alto nella fascia registratasi nella stessa giornata. Ripetei l’operazione qualche settimana dopo ed i fenomeni sud descritti si ripeterono. Ne parlai ad un amico che aveva fatto la stessa operazione e mi assicurò che gli era successa la stessa cosa. Il campione è troppo piccolo per poterne trarre deduzioni valide, però la legge della probabilità alimentava il sospetto che la banca ci guadagnasse non solo con i regolari diritti di commissione ma anche sul prezzo del titolo e poi anche sul cambio. All’amico che irritato s’era messo ad imprecare contro il potere oligopolistico delle banche, per rasserenarlo, dissi che si trattava di una tradizione secolare e gli raccontai la storia di Filippo II e dei Genovesi: una storia che val forse la pena di essere raccontata anche a un pubblico più vasto.

Filippo II di Spagna fu una figura tragica. Lo fu umanamente, lo fu politicamente, e lo fu anche finanziariamente: finanziariamente perché fu il re più ricco del suo tempo e paradossalmente anche il più indebitato. La sua ricchezza gli veniva dall’impero che aveva ereditato da suo padre, l’imperatore Carlo V: non solo sotto forma di imposte e tasse di cui caricò in rapida e continua progressione le varie province del suo vasto impero a cominciare dalla Castiglia, ma anche sotto forma di diritti di regalia prelevati sui tesori di oro e argento estratti dalle miniere del Messico e del Perù. Per dare un’idea di quel fiume di oro soprattutto di argento che si riversò allora sulla Spagna e di cui Felipe tenne per sé circa un quinto, basti dire che tra il 1556 ( anno in cui Felipe salì al trono ) e il 1598 ( anno in cui Felipe morì ) furono importate a Siviglia oltre settemila tonnellate di argento ed oltre settanta tonnellate di oro. Era metallo cavato dalla terra da torme di indios crudelissimamente sfruttati ( sopratutto in Perù ), trasportato poi dal Messico e dal Perù a Cuba e lì caricato su convogli di galeoni che sfidando pirati e tempeste lo trasportavano a Siviglia. Una vera saga di sangue, di oppressione, di coraggio, di bramosia di ricchezze.

Le somme raccolte da Felipe sotto forma di tasse, imposte, e regalie sui tesori americani andarono crescendo nel tempo e raggiunsero livelli per quei tempi assolutamente inusitati. Ma el Rey non ne aveva mai abbastanza. E più ne prendeva, più ne spendeva.

Le sue spese erano soprattutto militari: guerre contro il Turco, guerre contro l’Inghilterra, guerre contro la Francia, soprattutto guerre contro quelle Province Unite settentrionali che noi oggi chiamiamo l’Olanda. Il suo sogno di unificare l’Europa occidentale politicamente e religiosamente lo portò a una conflittualità continua e su fronti numerosi e lontani [ la supremazia sull’Europa è sempre stata oggetto di acerrimi conflitti di guerra soprattutto tra la Francia e la Germania. Oggi il conflitto di egemonia si sta spostando a favore della Germania come vassallo del feudatario USA, nota mia ]. Le sue entrate erano pingui. Ma lui riusciva a spenderle ancora prima di incassarle e le spendeva sui vari teatri di guerra che andavano dal Mare del Nord all’Atlantico, al Mediterraneo, dai Paesi Bassi alla Valtellina, al Regno di Napoli. Il suo problema finanziario era duplice, come farsi anticipare le enormi somme che gli occorrevano e come rendersele disponibili nelle unità monetarie e nelle aree dove i soldi gli abbisognavano per le proprie armate, di terra o di mare che fossero.

Chi gli risolse questi problemi furono i banchieri genovesi che tra il 1530 ed il 1620 dominarono la scena finanziaria internazionale. Glieli risolvettero da veri genovesi, cioè facendosi pagare salatamente. Gli chiedevano un interesse del 14-15 per cento che, dati i tempi, non era nemmeno un tasso troppo elevato. Ma poi gli caricavano tutta una serie di altri aggravi: per il cambio da un tipo di moneta in un’altra, per l’aggio sulla moneta richiesta, localmente, per il trasporto della moneta da un posto all’altro, per i giorni di valuta perduti nelle riscossioni, insomma quello che doveva essere un prestito diciamo al 15 per cento veniva in effetti a costare un buon 45 o 50 o più per cento. Nel febbraio del 1580 frustato e furibondo el Rey scriveva a un suo amico e consigliere una lettera disperata: << Esto de cambios y intereses nunca me ha podido entrar en la cabeza >> ( << questa faccenda di cambi e interessi non sono mai riuscito a farmela entrare in testa >>).

Più pagava di interessi e di commissioni, più gli aumentava l’ostilità sorda e rancorosa verso i banchieri che lo dissanguavano. Cercò di rifarsi in più maniere. Per esempio dichiarando ogni tanto bancarotta, che poi bancarotta propriamente non era bensì una rinnegazione del debito a condizioni più favorevoli. E poi, proprio attorno all’anno 1580, cercando di servirsi della banche fiorentine e cercando di mettere quest’ultime in concorrenza con le banche genovesi. Gli andò male perché i fiorentini non furono all’altezza della situazione e si dimostrarono incapaci di sostituire quei diavoli di genovesi.

Gli stupendi palazzi di Genova costruiti nella seconda metà del Cinquecento, l’opulenza dell’aristocrazia genovese nello stesso torno di tempo, tutta quella straordinaria ricchezza e grandezza ebbero origine da quei complicati << cambios y intereses >> il cui meccanismo il povero don Felipe stentava a far entrare nella sua << cabeza >>.

4.Georg W.F. Hegel, Scritti politici, a cura di Claudio Cesa, Einaudi, Torino, pp.102-104.

 

 

La formazione degli stati nel resto d’Europa

 

In questo periodo di sventura, quando l’Italia correva incontro alla sua miseria, ed era il campo di battaglia delle guerre che i principi stranieri conducevano per impadronirsi dei suoi territori, ed essa forniva i mezzi per le guerre, e ne era il prezzo; quando essa affidava la propria difesa all’assassinio, al veleno, al tradimento, o a schiere di gentaglia forestiera sempre costose e rovinose per chi le assoldava, e più spesso anche temibili e pericolose- alcuni dei capi di esse ascesero al rango principesco -;quando tedeschi, spagnoli, francesi e svizzeri la mettevano a sacco, ed erano i gabinetti stranieri a decidere la sorte della nazione, ci fu un uomo di stato italiano che nel pieno sentimento di questa condizione, di miseria universale, di odio, di dissoluzione, di cecità concepì, con freddo giudizio, la necessaria idea che per salvare l’Italia bisognasse unificarla in uno stato. Con rigorosa consequenzialità egli tracciò la via che era necessaria, sia in vista della salvezza sia tenendo conto della corruttela e del cieco delirio del suo tempo, ed invitò il suo principe a prendere per sé il nobile compito di salvare l’Italia, e la gloria di porre fine alla sua sventura, con parole seguenti:

<< E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisé, che il popolo di Isdrael fussi stiavo in Egitto, et a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, che’ Persi fussino opprressati da’ Medi, e la eccellenza di Teseo, che li Ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù d’uno spirito italiano, era necessario che l’Italia si riducessi nel termine che ell’è di presente, e che la fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniesi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina. E benché fino a qui si sia monstro qualche spiraculo in qualcuno, da poter indicare che fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto da poi come, nel più alto corso delle azioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa sanza vita, espetta qual possa essere quello che sani le sua ferita, e ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite >>.

<< Qui è iustitia grande: iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est >>.

<< Ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza. El rimanente dovete fare voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi >>.

<< Né posso esprimere con quale amore e’ [ il redentore d’Italia] fussi ricevuto in tutte quelle province che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbano? Quali populi li negherebbano la obbedienza? Quali invidia se li opporrebbe? Quale italiano li negherebbe l’ossequio? >>.

E’ facile rendersi conto che un uomo il quale parla con un tono di verità che scaturisce dalla sua serietà non poteva avere bassezza nel cuore, né capricci nella mente. A proposito della bassezza, nella opinione comune già il nome di Macchiavelli è segnato dalla riprovazione: principi machiavellici e principi riprovevoli sono, per lei, la stessa cosa. Il cieco vociare di una cosiddetta libertà ha tanto soffocato l’idea di uno stato che un popolo si impegni a costituire che forse non bastano né tutta la miseria abbattutasi sulla Germania nella guerra dei sette anni, e in quest’ultima guerra contro la Francia, né tutti i progressi della ragione e l’esperienza delle convulsioni della libertà francese per innalzare a fede dei popoli o a principio della scienza politica questa verità: che la libertà è possibile solo là dove un popolo si è unito, sotto l’egida delle leggi, in uno stato.

Già il fine che Machiavelli si prefisse, di innalzare l’Italia ad uno stato, viene frainteso dalla cecità, la quale vede nell’opera del Machiavelli nient’altro che una fondazione di tirannia, uno specchio dorato presentato ad un ambizioso oppressore. Ma se anche si riconosce quel fine, i mezzi- si dice- sono ripugnanti: e qui la morale ha tutto l’agio di mettere in mostra le sue trivialità, che il fine non giustifica i mezzi ecc. Ma qui non ha senso discutere sulla scelta dei mezzi, le membra cancrenose non possono essere curate con l’acqua di lavanda. Una condizione nella quale veleno ed assassinio sono diventate armi abituali non ammette interventi correttivi troppo delicati. Una vita prossima alla putrefazione può essere riorganizzata solo con la più dura energia ( corsivo mio).

5.Louis Althusser, Macchiavelli e noi, Manifestolibri, Roma, 1999, pp.27-29, p.112, pp.157-166.

Teoria e pratica politica

 

 

Ma una nazione non si costituisce spontaneamente. Gli elementi preesistenti non si unificano da soli in nazione. Occorre uno strumento per formare la sua unità, riunire i suoi elementi reali o potenziali, difendere l’unità realizzata ed estendere eventualmente le sue frontiere. Questo strumento è lo Stato nazionale unico. Ma attenzione: questo Stato assicura le sue funzioni militari di unificazione, di difesa e di conquista solo a condizione di assicurarne, allo steso tempo, altre: politiche, giuridiche, economiche e ideologiche. Tutte funzioni indispensabili all’unità della nazione e al suo funzionamento come mercato. Ciò che distingue uno Stato moderno, cioè nazionale e dunque borghese nel senso di Gramsci, da uno Stato come il Sacro Romano Impero, e dai numerosi piccoli Stati dell’Italia del tempo di Machiavelli, è il suo compito storico: la lotta contro i particolarismi, anche di città molto evolute economicamente, politicamente e ideologicamente, ma destinate a correre pericolo per l’esiguità del loro mercato e per le rivalità tra le città- è l’avvio, naturalmente attraverso conflitti di classe acuti e contraddizioni notevoli, delle prime forme di unificazione economica, politica, giuridica e ideologica della nazione. Questo compito storico è stato inaugurato in un certo numero di paesi, tra il XIV e il XVIII secolo, attraverso una forma di Stato specifico: la monarchia assoluta. Il potere assoluto ( più o meno sostenuto-limitato da << leggi fondamentali >>, dai Parlamenti, ecc.), si è, in pratica, rilevato come la forma adatta alla realizzazione storica dell’unità nazionale. Assoluto significa unico, centralizzato, ma non arbitrario ( corsivo mio). Se questa unità nazionale non può farsi spontaneamente, non può neanche farsi artificialmente: altrimenti sarebbe affidata a un potere tirannico, arbitrario, che non ha come scopo l’unità. Ne deriva il duplice aspetto del potere della monarchia assoluta, secondo Gramsci: esso implica allo stesso tempo la violenza e la coercizione, ma anche il consenso, dunque << egemonia >>.

Da queste condizioni risulta che se la nazione può costituirsi solo per mezzo di uno Stato, lo Stato moderno ( intendiamo quello che si impone con lo sviluppo del capitalismo) può essere solo nazionale. Questo implica che l’unità nazionale non può essere realizzata da uno Stato non nazionale, da uno Stato straniero ( fino al XIX secolo tutta la storia- e forse non è ancora finita ( corsivo mio)- è piena di tentativi di quest’ultimo genere).

Ecco dunque ciò che Gramsci ritiene di Machiavelli, per quanto riguarda il passato, e anche il prossimo presente…Ciò che, in definitiva, colpisce Gramsci in Machiavelli, è il futuro in seno al passato e al presente.

Machiavelli aveva parlato di un Principe Nuovo, Gramsci parla di un Moderno Principe. Il Principe di Machiavelli è un sovrano assoluto al quale la storia << affida un compito >> decisivo: quello di << dar forma >> a una << materia >> esistente, a una materia che asprira alla sua forma, la nazione. Il Principe Nuovo di Machiavelli è dunque una forma politica definita, incaricata di realizzare le esigenze storiche << all’ordine del giorno >>: la costituzione di una nazione. Anche il Moderno Principe di Gramsci è una forma politica definitiva, un mezzo specifico che permette alla storia moderna di realizzare il suo << compito >> principale: la rivoluzione e il passaggio a una società senza classi.

La teoria del << Principe Nuovo >>

Supponiamo allora dei governi che durino, ma in condizioni che li condannano alla debolezza organica, e impediscono loro ogni estensione. Machiavelli esclude anche questi: come l’utopia scettica della città povera e virtuosa, o i governi che non accrescono la forza del popolo o non sono in grado di armarlo. Infatti, anche se questi governi possono durare un certo tempo, essi sono alla mercé di uno forte, e rimangono deboli perché non sono in grado di ampliarsi.

La pratica politica del principe nuovo

L’opposizione legge/astuzia ci mostra dunque due casi limite: quello del Principe che governa solo con le leggi ( virtù morale: buona fede, bontà, ecc.), e quello del Principe che governa con astuzia, ingannando lo spirito degli uomini. Il primo è lodevole. Ma il secondo?

…L’astuzia è opposta alle leggi come l’immoralità alla moralità. Giocare d’astuzia con le leggi significa in effetti << raggirare lo spirito degli uomini >>, significa << fregarli >> con la menzogna e l’inganno. Si capisce allora perché l’astuzia venga posta da Machiavelli sotto la categoria della bestia e non dell’uomo. Saper usare l’uomo significa praticare le virtù morali: saper usare la volpe significa saper usare una violenza non violenta, il vizio di tutti i vizi, la mancanza di fede, la frode. E si comprende come allora perché l’astuzia, che è facoltà animale, che è avvicinata alla forza per la sua immoralità, [ è ] abbinata alle leggi come il loro contrario, e [ è ] un governo di secondo grado: essa è in effetti la capacità di governare immoralmente il governo con le leggi, è l’arte di simulare di osservare le leggi pur violandole o eludendole. Essa è la necessità e la comprensione del non-essere sotto le apparenze dell’essere, e viceversa.

Ciò che gli individui possono fare in particolare, per esempio farsi beffe della legge religiosa o morale, evitare i divieti per soddisfare le loro passioni o le loro ambizioni, importa poco: anche quando violano la legge, essi la proclamano e la riconoscono, è la legge riconosciuta che comanda la sua propria trasgressione. D’altronde Machiavelli considera in fondo che la maggioranza del popolo, del volgo, si conforma alla legge: gli umili, che sono il gran numero, vogliono solo la sicurezza dei loro beni e delle loro persone, in particolare delle loro donne. E’ il piccolo numero che è mosso dalla passione e dall’ambizione del potere e è pronto a tutto per soddisfarli ( corsivo mio).

…<< e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare >>.

Se ci si raffigura la situazione di estrema miseria e rovina dell’Italia, si constata: 1. Che l’Italia è una << materia >> che no aspetta altro che una forma adatta a unificarla.2. Ma che in compenso non si può aspettare assolutamente niente dalle forme politiche di cui essa è afflitta, perché sono tutte delle forme antiche e feudali. E’ per questo che il Principe deve essere del tutto nuovo, e cominciare ad adempiere al suo compito storico a partire da un Principato interamente nuovo. Si tratta di creare una base politica. Questa base politica…se deve essere interamente nuova, e spazzare via le antiche forme politiche, non potrà costituirsi nel vuoto: il Principe dovrà << foggiare >> gli uomini esistenti, che portano i segni delle forme feudali di dominio politico, nei loro costumi e nelle loro leggi religiose e morali. Ancora una volta, l’obiettivo politico di Machiavelli non è di riformare la costituzione dello Stato, né di prendere il potere nelle forme di uno Stato esistente, ma di costituire una base politica radicalmente nuova.