BASTA SUPERFICIALITA’, SI VADA AL FONDO DEI PROBLEMI, di GLG

gianfranco

Riportiamo intanto le notizie essenziali sulla grande depressione (o stagnazione) di fine secolo XIX (da Wikipedia)
Grande depressione (1873-1895)
La grande depressione di fine Ottocento fu una crisi economica – la prima a essere chiamata tale per vastità di portata ed estensione temporale in cui dispiegò i suoi effetti – che ebbe inizio nel 1873 durante la presidenza di Ulysses S. Grant dopo oltre trent’anni di incessante crescita economica determinata dalla seconda rivoluzione industriale [1] e si protrasse sino alla fine del XIX secolo.
Il mondo sviluppato conobbe una crisi agraria, cui si aggiunse una parallela crisi industriale, con forti riduzioni della domanda, profitti marginali calanti e scarsa circolazione monetaria (che non riguardò tutti i Paesi), anche se il prodotto interno lordo (PIL) complessivo si mantenne in crescita costante, senza avere cioè caratteri puramente recessivi. Una forte e perdurante deflazione, a livelli strutturali, durante l’intero ventennio innescò massicci licenziamenti e riduzioni salariali, repressioni ai danni dei sindacati e vasti movimenti migratori dalle campagne alle città e dalle aree meno sviluppate a quelle economicamente più forti del mondo.
La crisi ebbe avvio in Europa con una forte ondata di vendite sulla piazza borsistica di Vienna l’8 maggio 1873, per il timore generalizzato della perdita dei risparmi da parte degli investitori. Negli Stati Uniti d’America invece, il 18 settembre successivo, la crisi ebbe inizio con il fallimento (a causa di ingenti prestiti, divenuti irrecuperabili, investiti nel settore ferroviario, in particolare nella Northern Pacific Railway) della grande banca newyorkese Jay Cooke & Company, uno dei maggiori istituti statunitensi; questo diede il via ad un’ondata di panico (panico del 1873) che si diffuse nell’economia statunitense e poi in tutti gli altri paesi industrializzati. Nel giro di pochi mesi la produzione industriale degli Stati Uniti cadde di un terzo per la mancanza di acquirenti mentre aumentava a dismisura la disoccupazione. Presto la crisi si diffuse anche in Gran Bretagna, Francia e Germania.
La carenza sul lato della domanda provocò un improvviso e rovinoso calo del saggio dei prezzi (deflazione che interessò l’intero ventennio di crisi), con una quantità sempre crescente di scorte di magazzino invendute che indussero i produttori ad avviare massicci licenziamenti nel settore industriale
La crisi di sovrapproduzione si manifestò anche come conseguenza dell’ascesa degli Stati Uniti e dell’Impero tedesco come nuove potenze mondiali. Le riparazioni imposte dalla Germania alla Francia a seguito della guerra franco-prussiana (ammontanti a 6 miliardi di franchi in oro) furono reinvestite al fine di alimentare un processo di rafforzamento del settore siderurgico (complice anche l’acquisizione di vaste aree a produzione carbonifera dell’Alsazia e della Lorena), con una susseguente euforia speculativa sui mercati borsistici. Parimenti negli Stati Uniti si avviava una forte espansione del settore ferroviario e un ingrossamento della bolla finanziaria legata al settore.
Fu la prima manifestazione di una crisi economica moderna, evidenziando la ciclicità dei processi economici, caratterizzati da fasi espansive e conseguenti fasi depressive. Mentre infatti le crisi dell’Ancien Régime si manifestavano sotto forma di carestie (quindi crisi da sottoproduzione), il nuovo tipo di crisi che il mondo andava sperimentando si configurava come crisi di sovrapproduzione.
La crisi può essere spiegata per la concomitanza di tre fattori:
1. aumento del progresso tecnologico, che favorì un incremento della produzione di beni;
2. aumento del numero di paesi industrializzati, e in particolare ingresso di nuovi attori economici nel mercato globale (Stati Uniti e Germania guglielmina);
3. imposizione di bassi salari, con conseguente riduzione dei redditi e crisi sul lato della domanda aggregata

[1] La seconda rivoluzione industriale è il processo che rappresentò la seconda fase dello sviluppo industriale e che viene cronologicamente riportato al periodo compreso tra il congresso di Parigi (1856) e quello di Berlino (1878) e che giunge a pieno sviluppo nell’ultimo decennio del XIX secolo[1], sia pure in concomitanza con la grande depressione di fine Ottocento……..A questo prodigioso sviluppo industriale, che si protrasse fino agli inizi nel Novecento e che interessò altri Stati del mondo, come gli U.S.A. ed il Giappone, è stato dato il nome di Seconda rivoluzione industriale.

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Diciamo che è esatto indicare la differenza delle crisi economiche nel capitalismo (più preciso e congruo sarebbe parlare di modo di produzione capitalistico, così come fece di solito Marx) e nelle formazioni sociali precedenti. In queste ultime – fondate sull’agricoltura e non sulla produzione industriale, nata dalla sostituzione degli strumenti usati nelle manifatture (già per l’essenziale caratterizzate da rapporti sociali capitalistici) con macchine in sempre più accelerata invenzione e moltiplicazione; forse la più profonda e sconvolgente (in termini sociali) trasformazione verificatasi in campo produttivo nei millenni di storia umana – le crisi erano carestie, nate appunto dalla penuria di prodotti agricoli con vera fame, sottoalimentazione, epidemie. Nella nuova forma di società (di rapporti sociali, in specie quelli inerenti alla sfera produttiva), si verifica al contrario, periodicamente, un eccesso di produzione (e di offerta di prodotti nel mercato ormai generalizzatosi) rispetto alla domanda degli stessi. E queste sono le nuove crisi: di miseria nella sovrabbondanza, che tuttavia provoca poi il crollo della produzione, la disoccupazione dei lavoratori, ecc. ecc. E’ quindi logico che in questi periodi si verifichi di solito una caduta dei prezzi di mercato.
Tuttavia, la spiegazione della crisi fornita dalle correnti culturali dominanti è tutta intrisa di economicismo, proprio quella deformazione che esse hanno sempre attribuito al marxismo. A parte i marxisti che di Marx hanno capito poco (spesso proprio nulla), il cosiddetto economicismo marxista consisteva nel fatto di aver dato troppo rilievo alla sfera produttiva (considerata lo scheletro portante della società in ogni epoca della stessa); di quest’ultima, però, Marx (e i veri marxisti) hanno sempre considerato i rapporti sociali (tra classi) e non certo il Pil, i suoi livelli e tassi di crescita, il livello dei prezzi, ecc. Ciò è esattamente quanto fanno invece proprio le suddette correnti culturali. Tutto è declinato in termini strettamente economici (produttivi, mercantili, finanziari, ecc.). Le crisi sono quindi considerate come una sorta di “terremoti”, delle cui cause profonde (gli “scivolamenti e urti tettonici” sempre in atto, con improvvisi e violenti sussulti che vengono allora in superficie) ci si disinteressa; o le si tratta a parte come fenomeni d’altro genere e autonomi: ad es. le grandi crisi politiche internazionali, le guerre e scontri bellici in generale, ecc., il tutto visto pur esso nelle sue manifestazioni più superficiali e, troppo spesso, addirittura come eventi discendenti da scelte personali dei “potenti”.
Da questo punto di vista, possiamo notare che anche la grande depressione di fine ‘800 – similmente alla recente crisi iniziata nel 2008 e che ho più volte latamente paragonata a quel più lontano evento – non aveva comportato vere e durature cadute del Pil; solo crescita molto lenta, nettamente inferiore a quella del trentennio precedente (di fatto, è quanto accaduto anche precedentemente all’innesco della presente crisi strisciante, che ha ormai raggiunto il decennio). Vi era stata allora la notevole deflazione dei prezzi, non proprio caratteristica della crisi odierna; non scordiamoci però dei tassi d’inflazione vigenti alcuni decenni fa (e non solo in Italia) e oggi ridimensionati. Infine, durante quella lunga crisi eravamo in piena seconda “rivoluzione industriale”, così come oggi vi è un forte e vigoroso avanzamento tecnologico (qualcuno parla, ma non so se correttamente, di quarta “rivoluzione industriale”, poiché la “terza” è iniziata dopo la seconda guerra mondiale).
Dov’è che si riscontra decisamente la visione superficiale, ed economicistica, delle attuali interpretazioni di quella lunga e tormentosa depressione? Nel restare appunto alla superficie, alle “scosse” di terremoto; ancora non violente quanto quelle che hanno caratterizzato la prima metà del ‘900 con le due crisi economiche (avviate da crolli di Borsa) del 1907 e 1929 e soprattutto con le due “grandi” guerre ben più decisive nell’aver mutato tutti gli equilibri della società mondiale nelle sue più rilevanti articolazioni, rappresentate – piaccia o non piaccia a coloro che sono rimasti attaccati ad un marxismo nemmeno ben compreso – dai rapporti di forza tra diversi paesi, alcuni dei quali erano potenze, altri subpotenze (regionali), altri semplici subordinati ai precedenti.
Cercando di arrivare alla necessaria semplificazione – principale preoccupazione di ogni effettiva teoria poiché la complessità serve solo a paralizzare l’azione di chi vuol modificare date situazioni – queste ultime, in termini mondiali, possono essere ricondotte al monocentrismo (mai perfetto) cui segue poi il policentrismo (con una fase di transizione in cui va crescendo il multipolarismo) e la conseguente necessità di un conflitto acuto, in genere anche bellico, per ristabilire condizioni di pur non perenne supremazia monocentrica. Esattamente nell’ambito della strutturazione dei rapporti internazionali relativa a tale situazione, si verifica una qualche regolazione dell’intero sistema (a forma capitalistica) da parte della potenza divenuta preminente. In tal senso allora, si hanno crisi economiche minori e poco lunghe; nel mentre continuano – nelle “profondità” della politica, a livello internazionale con intreccio di fenomeni vari all’interno dei vari paesi – gli “urti tettonici”, poiché la regolazione generale, alla lunga, danneggia e deprime le possibilità dei paesi sostanzialmente subordinati. Si riavvia perciò infine il conflitto, mai in forma lineare e facilmente prevedibile, tra la potenza centrale e alcuni di questi paesi, che trascinano poi altri; si apre pian piano, ma in forme assai tortuose e spesso ingannevoli, una nuova fase multipolare e il gioco ricomincia pur in mutate circostanze sociali, politiche, economiche, culturali, ecc.
Stiamo appunto entrando oggi nella fase multipolare, che va seguita non trascurando i fenomeni economici, con piena consapevolezza tuttavia dell’assai maggiore importanza di quelli politici; in modo del tutto particolare nell’ambito dei rapporti internazionali tra vari paesi a diversa potenzialità. Non vanno trascurati nemmeno i conflitti interni ai vari paesi – soprattutto in quelli più potenti e in sempre più aperto scontro tra loro – pur essi di lettura assai complessa. Molto spesso si crederà alla possibilità di dialoghi e accordi, che certamente si faranno finché non diventerà improcrastinabile l’avvento di una nuova supremazia, per la quale ci si batterà allora fino in fondo. Tutto questo ci fa comunque capire che il conflitto interno principale, soprattutto nella fase multipolare, è quello tra gruppi di vertice che propongono soluzioni diverse per la conquista della predominanza nel mondo; o direttamente o al seguito di una potenza considerata la “guida” di una coalizione.
Il discorso non è affatto esaurito. Tuttavia, penso che quanto fin qui detto sia sufficiente a far capire – a chi vuol capire – quali conflitti (internazionali e, in conseguenza di questi, pure quelli interni) debbono maggiormente ritenere la nostra attenzione.

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