CHI FA LA STORIA CON LA CONTA DEI MORTI MERITA DI ESSERE SEPPELLITO SOTTO TRE METRI DI VERGOGNA

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OLYMPUS DIGITAL CAMERAFare storia affidandosi alla conta delle lapidi è un esercizio da sciacalli. Questa attività, peraltro esercitata con estrema selettività, attraverso i molti drammi umani sparsi per i secoli, si chiama necrofilia. Oggi è un mestiere di successo tra i chierici delle lettere che siano universitari, giornalisti o semplici opinionisti dei sepolcri imbiancati dell’Occidente. Da quando i diritti umani sono diventati l’ultima frontiera dell’ipocrisia dominante i professorucoli del piagnisteo vivono succhiando, come vampiri, il plasma dei vinti, sempre pronti a saltare da una fossa comune all’altra per nutrirsi di cadaveri putrefatti. Marciare tra i marciti fa bene alla carriera e al portafogli ma lascia addosso un tanfo inestinguibile. I tombaroli dell’accademia trovano facile attribuire ai propri nemici, quando perdenti, tutti i mali del mondo nascondendo le responsabilità dei propri committenti sotto al tappeto. Ognuno tira il sangue al mattatoio altrui e scaglia ossa, più o meno consunte dal tempo e disseppellite alla bisogna, dietro agli impenitenti che osano rifiutare la loro versione del funerale della verità. E’ notizia di qualche giorno fa che la Russia ha posto il veto sulla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul Massacro di Srebrenica. Giusto così. Per Mosca, da sempre vicina a Belgrado, non si trattò di genocidio ma di un evento tragico da contestualizzarsi nei fatti di quella guerra fratricida tra popolazioni della ex-Yugoslavia, in cui alcuni paesi europei e gli Stati Uniti ebbero un ruolo nefasto. Tuttavia, il Cremlino non si è dimostrato altrettanto comprensivo con i Turchi accusati dell’eccidio armeno, avvenuto nel 1915-16, con Putin che, pochi mesi fa, si è recato a Erevan per manifestare solidarietà alle vittime ed ai parenti di quel lontano massacro. Una mossa poco condivisibile alla luce dei numerosi genocidi di cui la Russia comunista viene accusata dai liberali di casa nostra, affinché le colpe dei padri ricadono sempre, con più rumore possibile, sui figli. Ed, infatti, ci ha pensato Giampietro Berti su il Giornale, pala in resta e rivestimento di mogano come armatura, a esumare l’Holodomor, la strage dei contadini ucraini, di cui il “feroce” Stalin si macchiò tra altri svariati delitti. Scrive Berti:”Tra l’autunno 1932 e la primavera 1933 circa 6 milioni di contadini nell’Urss furono volutamente condannati a morire di fame: quasi i due terzi delle vittime erano ucraini”. Berti si gioca l’effetto speciale del numero evocativo inventato (6 milioni, come gli ebrei) e lo lega all’attualità, quella del conflitto in corso in Ucraina tra governativi e separatisti filo-russi. Per Berti, Stalin perseguì scientemente il massacro con le sue direttive criminali: “per punire i ribelli delle campagne che, in tutta l’Urss, si opponevano alla collettivizzazione”. Asserzione indimostrabile ma tant’è, si tratta, in fin dei conti, di un articolo ideologico e non scientifico. Ma Stalin che voleva lanciare il paese, a tappe forzate, verso l’industrializzazione, considerava la cosa un mero effetto collaterale, utile alla Russia per una modernizzazione non più procrastinabile, in mancanza della quale la sua nazione sarebbe stata aggredita e fagocitata, in breve volger di tempo, con molti più morti e razzie di quelle che lui autorizzava nelle campagne,dalle potenze capitalistiche vicine e lontane. Koba non era certo un piccolo uomo come il nostro Berti e si caricò addosso il fardello insanguinato pur di guidare la patria tra i grandi del pianeta. Tuttavia, di questi episodi, come dire “necessitanti”, se ne riscontrano a iosa nella storia del capitalismo, con lunghe file di cadaveri allineate per sei secoli, almeno dal XV in poi.

Del resto, che cosa era stata la famigerata “accumulazione originaria” capitalistica, di cui Marx parla nella sua massima opera? Quante vite di poveri cristi aveva spezzato? E quante altre caddero durante le svariate epopee del capitalismo, dalle rivoluzioni industriali, al colonialismo, alle guerre mondiali, ai conflitti umanitari, alcuni ancora in corso, a mietere esistenze su esistenze in nome del progresso (che sia comunque benedetto)? Milioni e milioni di morti che Berti non conta perché ha lo sguardo offuscato dalla propaganda. Oltre che meritarsi uno zero in storia si prende anche uno zero spaccato in aritmetica.

Karl Marx – Estratti dal I Libro del Capitale – CAPITOLO 24
LA COSIDDETTA ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

…Il preludio del rivolgimento che creò il fondamento del modo di produzione capitalistico si ha nell’ultimo terzo del secolo XV e nei primi decenni del XVI. Lo scioglimento dei seguiti feudali che, come nota esattamente Sir James Steuart, «dappertutto riempivano inutilmente casa e castello», gettò sul mercato del lavoro una massa di proletari eslege. Benché il potere regio, anch’esso prodotto dello sviluppo della borghesia, con i suoi sforzi per raggiungere la sovranità assoluta, affrettasse con la forza lo scioglimento di quei seguiti, non ne fu l’unica causa. Piuttosto, il grande signore feudale, in tracotante opposizione alla monarchia e al parlamento, creò un proletariato incomparabilmente più grande scacciando con la forza i contadini dalle terre sulle quali essi avevano lo stesso, titolo giuridico feudale, e usurpando le loro terre comuni. In Inghilterra in particolare l’impulso immediato a quest’azione fu dato dalla fioritura della manifattura laniera fiamminga e dal corrispondente aumento dei prezzi della lana. Le grandi guerre feudali avevano inghiottito la vecchia nobiltà feudale, e la nuova era figlia del proprio tempo pel quale il denaro era il potere dei poteri. Quindi la sua parola d’ordine fu: trasformare i campi in pascoli da pecore. Lo Harrison, nella sua Description of England. Prefixed to Holinshed’s Chronicles, descrive come l’espropriazione dei piccoli contadini manda in rovina il paese. « What care our great incroachers! » (Che cosa gliene importa ai nostri grandi usurpatori !). Le abitazioni dei contadini e i cottages degli operai agricoli vennero abbattuti con la violenza o abbandonati alla lenta rovina. « Se », dice Harrison, « si vorranno confrontare i vecchi inventari di ogni castello, si troverà che sono scomparse innumerevoli case e innumerevoli piccole proprietà contadine, che la terra nutre molto meno gente, che molte città sono decadute, benché ne fioriscano alcune nuove… Di città e villaggi distrutti per farne pasture per le pecore, e dove rimangono solo ancora le case dei signori, potrei dire parecchio». Le lamentele di quelle vecchie cronache sono sempre esagerate, ma delineano con precisione l’impressione fatta sui con temporanei dalla rivoluzione avvenuta nei rapporti di produzione. Un confronto fra gli scritti del cancelliere Fortescue e quelli di Tommaso Moro ci darà un’idea chiara dell’abisso fra il secolo XV e il secolo XVI. Dall’età dell’oro, come dice giustamente il Thornton, la classe operaia inglese è precipitata senza alcuna transizione in quella del ferro…La proprietà comune — completamente distinta dalla proprietà statale che abbiamo or ora considerato — era una antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combattè, invano, per 150 anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo, benché i grandi fittavoli continuino ad applicare, per giunta, anche i loro piccoli metodi privati indipendenti973, La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni), in altre parole, decreti per mezzo dei quali i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo; sono decreti di espropriazione del popolo. Sir F. M. Eden confuta la sua astuta arringa da avvocato, nella quale cerca di presentare la proprietà comune come proprietà privata dei grandi proprietari fondiari subentrati a quelli feudali, chiedendo egli stesso un «Atto generale del parlamento per la recinzione delle terre comuni », ammettendo dunque che è necessario un colpo di Stilto parlamentare per trasformare la proprietà comune in proprietà privata, e, d’altra parte, chiedendo al potere legislativo un « risarcimento » per i poveri espropriati974 , Mentre agli yeomen indipendenti subentravano tenants-at-will, piccoli fittavoli con disdetta annua, banda servile e dipendente dall’arbitrio dei landlors, s’ingrossarono quelle grandi affittanze che nel secolo XVIII si chiamavano «affittanze di capitale»975 o «affittanze di mercanti»976, e «liberavano » la popolazione rurale facendone proletariato per l’industria; e le aiutò ad ingrossarsi, oltre al furto dei beni dello Stato, proprio in particolare il furto della proprietà comunale condotto sistematicamente…Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subito. La legislazione li trattò come delinquenti «volontari » e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.
In Inghilterra questa legislazione cominciò sotto Enrico VII.
Enrico VIII, 1530: i mendicanti vecchi e incapaci di lavorare ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finchè il sangue scorra dal loro corpo; poi giurare solennemente di tornare al loro luogo di nascita oppure là dove hanno abitato gli ultimi tre anni e « mettersi al lavoro » (to put himself to labour). Che ironia crudele! 27 Enrico VIII, viene ripetuto lo statuto precedente, inasprito però da nuove aggiunte. Quando un vagabondo viene colto sul fatto una seconda volta, la pena della frustata deve essere ripetuta e sarà reciso mezzo orecchio; alla terza ricaduta invece il vagabondo dev’essere considerato criminale indurito e nemico della comunità e giustiziato come tale.
Edoardo VI: uno statuto del suo primo anno di governo, 1547, ordina che se qualcuno rifiuta di lavorare dev’essere aggiudicato come schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone.
Il padrone deve nutrire il suo schiavo a pane e acqua, bevande deboli e scarti di carne a suo arbitrio. Ha il diritto di costringerlo a qualunque lavoro, anche al più ripugnante, con la frusta e con la catena. Se lo schiavo si allontana per 15 giorni, viene condannato alla schiavitù a vita e dev’essere bollato a fuoco sulla fronte o sulla guancia con la lettera S; se fugge per la terza volta, dev’essere giustiziato come traditore dello Stato. Il padrone lo può vendere, lasciare in eredità, affittarlo a terze persone come schiavo, alla stregua di ogni altro
bene mobile o capo di bestiame. Se gli schiavi intraprendono qualcosa contro il padrone, anche in tal caso saranno giustiziati. I giudici di pace hanno il compito di far cercare e perseguire i bricconi, su denuncia. Se si trova che un vagabondo ha oziato per tre giorni, sarà portato al suo luogo di nascita, bollato a fuoco con ferro rovente con il segno V sul petto, e adoprato quivi, in catene, a pulire la strada o ad altri servizi. Se il vagabondo dà un luogo di nascita falso, rimarrà per punizione schiavo a vita di quel luogo, dei suoi abitanti o della sua corporazione, e sarà marchiato con una S. Tutte le persone hanno il diritto di togliere ai vagabondi i loro figlioli e di tenerli come apprendisti, i ragazzi fino ai 24 anni, le ragazze fino ai 20. Se scappano, dovranno essere schiavi, fino a quell’età, dei maestri artigiani che possono incatenarli, frustarli, ecc., ad arbitrio. Ogni padrone può metter al collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo un anello di ferro per poterlo conoscere meglio e per esserne più sicuro991.
L’ultima parte di questo statuto prevede che certi poveri debbano ricevere occupazione presso il luogo o presso gli individui che danno loro da mangiare e da bere e che sono disposti a trovar loro lavoro. Questa specie di schiavi della parrocchia si è conservata in Inghilterra fin al XIX secolo molto inoltrato, col nome di roundsrnen (uomini a disposizione).
Elisabetta, 1572: i mendicanti senza licenza e di più di 14 anni di età debbono essere frustati duramente e bollati a fuoco al lobo dell’orecchio sinistro, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; in caso di recidiva e quando siano al di sopra dei diciotto anni debbono esser.., giustiziati, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; ma alla terza recidiva debbono essere giustiziati come traditori dello Stato, senza grazia. Statuti simili: 18, Elisabetta, c. 13 e 1597221a
Giacomo I. Una persona che va chiedendo in giro elemosina viene dichiarata briccone e vagabondo. I giudici di pace nelle Petty sessions (Tribunali locali.) sono autorizzati a farla frustare in pubblico e a incarcerarla, la prima volta per sei mesi, la seconda per due anni. Durante l’incarceramento sarà frustata quante volte e nella misura che i giudici di pace riterranno giusta… I vagabondi incorreggibili e pericolosi debbono essere bollati a fuoco con una R sulla spalla sinistra e messi ai lavori forzati; se vengono sorpresi ancora a mendicare, debbono essere giustiziati, senza grazia. Queste ordinanze, che hanno fatto legge fino ai primi anni del secolo XVIII, sono state abolite soltanto da 12, Anna, c. 23.
Leggi simili in Francia, dove alla metà del secolo XVII si era stabilito a Parigi un reame dei vagabondi (royaume des truands). Ancora nel primo periodo di Luigi XVI (ordinanza del 13 luglio 1777) ogni uomo di sana costituzione dai sedici ai sessant’anni, se era senza mezzi per vivere e senza esercizio di professione, doveva essere mandato in galera. Analogamente lo statuto di Carlo V dell’ottobre 1537 per i Paesi Bassi, il primo editto degli stati e delle città d’Olanda del 19 marzo 1614, il manifesto delle Province Unite del 25 giugno 1649, ecc.
Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.
Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle « leggi naturali della produzione », cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione Capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per « regolare » il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria.
La classe degli operai salariati, che è sorta nella seconda metà del secolo XIV, formava allora e nel secolo successivo soltanto un elemento costitutivo molto ristretto dalla popolazione, e la sua posizione aveva una forte protezione nella proprietà contadina autonoma nelle campagne e nell’organizzazione corporativa nelle città. Tanto nelle campagne che nelle città padroni e operai erano socialmente vicini. La subordinazione del lavoro al capitale era solo formale, cioè il modo di produzione stesso non aveva ancora carattere specificamente capitalistico. L’elemento variabile del capitale prevaleva fortemente su quello costante. La richiesta di lavoro salariato cresceva dunque rapidamente ad ogni accumulazione del capitale, mentre l’offerta di lavoro salariato seguiva solo lentamente. Una parte notevole del prodotto nazionale, più tardi trasformata in fondo di accumulazione del capitale, allora passava ancora nel fondo di consumo dell’operaio. La legislazione sul lavoro salariato, che fin dalla nascita mira allo sfruttamento dell’operaio e gli è sempre egualmente ostile992 man mano che progredisce, viene inaugurata in Inghilterra dallo Statute of Labourers di Edoardo III 1349. Le corrisponde in Francia l’ordinanza del 1350, promulgata in nome di re Giovanni. Le legislazioni inglese e francese si svolgono parallelamente e sono identiche per il contenuto. Non ritorno sulla parte degli statuti operai che cerca di imporre un prolungamento della giornata lavorativa poichè questo punto è stato già esaminato (capitolo 8., 5).
Lo Statute of Labourers fu promulgato per le insistenti lamentele della Camera dei Comuni. «Prima », dice ingenuamente un tory, « i poveri esigevano un salario così alto da minacciare l’industria e la ricchezza. Ora il salario è così basso da minacciare ancora l’industria e la ricchezza, ma in maniera diversa e forse più pericolosa di prima»993. Venne stabilita una tariffa legale dei salari per la città e per la campagna, per il lavoro a cottimo e per quello a giornata. Gli operai rurali devono impegnarsi per un anno, quelli di Città « a mercato aperto ». Viene proibito, pena la prigione, di pagare un salario più alto di quello statutario, ma è punito più gravemente chi riceve il salario più alto che non chi lo paga. Così, ancora nelle sezioni 18 e 19 dello statuto degli apprendisti di Elisabetta viene punito con dieci giorni di prigione chi paga un salario più alto, ma è punito con ventuno giorni chi l’accetta. Uno statuto del 1360 aggravava le pene e autorizzava addirittura il padrone a estorcere lavoro alla tariffa legale mediante costrizione fisica. Tutte le combinazioni, i contratti, giuramenti ecc. coi quali muratori e falegnami si vinco lavano reciprocamente vengono dichiarati nulli. La coalizione fra operai viene trattata come delitto grave a partire dal secolo XIV fino al 1825, anno dell’abolizione delle leggi contro le coalizioni. Lo spirito dello statuto operaio del 1349 e dei suoi rampolli risplende chiaro nel fatto che viene imposto in nome dello Stato un massimo di salario, ma non, per carità!, un minimo.
Nel secolo XVI la situazione degli operai era, come si sa, molto peggiorata. Il salario in denaro saliva, ma non in proporzione del deprezzamento del denaro e del corrispondente aumento del prezzo delle merci. In realtà dunque il salario calava. Tuttavia le leggi miranti a tenerlo basso perduravano, e perdurava il taglio dell’orecchio e il bollo a fuoco per coloro «che nessuno voleva prendere a servizio ». Con lo statuto degli apprendisti 5, Elisabetta, c. 3, i giudici di pace ebbero il potere di stabilire certi salari e di rnodificarli a seconda delle stagioni e dei prezzi delle merci. Giacomo I estese questo regolamento del lavoro anche ai tessitori, filatori e a tutte le possibili categorie di operai994 ; Giorgio II estese le leggi contro le coalizioni operaie a tutte le manifatture.
Nel periodo manifatturiero propriamente detto il modo di produzione capitalistico era divenuto abbastanza forte da render tanto inattuabile quanto superflua una regolamentazione legale del salario, ma non si volle rinunciare alle armi del vecchio arsenale in caso di necessità.
Ancora 8, Giorgio II, proibiva un salario giornaliero superiore ai 2 scellini 7 pence e mezzo ai garzoni dei sarti di Londra e dintorni, se non nel caso di lutto generale; ancora 13, Giorgio III, c. 68, affidava ai giudici di pace la regolamentazione del salario dei tessitori di seta; ancora nel 1796 ci volevano due giudici dei tribunali superiori per decidere se gli ordini dei giudici di pace sul salario lavorativo fossero validi anche per operai non agricoli; ancora nel 1799 un Atto del parlamento confermava che il salario degli operai delle miniere di Scozia era regolato da uno statuto di Elisabetta e da due Atti scozzesi del 1661 e del 1671. Ma un incidente senza precedenti alla Camera bassa inglese dimostrò quanto la situazione fosse rovesciata. Alla Camera dei Comuni, che da più di 400 anni aveva fabbricato leggi sul massimo che il salario non doveva assolutamente superare, il Whitbread propose nel 1796 un minimo di salario legale per gli operai giornalieri agricoli. Il Pitt si oppose, ma ammise che la « situazione dei poveri era crudele (cruel) ». Finalmente nel 1813 vennero abolite le leggi sulla regolamentazione dei salari. Esse erano un’anomalia ridicola, da quando il capitalista regolava la fabbrica con la sua legislazione privata e faceva integrare con la tassa dei poveri il salario dell’operaio agricolo fino al minimo indispensabile. Le disposizioni degli statuti operai sui contratti fra padroni e operai, sui licenziamenti a termine, ecc., che consentono- la querela per rottura di contratto solo in un tribunale civile se contro il padrone, ma in tribunale penale se contro l’operaio, rimangono ancora in pieno vigore anche oggi.
Le atroci leggi contro le coalizioni sono cadute nel 1825 di fronte all’atteggiamento minaccioso del proletariato. Però caddero solo in parte. Alcuni bei residui dei vecchi statuti sono scomparsi solo nel 1859. E finalmente l’Atto del parlamento del 29 giugno 1871 pretende di eliminare- le ultime tracce di quella legislazione di classe con il riconoscimento legale delle Trades’ Unions. Ma un Atto del parlamento della stessa data (An act to amend the criminal law relating to violence, threats and molestation) ristabiliva di fatto la vecchia situazione in nuova forma. Con questo giuoco di prestigio parlamentare i mezzi dei quali gli operai possono servirsi in uno sciopero o in un lock-out(sciopero dei fabbricanti coalizzati con contemporanea chiusura delle fabbriche) venivano di fatto sottratti al diritto comune e posti sotto una legislazione penale eccezionale, la cui interpretazione spettava ai fabbricanti stessi nella loro qualità di giudici dì pace. La stessa Camera dei Comuni e lo stesso signor Gladstone avevano con la nota onestà presentato due anni prima un disegno di legge per l’abolizione di tutte le leggi penali d’eccezione contro la classe operaia. Ma il disegno non fu fatto arrivare oltre la seconda lettura, e in tal modo la cosa fu trascinata per le lunghe finchè alla fine il « grande partito liberale » trovò, per mezzo di un’alleanza con i tories, il coraggio di volgersi decisamente contro quello stesso proletariato che l’aveva condotto al potere. Non soddisfatto di questo tradimento, il «grande partito liberale » permise ai giudici inglesi, sempre compiacenti al servizio delle classi dominanti, di riesumare le leggi perente sulle «cospirazioni» e di applicarle alle coalizioni operaie. Si vede dunque che il parlamento inglese ha rinunciato solo di controvoglia e sotto la pressione delle masse alle leggi contro gli scioperi e le Trades’ Unions, dopo aver tenuto esso stesso, per cinque secoli, con egoismo spudorato, la posizione di una Trade Union permanente dei capitalisti contro gli operai.
Fin dall’inizio della tempesta rivoluzionaria la borghesia francese osò sottrarre agli operai il diritto d’associazione che si erano appena conquistato. Con decreto del 14 giugno 1791 la borghesia dichiarò che ogni coalizione operaia era un « attentato contro la libertà e la dichiarazione dei diritti dell’uomo », punibile con 500 livres di multa e con la privazione dei diritti civili attivi per un anno995, Questa legge che costringe, con una misura di polizia statale, entro limiti comodi al capitale la lotta di concorrenza fra capitale e lavoro, è sopravvissuta a rivoluzioni e a cambiamenti dinastici. Perfino il Terrore la lasciò intatta. Solo di recente è stata cancellata dal codice penale Non c’e niente di più caratteristico del pretesto di questo colpo di Stato borghese. Dice il relatore, Le Chapelier: « Benché sia desiderabile che il salario diventi un po’ più elevato di quello che è in questo momento, affinchè colui che lo riceve sia fuori di quella dipendenza assoluta, causata dalla privazione dei mezzi di sussistenza necessari, che è quasi la dipendenza della schiavitù» gli operai non debbono tuttavia accordarsi sui loro interessi, non debbono agire in comune moderando cosi quella loro « assoluta dipendenza che e quasi schiavitù », perchè con ciò essi ledono appunto « la libertà dei loro c i – d e v a n t m a î t r e s, degli attuali imprenditori » (la libertà di mantenere gli operai in schiavitù!), e perché una coalizione contro il dispotismo degli antichi padroni delle corporazioni — indovinate — e un ristabilimento delle corporazioni abolite dalla costituzione francese!