Chiudere un’azienda (di L. Polastri)

SudItaliabordello

 

Personalmente ho assistito, mio malgrado, alla chiusura di due stabilimenti produttivi di grosse dimensioni in quella zona che in tempi non molto remoti si riteneva la “locomotiva d’Italia”.  Inizio con il dire che quando un’impresa chiude alla guida c’era un imprenditore che o aveva pianificato da tempo la fuga o ha cercato di resistere alla crisi che stava sopraggiungendo investendo anche i propri risparmi. Quest’ultimo caso è più facile trovarlo nelle aziende di piccole dimensioni dove la famiglia dell’imprenditore è conosciuta in paese, ha una “faccia” da salvare, incontra spesso i propri dipendenti la domenica mattina e via dicendo. Personalmente ho visto invece la chiusura di stabilimenti con una proprietà, italiana, ma non particolarmente coinvolta nei fatti locali. Aggiungo inoltre che un’azienda chiude per mancanza di strategia di mercato, per miopia di visione, per consulenti che vogliono farsi parcelle cospicue dando consigli spesso rischiosi e comunque sulla pelle dei lavoratori dipendenti. Attualmente la parola d’ordine è fuggire dall’Italia, un paese che è già di fatto in un default “controllato”, in una situazione di così ampia deindustrializzazione tale da relegarlo alle periferie di qualunque distretto economico.

La prima cosa che fa l’imprenditore è arruffianarsi i sindacalisti interni, le cosiddette RSU. Se prima il rappresentante della CGIL era il lavativo di turno, quello che contava a fine anno più giorni di malattia e permessi sindacali rispetto al monte ore lavorato, d’un tratto diventa persona ascoltata dal vertice. Si abolisce il tono duro che sempre si era tenuto (a ben diritto) e si tollerano invece i comportamenti più assurdi. L’ordine di scuderia è non litigare, lasciar perdere, tollerare, capire e via di questo passo. Una parola che inizia a farsi largo è “coinvolgimento”. Se prima la proprietà era sicura di sé, prepotente, ora vuole informare i sindacati, averli dalla propria parte, mitigare comportamenti lavativi. Le altre due confederazioni CISL e UIL, devo dire,  sono sempre state in (s)vendita, persone di uno squallore unico su cui non c’è null’altro da aggiungere.

Nelle riunioni aziendali si iniziano a snocciolare i numeri della crisi, l’impossibilità di continuare, il mercato è globale, non perdona nulla. Stranamente si fanno uscire dati del bilancio che prima erano riservati a comprovare la difficoltà del momento. Tutti questi atteggiamenti sono prodromici per il giorno in cui l’annuncio di chiusura dell’attività diventa fattivo. E così avviene. Da questo momento in poi si apre il sipario del teatro, della sceneggiata sindacale.

Dico subito che ai sindacalisti dei lavoratori non gliene frega un bel nulla. Il primo passo è la campagna tesseramento. Chi non si tessera non ha accesso alle informazioni, spesso viene boicottato, si bisbigliano le date delle riunioni tra i lavoratori, l’omertà diventa palpabile; si paventa che senza quella tessera sindacale non si avrà accesso neppure agli ammortizzatori sociali, che le pratiche burocratiche devono passare esclusivamente tramite CAF sindacale, pena la non accoglienza. Il terrore è sparso. I sindacalisti, che ambiscono sempre ad una carriera politica e bazzicano spesso a Roma, portano nelle loro sedi un incremento del tesseramento. La loro rielezione è spesso fatta sulle spalle dei lavoratori che resteranno disoccupati. I lavoratori della CGIL iniziano con i soliti presidi, le solite bandiere rosse, i soliti proclami, le richieste penose di convocazione nei consigli comunali, insomma si scalda il clima prima della svendita collettiva.

E di svendita dei lavoratori si può ben parlare nel momento in cui il vertice aziendale di fatto consegna la gestione della chiusura ai sindacati. Nel migliore dei casi, ossia quando  l’azienda non fallisce, la trattativa più delicata riguarda ” l’incentivo all’esodo dei lavoratori”. In altre parole l’imprenditore dice ai sindacalisti: “ditemi quanto volete per farmi chiudere senza casini”. E’ l’apoteosi del potere sindacale. Da quel momento in poi si rompono i sigilli dell’Apocalisse. Ho assistito a trattative menzognere in cui venivano collettivizzati i periodi di preavviso, messi in un fondo comune ignorando qualsiasi disposizione e tutela legislativa. Nelle riunioni però si diceva che grazie alla lotta dei lavoratori, grazie ai picchetti, l’imprenditore aveva calato le braghe. Bugie, l’imprenditore era già fuggito con la cassa lasciando la trattativa ad uno stuolo di avvocati. Sta di fatto che moltissime famiglie sono messe in seria difficoltà, dato che questo stato italiano delinquenziale, governato da abusivi, da corrotti, non eroga immediatamente la cassa integrazione. Bisogna aspettare spesso mesi (si deve aspettare l’approvazione di un decreto ad hoc per ogni situazione aziendale). E i mesi sono lunghi per chi ha famiglia. Non parliamo poi della messa in mobilità, altra trafila su cui i sindacati fanno la cresta sui lavoratori. Non tutti infatti sanno o non hanno le competenze per inoltrare la domanda telematicamente. Altri soldi ai sindacati.

L’azienda chiude, c’è il rompete le righe. Moltissime professionalità andranno perse, si perdono i contatti con persone con cui si era lavorato per ore ed ore al giorno. Si capisce che in fondo non c’era nessuna amicizia, nessun legame. Le ore passate insieme non erano un collante ma una dolorosa sopportazione reciproca. La gerarchia uccide. Alcuni accusano gli altri, emergono vecchi rancori spesso sopiti.

Non dimenticherò mai quello che mi disse uno di questi imprenditori: “guardi, i sindacalisti si comprano con una cena di pesce, quanto ai lavoratori sono solo carne da macello”, su questo aveva ragione.