Come va il mondo o quasi

mondo

 

Il Capitale è un rapporto sociale. Questo significa che esso non è nato improvvisamente nelle mente di alcuni uomini, talmente bravi da mettere in pratica le loro idee fino ad edificare una impalcatura collettiva abbastanza solida e duratura. Esso non è il frutto di una o più volontà consapevoli, né un riuscito esperimento di ingegneria sociale partorito da cervelli abili. Il capitalismo (come altri sistemi precedenti e successivi) “è il risultato d’uno svolgimento storico precedente, il prodotto di molti rivolgimenti economici [e sociali], del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale.” (Marx) Questo implica che nessuno può svegliarsi alla mattina con il pensiero di potere sostituire determinati rapporti con altri, secondo lui più adatti, se questi non esistono, almeno, in fieri nella vecchia società, soprattutto, se non hanno raggiunto quel punto di maturazione che li porta ad essere più dinamici ed efficaci di quelli in essere. Quando una società sostituisce un’altra? Quando, in effetti, viene raggiunto un punto in cui le forze produttive e i rapporti di produzione diventano incompatibili col loro involucro storico, economico, sociale per cui questo è destinato a saltare. “Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione”.
Così sarebbe giunto il comunismo per Marx, non come mera aspirazione spirituale, ma quale fatto compiuto nelle viscere del capitale. Sarebbe stato toccato il punto in cui, la nuova forza produttiva della classe collettiva cooperativa (tecnici + esecutori), evolutasi nell’ambito di originali rapporti di collaborazione, avrebbe rotto i vecchi schemi ri-produttivi per sprigionare tutta la sua energia. Dopo un periodo transitorio di assestamento, il passaggio dal socialismo al comunismo, il risultato sarebbe stata una società più opulenta di quella passata, dove l’abbondanza di beni avrebbe consentito a ciascuno di vivere secondo i suoi bisogni. In questo processo oggettivo non c’è nulla di spontaneo in senso individuale, c’è una necessita storico-sociale. E’ il meccanismo automatico, inclusivo dei soggetti e delle relazioni tra questi, ad un dato livello del loro sviluppo, che porta al comunismo. L’uscita dal capitalismo e l’ingresso nella (nuova) storia sarebbe stato un ulteriore passo dell’umanità dall’affrancamento dal regno dei bisogni, in quanto se ogni bisogno è soddisfatto, lo stesso bisogno viene a mancare. Il pauperismo e le difficoltà dell’esistenza sarebbero finiti alle spalle degli uomini. Ovviamente, l’ipotesi marxiana si è dimostrata fallace nella sua capacità predittiva e se pur un cambiamento si è verificato (perché si è comunque verificata una metamorfosi) non è certo stata nella direzione del comunismo. In ogni caso bisogna dire che lo sviluppo non si è fermato (non parliamo di crescita perché questo termine ha una connotazione troppo ideologica) e che sono stati raggiunti nuovi e inimmaginabili obiettivi i quali hanno accresciuto il benessere della specie. Se si nega ciò si è semplicemente bugiardi. Ieri leggevo un interessante estratto pubblicato sul foglio di Deirdre Nansen McCloskey con Art Carden. In questo intervento c’è certamente molto ottimismo ideologico, a tratti odioso, (infatti, si parla di crescita mentre si dovrebbe valutare lo sviluppo, quest’ultimo è un concetto non solo economico ma soprattutto sociale, inoltre, gli autori del testo sono convinti che il ‘grande arricchimento’ sia un merito del Patto Borghese, il che evidenzia il loro attardamento analitico sulla natura del mondo odierno) ma ci sono anche fatti inequivocabili. Ci sono dei cambiamenti possibili e persino urgenti nello scenario aperto dal nuovo secolo. Ma non accadrà nulla che non sia già innestato nell’ordine delle cose. Un processo rivoluzionario è quel movimento o valutazione che meglio di altri approcci tiene conto della realtà per quello che essa è. Non c’è nulla di più realistico di una rivoluzione quando quest’ultima è intrinseca alla stessa realtà. Bisogna essere in grado di trovarne i presupposti concreti senza inventarseli. Chi sogna la rivoluzione non fa la rivoluzione, fa solo danni. Chi sogna il comunismo non fa i conti con la realtà ma pretende che questa si adegui alle sue illusioni. Pertanto fallirà. Ci sono invece molte rivoluzioni che si possono fare in accordo con la situazione esistente.

Riporto alcuni estratti significativi di ciò che ho letto, che servano almeno a tacitare quei fessi che credono ancora di fare proseliti parlando di sfruttamento e di povertà crescenti. Sono mie estrapolazioni di un discorso complessivo che condivido poco ma non posso mettere la testa sotto alla sabbia per fingere che certe condizioni non siano state raggiunte, come fanno i critici “acritici” del sistema.

“Se il Grande Arricchimento avesse reso solo i ricchi più ricchi, lasciando i poveri così com’erano, non ci potremmo certo dire soddisfatti, anzi, ci uniremmo ai nostri vecchi amici socialisti sulle barricate. Impiccate i banchieri! Si dà però il caso che i poveri siano stati i veri vincitori, come non ci stanchiamo di dire (quando vi deciderete ad ascoltarci?!). La proverbiale frase “Il ricco di
venta più ricco e il povero diventa più povero” poteva aver senso nel mondo a somma zero di prima del Grande Arricchimento. Oggi è una stupidaggine, per quanto sia divertente dirla con un sorrisetto saputello. Nel suo classico del 1942 Capitalismo, socialismo e democrazia, Schum peter ricostruiva quel che chiamava “il successo del capitalismo”: “La regina Elisabetta possedeva calze di seta. Il successo del capitalismo non sta nel fornire un maggior numero di calze di seta alle regine, ma nel metterle alla portata di giovani operaie industriali in cambio di uno sforzo di lavoro continuamente decrescente”. Dal 1942 a oggi, il reddito medio negli Stati Uniti è quadruplicato.
Significa che le calze di seta sono quattro volte più alla portata delle operaie industriali.”

“I rischi ambientali, per esempio, preoccupano perfino il centro dello spettro politico. Un tempo si trattava di una preoccupazione da conservatori, persone che volevano che le foreste restassero riserve di caccia per i signorotti locali. Si schieravano contro la volgarità di chi tagliava gli alberi e bonificava le paludi per guadagnare costruendo case e fattorie. Oggi si tratta invece di una
preoccupazione prevalentemente di sinistra. …Immaginiamo che il cambiamento climatico (che senza dubbio è causato dalle emissioni di carbonio delle vecchie tecnologie basate sui combustibili fossili) a partire da oggi riduca il reddito mondiale pro capite di uno scioccante 20 per cento ogni secolo. Sarebbe un grosso problema, anche se non produrrebbe uno di quegli scenari apocalittici ipotizzati dai non-economisti, che non danno fiducia alla capacità degli umani di adattarsi in modo creativo e trovare sistemi alternativi… Il cambiamento climatico è reale e bisogna affrontarlo, ma come potete vedere, non è, come molti affermano, una minaccia “esistenziale”. Ci possiamo aspettare che venga combattuto da ingegneri e imprenditori validi, in grado di implementare altrettanto valide tecnologie, come la cattura del carbonio, la coltivazione di “carne”vegetale e
un maggior impiego dell’energia nucleare (nel 2014, l’India ha comprato dieci reattori nucleari dalla Russia). Nel frattempo, anche senza tutto questo, il mondo se la cava benone”.

“…Per esempio, si suol dire: “Niente può crescere per sempre”. Ops. Il limite effettivo è però lontanissimo. Se si parla di aumento della popolazione, la capacità della Terra, almeno a giudicare
dai posti con maggior densità di abitanti come l’Olanda o Giava, è di gran lunga superiore ai dieci o undici miliardi ai quali presto arriveremo, per poi scendere nuovamente a causa dell’aumento del reddito pro capite. Si suol dire anche: “Le risorse sono limitate”. Ops. Ma che cosa sia una
risorsa, come ci ha dimostrato l’economista Julian Simon negli anni Novanta del Novecento, cambia costantemente a seconda dell’ingegno umano. (…) Molti secoli fa l’Europa riscoprì il valore di quelle rocce nere chiamate “carbone”; a Londra cominciarono a usarle per riscaldare le case e fabbricare il vetro, anche se in Cina le conoscevano da duemila anni. L’acqua sotterranea, inaccessibile per le vecchie tecniche di scavo, è diventata d’improvviso estraibile. Ce n’è molta, anche se in quantità limitate, ma l’ingegno umano sta già trovando nuovi sistemi per produrne altra. Lo stiamo vedendo in alcuni posti aridi e sulle navi da crociera; ci sono sistemi per desalinizzare l’acqua marina tramite l’osmosi inversa a un costo molto contenuto e nell’Australia Occidentale lo si fa con l’energia solare ed eolica.
Per superare i limiti ambientali bisogna tenere in considerazione la realtà economica e storica, e affidarsi all’ingegno di chi ha reso possibile il Grande Arricchimento. Di sicuro non possono essere di aiuto proposte antieconomiche co me “mangiare a chilometro zero”. Come dice un nostro ami
co: “E poi cos’altro? I farmaci a chilometro zero? Le idee a chilometro zero? La storia economica a chilometro zero?”. Tra gli ambientalisti più sciocchi c’è anche chi si è battuto contro le banane modificate geneticamente per contenere più vitamina A, in grado di salvare ogni anno le vite di 700.000 bambini e prevenire 300.000 casi di cecità…Fare ammalare gravemente le persone (o negare ai bambini cibo geneticamente modificato in grado di salvarli) non è etico e
non rappresenta un progresso. E non è nemmeno un obiettivo delle “corporation”. Nike e Toyota, a differenza di certi governi che si divertono a soggiogare fisicamente i cittadini, non vogliono che i loro dipendenti o clienti si ammalino o muoiano. Perché mai dovrebbero? Un cliente morto non
compra niente. Negli anni Ottanta del Novecento, per esempio, i Paesi ricchi decisero di affrontare seriamente la minaccia che il liquido refrigerante dei condizionatori e la lacca per capelli (la lacca!) rappresentavano per lo strato di ozono.I buchi nell’ozono di entrambi i poli sono stati in questo modo notevolmente ridotti. Prima che alla fine del Diciannovesimo secolo venissero
sviluppati sistemi efficaci per smaltire i rifiuti, i corsi d’acqua erano fogne a cielo aperto, mentre oggi nei Paesi ricchi sono stati generalmente ripuliti. I livelli di particolato derivato dall’uso del carbone per il riscaldamento domestico nelle città americane negli anni Trenta e Quaranta –
all’epoca, come abbiamo visto, il reddito medio americano era uguale all’incirca a quello del Brasile di oggi – erano paragonabili a quelli attuali dei Paesi più poveri; alla fine del Ventesimo secolo, erano calati di sette ottavi.
McCloskey ricorda bene quanta fuliggine ci fosse ogni sera sui davanzali delle finestre di casa sua a Boston nel 1948, anche se la sua mamma li puliva ogni mattina. Nel 1912-’13, Chicago era povera e pertanto fumosa, immersa nel particolato, con una concentrazione superiore a quella delle cinquanta città cinesi più povere tra il 1980 e il 1993. Indossare il cappello non serviva solo a mantenersi caldi. E’ per questo che nell’emisfero nord la parte povera delle città è generalmente sempre quella a est, dove il vento fa depositare la fuliggine. In Gran Bretagna nel 1954 venne sancito il divieto di usare il carbone in città, imposto con maggior rigore nel 1968; le Royal
Courts of Justice, che si trovano in una parte di Londra oggi ricca, sono state rimesse a nuovo per ripristinare l’originale facciata bianca. La Danimarca, piccola ma ricca, spende tantissimo per
evitare di usare combustibili inquinanti e ha un ruolo chiave nel mercato mon
diale dell’energia eolica. Come ha scritto Steve Chapman, editorialista liberale del Chicago Tribune: “Dal 1980, l’inquinamento da monossido di carbonio in America è diminuito dell’83 per cento, quello da piombo del 91 e quello da anidride solforosa del 78. La produzione economica pro capite, corretta secondo l’inflazione, è invece aumentata del 77 per cento. Siamo diventati più sani e più verdi mentre diventavamo più ricchi”. Se vi sta a cuore l’am biente, dunque, lasciate che le persone diventino ricche con prudenza e discrezione. I nuovi ricchi provvederanno poi a far del bene all’ambiente.
E l’inquinamento nei Paesi poveri? Comprensibilmente, la gente comune, in Cina e in India, apprezza molto la crescita a tassi tra il 7 e il 12 per cento l’anno, che porterà il loro reddito a quadruplicarsi nel giro di una generazione. Chi un tempo era povero, come i danesi e gli inglesi, diventando più ricco ha cominciato a preoccuparsi di più per l’ambiente.
Certo, a volte l’ha fatto irrazionalmente, per esempio bloccando le centrali nucleari e portando lo sporco vecchio carbone a divenire la fonte d’energia in maggior crescita a livello mondiale. La Cina sta progredendo e pertanto, pur continuando a essere molto povera, al suo interno il movimento
ambientalista è molto vitale. Si scaglia contro il carbone e non contro le centrali nucleari, e lo fa tramite rivolte di strada e non con sistemi democratici. Nel gennaio del 2014, la risposta del governo cinese, volta anche a fare il bene del Paese, è stata costringere quindicimila aziende a riferire pubblicamente in tempo reale i loro livelli di inquinamento dell’aria e delle acque. Se davvero ciò dovesse accadere (fossi in voi, non starei con il fiato sospeso, a meno che non
visitiate Pechino d’inverno), gli standard cinesi per i il controllo dell’inquinamento supererebbero quelli statunitensi…
L’industrializzazione della Cina è simile a quella dell’Inghilterra negli anni Settanta dell’Ottocento o degli USA negli anni Novanta dello stesso secolo, quando le fumate sulfuree che si alzavano nel cielo di Birmingham, nel Warwickshire, o di Birmingham, in Alabama, non venivano considerate un motivo per ribellarsi, ma per festeggiare. Negli anni Quaranta del Novecento, quando i nonni di McCloskey (nati durante l’ultimo decennio dell’Ottocento) guidavano verso Chicago a sud del Lago Michigan, guardavano compiaciuti il fumo delle fabbriche US Steel di Gary, nell’Indiana. Era un grosso passo avanti rispetto alla chiusura delle officine di dieci anni prima.
Anche le riserve di petrolio sembrano non essere tanto limitate, come ci dimostrano i fallimenti delle previsioni catastrofiste degli ultimi sessant’anni. Gli scienziati ambientali che le hanno fatte sembrano non badare a tutte le prove che le sconfessano. Dobbiamo ancora raggiungere il “picco
della produzione petrolifera” a livello mondiale, anche dopo decenni di convinte previsioni di naturalisti digiuni di economia. Il paleontologo Niles Eldredge, per esempio, nel
1995 dava ancora retta a un geologo della Columbia University che trent’anni prima, “con semplici misurazioni del volume dei grandi bacini sedimentari”, aveva predetto che il mondo avrebbe finito il petrolio estraibile a metà anni Novanta. Semplici misurazioni, come no. In verità, dopo gli an
ni Sessanta le riserve mondiali verificate sono aumentate: un miracolo, se non si capisce che “verificare” è un’attività economica. […]
Il trionfo della retorica contro il nucleare ha peggiorato il riscaldamento globale. In Germania, i verdi preferiscono sostenere il letale carbone a scapito di una fonte sicura come il nucleare. Questa retorica può essere smontata (come hanno fatto alcune persone sagge) rendendosi conto che perfino la distruzione dei reattori di Chernobyl del 1986ha causato relativamente pochi morti. Si è trattato di un evento unico che ha causato cinquantasei morti istantanee e ha accorciato poche migliaia di vite. Un risultato drammatico, ma comunque di due o tre ordini di grandezza inferiore alle morti causate dal carbone nella stessa regione ogni anno. Il disastro della centrale nucleare di Fukushima, costruita nel posto sbagliato e distrutta nel 2011 dallo tsunami che ha colpito in Giappone, ha provocato ancor meno morti, e il solo grande problema nucleare verificatosi negli Stati Uniti, quello di Three Mile Island, nemmeno una vittima (a meno che non vogliate credere alle teorie complottiste della sinistra).
Secondo gli economisti che si occupano di studiare la graduale fuoriuscita dal nucleare intrapresa dalla Germania sulla scia del post-Fukushima, “il costo sociale del passaggio dal nucleare al carbone è di circa 12 miliardi di dollari l’anno”, di gran lunga superiore, sostengono, “ai costi associati al rischio di un incidente nucleare e alla gestione delle scorie”.
Circa il 70 per cento dei costi deriva dalla maggiore mortalità causata dall’inquinamento dovuto ai combustibili fossili. Tornare al nucleare è comunque possibile, magari a una sua versione migliorata; nel caso si preferisca il carbone, non si vogliano sentire ragioni sulla sicurezza del nucleare e si tema ancora il “grande disastro”, anche se gli ingegneri nucleari francesi hanno risolto il problema, allora si può aspettare l’arrivo del carbone pulito, al quale sta lavorando
senza sosta la Southern Illinois University.
L’ingegneria del presente è diretta in ogni caso verso l’ener – gia pulita. In Francia, dove l’elettricità deriva all’80 per cento da centrali nucleari e ha il prezzo più basso d’Europa, le emissioni di carbonio sono un quinto di quelle della verde Germania, tanto innamorata del carbone. Qualunque cosa pensiate delle centrali nucleari, in base a quale principio, se dietro di voi non vedete altro che progresso, dovreste aspettarvi nient’altro che disastri?