Conflitto, supremazia ed economia. Da Von Clausewitz a Luttwak

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riceviamo e pubblichiamo
di Leonard Henry Spencer
Apparentemente, quantomeno per come è andata la storia nell’ultimo ottantennio, le democrazie non si fanno reciprocamente la guerra. Nulla però impedisce loro di affrontarsi durissimamente sul piano economico. In modalità in cui il piano geopolitico, quello strategico, e quello geoeconomico s’intersecano inesorabilmente.
La guerra economica – fors’anche più crudele e subdola di quella guerreggiata (sicuramente più celata agli occhi della massa dall’occhio bovino) – non è mai stata virulente come in quest’ultimo paio di decenni. Manifestandosi in pieno corso di progressivo sviluppo1, al punto che il suo continuo intensificarsi non sembrerebbe arrestarsi. Non a caso, a tal riguardo, si pensi ad esempio alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Germania2, ed anche a quella più famosa, in quanto avente avuto una maggiore eco nei mass media, tra Usa e Cina3.
Da un lato, Clausewitz diceva che «la guerra è dunque un atto di violenza per costringere l’avversario alla nostra volontà4». Dall’altro, Marx ci ha abituato all’idea che il conflitto può delinearsi anche sul piano economico e sociale.
Guerre “miste”, presentanti violenza militare ed economica assieme, se ne sono viste a iosa in Africa e America Latina, soprattutto nella seconda metà del XX secolo. Un dato che, rimarca in sostegno quanto sopra osservato; seppure – ai fini del ragionamento – non venga qui approfondito.
In Italia, la guerra senza uso diretto e violento di forze militari, si è imparato a conoscerla fino ad abituarcisi: la Guerra Fredda – lì profondamente vissuta – ne è stata un esempio eclatante. Seppure vi siano anche stati certi conflitti caldi a tale competizione collegati, questi

si sono manifestati solamente in Asia ed in Africa – in quello che all’epoca era definito il cosiddetto Terzo Mondo – mentre il Primo Mondo, seppure non esente da terrorismo, torbidi, e tensioni, ne venne quantomeno risparmiato.
A tutto ciò va anche aggiunto come non siano solo gli stati ed essere protagonisti dei conflitti, ma anche gruppi etnici, organizzazioni criminali (si pensi alle cosiddette “guerre di mafia”), partiti ed ideologie politiche (vedasi la “guerra ideologica”), organizzazioni/strutture religiose, etc., etc. Nonché, va necessariamente rimarcato, come tutti questi tipi di organizzazioni sociali elencate possano poi essere articolazioni e strumenti del conflitto tra diversi poli di potere nella competizione strategica per la supremazia fra diverse potenze. Come se fossero null’altro che una variante contemporanea di quel che un po’ di secoli fa si poteva vedere laddove l’Impero Britannico e l’Impero Francese si confrontavano per la supremazia: in Nord America o nel subcontinente Indiano. Orde di nativi evocate a latere delle proprie forze ufficiali (o delle proprie compagnie economiche militarizzate), seppur mai integrate all’interno dell’estensione ramificata del proprio sistema statuario politico-esattivo-militare, si trovavano a combattere su entrambi lati. Mai parte dello stato, ma comunque sempre strumenti vivi, ed utili, ricadenti strutturalmente sotto il manto d’una superpotenza, ed utilizzati ai fini della competizione strategica per il raggiungimento della propria supremazia.
Qui in Occidente, dalla fine della Guerra Fredda, stiamo scoprendo – anche a livello di pubblica opinione – come parte delle armate deputate a fare la guerra in questo mondo iper- competitivo siano anche le imprese. E come molte di quest’ultime agenti specialmente in tale ruolo siano nient’altro che le multinazionali. Articolazioni transnazionali di capitali: ma comunque sempre strategicamente connesse alla potenza di cui sono espressione. I capitali divengono quindi cannoni, le filiali si dispiegano come se fossero dei “Fort Apache”, e, dulcis in fundo, mi venga concessa la metafora, i fondi sovrani ne sono i guerriglieri.
Non a caso, già Clausewitz, nel creare il suo abbozzo di scienza della guerra, avverte che, dovendo far riferimento ad una scienza similare cui rifarsi, non si può che far ricorso al commercio internazionale, che già all’epoca non si faceva scrupoli:

Diciamo dunque che la guerra non appartiene all’ambito delle arti o delle scienze ma all’ambito della vita sociale. È un conflitto di grandi interessi che si risolve nel sangue – e soltanto in questo si differenzia dagli altri. Meglio che con qualsiasi arte la guerra potrebbe essere paragonata al commercio, che pure è un conflitto di interessi e di attività umane. Che da parte sua può essere vista di nuovo come una specie di commercio di dimensioni più grandi. Oltre a ciò la politica è il grembo in cui si sviluppa la guerra; in essa si trovano abbozzati in modo embrionale i lineamenti della guerra come le proprietà delle creature viventi nel loro embrione5.
Al fine di comprendere meglio irrimediabile interconnessione tra proiezione economica ed impero si prendano ad esempio le cosiddette Guerre dell’Oppio del XIX secolo. Rispettivamente, la I Guerra dell’Oppio, del 1839 – 1842, vedente l’Inghilterra, a capo del suo transcontinentale Impero Britannico, contro la Cina del decadente Impero Qing. Come anche la II Guerra dell’Oppio, del 1856 – 1860, vedente la Francia, alla testa del suo impero coloniale, e l’Inghilterra, a capo del proprio, coalizzate sempre contro il medesimo, decrepito e stantio Impero Qing in Cina. Conflitti vedenti, alfine, la vittoria più che totale delle potenze occidentali sul gigante asiatico.
Il Celeste Impero, sconfitto in entrambe le guerre, fu costretto a tollerare il commercio dell’oppio ed a firmare con i britannici i trattati di Nanchino e di Tientsin, che prevedevano l’apertura di nuovi porti al commercio e la cessione per 99 anni dell’isola di Hong Kong al Regno Unito. Dunque, prendendo questi esempi, il risvolto commerciale ed economico della guerra, come l’irrimediabile connessione d’una potenza e delle sue articolazioni economiche, appaiono chiaramente in modo diretto. Dunque, si mostrano lucidamente e distintamente le connessioni tra le estensioni transnazionali di capitali e gli imperi di cui sono espressione; ed anche, all’occorrenza, strumento (adoperabile strategicamente).
Per quanto riguardi la Cina – al fine di concludere con l’esemplificazione sopra avanzata mediante l’ausilio di cotali eventi storici – si può ricordare come a valle di tali conflitti ebbe inizio l’era dell’imperialismo europeo in Cina. Numerose altre potenze europee seguirono l’esempio aperto da Londra e Parigi, firmando con Pechino vari trattati commerciali a sé favorevoli: dandosi – sotto la supervisione ed i limiti posti solamente da inglesi e francesi – alla razzia della nazione sinica. Non a caso, alcuni storici, soprattutto cinesi, considerano le

cosiddette Guerre dell’Oppio come l’inizio del cosiddetto Secolo dell’Umiliazione (che vedrà il suo tramonto solamente al seguito della vittoria delle forze di Mao nella Guerra Civile Cinese, avvenuta nel 1949).
Perciò, il tema dell’interconnessione senza soluzione di continuità tra le estensioni economiche transcontinentali ed il polo di potere imperiale di cui sono strumenti ed elongazioni, è stato a fondo esplorato e studiato, fin dal periodo 1990–1993, dallo stratega statunitense Edward Luttwak. In special modo, si può vedere la manifestazione dell’acutezza del suo genio ragionante su questi ambiti, soprattutto, nelle tre seguenti pubblicazioni (rispettivamente due articoli ed una monografia):
• Luttwak, Edward Nicolae, From Geopolitics to Geo-Economics: Logic of Conflict, Grammar of Commerce, in The National Interest, Washington D.C., U.S., National Affair Inc., No. 20, 1990, pp. 17–23;
• Luttwak, Edward Nicolae, The Coming Global War for Economic Power, in The International Economy (magazine), Washington D.C., U.S., The International Economy Publications Inc., Issue: Fall (September – October) 1993;
• Luttwak, Edward Nicolae, Endangered American Dream: How to Stop the United States from Becoming a Third-World Country and How to Win the Geo-Economic Struggle for Industrial Supremacy, New York, U.S., Simon & Schuster, 14 October 1993;
Difatti, prendendo – tra questi testi – il secondo dei due articoli per fini esemplificatori, egli dimostrava di comprendere in modo chiaro e distinto, aspetto evidente fin dal titolo, che cosa sia lo stato naturale della competizione tra diversi poli strategici di potere: The Coming Global War for Economic Power. Traducibile in italiano come: “la sopraggiungente guerra globale per il potere economico” (potere qui inteso evidentemente nell’accezione di supremazia e superiorità).

Rispetto a tali testi è anche doveroso notare il contesto, cioè le realtà storica e geopolitica in cui egli elabora su tal tema. Se il primo articolo è del 1990, il secondo è del 1993; così come di quest’ultimo anno è anche la sovramenzionata monografia. Dunque, facendo attenzione, si può ben comprendere la contemporaneità della stesura e delle pubblicazioni agli anni cruciali che corrisposero alla conclusione della Guerra Fredda. Il 1993, difatti, è di due anni successivo alla fine dell’Urss, avvenuta nel 1991, e di appena quattro anni dopo al tramonto del Patto di Varsavia, avvenuto nel 1989. Nonché, si badi bene, il primo articolo è susseguente d’un sol anno a tale data, essendo del 1990. Alfine, simbolicamente, sempre il 1993, è anche lo stesso anno del massacro di Mosca, avvenuto manu militari ed ordinato dalla junta di Yelt’cin, contro gli occupanti della Casa dei Soviet; politicamente restii al cambiamento all’epoca in atto in Russia.
Luttwak, in tal merito, dimostra di non essere stato in possesso di alcuna lente ideologica deleteria. Ma da prova d’essersi rivelato acuto e capace nel comprendere la realtà storica nella sua dimensione più pregnante. Egli, razionalmente, supera la logica ideologica del periodo del “campismo” – manifestatosi tanto ad Occidente che nell’Est – andatosi sempre più ad instillare a partire dalla metà degli anni ‘60: vedente il Primo Mondo come liberal- liberista dedito al laissez-faire assoluto, ed il Secondo Mondo, invece, come dirigista e statalista economico in modo pressoché totale. Egli rigetta tale visione, quasi macchiettistica, condivisa purtroppo anche da troppi intellettuali d’ogni fazione politica, come anche da economisti storici, sociologi, politologi, filosofi (per quanto l’“iperuranica” astrattezza dei voli pindarici di quest’ultimi possa avere qualcosa di serio da dire in merito), e conseguentemente fatta propria dalle propagande di cui le masse, per qualche decennio, finirono completamente imbevute (quantomeno fino al termine della Guerra Fredda tra il 1989 ed il 1991).
Invece, tale pensatore statunitense, non perde mai di vista la strutturalità più cruda e tagliente della realtà, ed il riflesso strategico del potere, di cui anche l’economia, nei suoi differenti modi di declinarsi, non è che un’estensione – come se fosse un modo ed uno strumento – d’un determinato sistema sociopolitico inteso quale potenza. L’economia dunque intesa a tratti riflesso, a tratti metodo, ed a tratti sostegno, delle proprie mosse e delle

proprie strategie a livello strutturale: nella continua ed inarrestabile competizione tra diversi attori di potenza.
Ergo, la Guerra Fredda si è conclusa non con la supposta “fine della storia”, vagheggiata da pensatori come Fukuyama; e dai suoi accoliti sbiaditi di minor caratura. Ma è terminata con una resa condizionata, e dunque concordata (si pensi in merito allo scempio ordinato dagli alti apparati di Mosca ai restii alla capitolazione all’interno del Patto di Varsavia, come successe ad esempio in Romania) – e non incondizionata, e con vera e propria conquista territoriale, come fu invece il 1945 per Germania e Giappone – di una superpotenza, qual era in questo caso l’Unione Sovietica.
Il progredire della Storia (con la S maiuscola), le dinamiche strutturali dei gruppi dominanti e delle superpotenze, non si sono mai arrestati; anzi, la guerra economica tanto quanto era attuale prima è rimasta attuale dopo cotale spartiacque storico. Nonché, il suo continuo e progressivo acutizzarsi non ha fatto altro che far progressivamente strabordare terminologie, concettualizzazioni, ed anche vocaboli derivati dalla strategia sempre più direttamente anche nell’ambito economico.
Quindi, si prendano ad esempio in esame le modalità comunicative economiche odierne, si pensi ad esempio al marketing (branca in cui questo fenomeno è molto accentuato). Si potrà facilmente vedere come, da anni ed anni, si sia andati tendenzialmente a sovrapporre il linguaggio militare – e strategico più in generale – al lessico dei manager.
Dunque, tornando agli studi di Luttwak sovramenzionati, prendendo in considerazione tanto gli articoli quanto la monografia. Le “novità” strategiche epocali – un po’ come “novità” possa essere lo studio della forza di gravità nella fisica newtoniana rispetto alla comprensione del moto dei gravi per chi sia sempre stato a digiuno di qualsivoglia tipo di simile studio e comprensione della realtà – sono sostanzialmente due:
1. La prima è che in questo tipo di guerra non ci possono essere “veri” alleati. Si è al tutti contro tutti. Al massimo si può essere – per forza contestuale di cose – alleati “di un istante”, come i leoni che assieme assaltano la preda. Ma come dopo tal frangente, appena questa sia stata immobilizzata, inizi la lotta a chi se ne accaparri

la parte più grossa. Rispetto al contesto odierno, ragionando sulla scorta di tali studi, si comprendono anche le ragioni per cui, pur di tenere unite le alleanze si aprano porte chiuse fino a ieri: la NATO che apre ai massimi livelli ai francesi assetati di grandeur, od il FMI che apre ai brasiliani od agli indiani. In tutto ciò, sullo sfondo di queste dinamiche, la funzione di “chi non ha capito che le alleanze non funzionino come casa amorevole e pacifica” è più che fondamentale. In quanto, se costoro, se quest’ultimi, si sentano alleati, non procederanno ad aggredire e né a difendersi più, aprendo così le proprie porte alla potenza maggiore presente all’interno di cotale alleanza. Cioè aprendo i propri territori, la propria popolazione e le proprie ricchezze all’arbitrio decisionale di godimento ed allo sfruttamento di chi ormai risultante implicitamente come proprio padrone in quanto strategicamente più forte come potenza. A discapito di questo, a livello umano e psicologico, i cooptati istituzionali si sentiranno importanti perché finalmente ammessi a palazzo. Ma, quando capiranno, sa mai questo potrà capitare, sarà ormai – per loro (e soprattutto per il loro stato nazione) – troppo tardi. Nel frattanto saranno stati sbranati e spolpati per benino.
2. La seconda differenza – ancora più grande è importante – è che, qualora si ponga l’attenzione sulla dimensione strategica di codeste dinamiche, la distinzione pubblico/privato non opera più. Anzi. il volerla applicare nell’analisi e nella comprensione della realtà sarebbe negativo. Questo perché gli stati, magari anche ridotti a ruoli di semplice sostegno (ad esempio per quanto riguarda le potenze minori), operano coi loro mezzi al fine d’agevolare la penetrazione delle proprie aziende in altre realtà economiche ed in altri tessuti sociali (in altre parti del mondo, intese come mercati, o come fonti di risorse per la propria industria, od entrambe le cose). Dunque, chi ha l’appoggio reale ed affettivo del proprio stato in quanto potenza – capace di forza e di pressioni – a livello geopolitico, geostrategico, su di una prospettiva stabilmente storica (salda nel presente ma sempre proiettatata con le sue mosse anche di decenni verso il futuro), si trova a vincere sempre contro chi mai creda ancora nella “libera impresa privata”.

Storicamente, nella modernità, a partire dalla metà del XVII secolo, e poi ancor più nel XVIII e nel XIX secolo, i primi a capire e ragionare in termini di strategie globali, ed a farlo nei modi più efficaci, sono stati gli anglosassoni. Dalla metà del XX secolo gli Usa, in particolare (subentrati come potenza dominante all’Impero Britannico).
In questa logica, nell’odierno, le ambasciate – ed in minor modo i consolati (come anche altre strutture affini) – sono punti forti del sistema economico americano. Aiutano le loro aziende a conoscere i mercati, controbattere la concorrenza, etc. Mediante tali poli i loro servizi segreti scoprono le tangenti altrui e le usano per ricattare, oppure da lì fanno partire le proprie, etc.
L’Italia, quale sistema sociopolitico inteso strutturalmente (e dunque come stato nazione), però, rispetto a tutte queste dinamiche, è ormai in una specie d’apparentemente irreversibile coma profondo da una trentina d’anni a questa parte. Incredibilmente, il 1989 – 1991 “ha trovato” gli italiani – per una volta – preparati. Quantomeno alcune parti di taluni gruppi dirigenti erano preparati. Entrando, dunque, prontamente in azione, al manifestarsi di cotale fenomeno storico.
L’Italia, all’epoca avente una serie di forti aziende multinazionali, un sistema pubblico/privato in essere, con IRI, ENI, EFIM e TELECOMUNICAZIONI, etc., da un punto di vista geopolitico, geoeconomico, e geostrategico godeva di una certa penetrazione ed influenza consistente tanto nell’ambito Mediterraneo – tanto in Tunisia quanto in special modo in quello orientale (proiettata così a partire dalle coste verso l’interno e dunque il Medio Oriente) – ed anche nell’area della Penisola Balcanica. Certo, molte realtà di cotale imponente impianto d’imprese partecipate statali avrebbero dovuto essere magari riviste, razionalizzate, risanate, messe in mano a persone capaci più che a raccomandati, etc. Ma, strutturalmente, quelli erano gli strumenti – “l’arsenale” economico, in quanto complesso asset strutturale – per la nuova era di competizione che si stava aprendo.
Eppure, in Italia, nei primissimi anni ‘90, nel giro di pochissimi anni, tutto è stato distrutto. Si è salvata l’ENI perché, forse, ci sarebbe venuta a mancare persino la benzina e se ne sarebbero accorti addirittura i più assopiti e/o stolti. Ma gli asset industriali strategici

in ambiti quali l’acciaio, gli alimentari, l’industria delle armi, le telecomunicazioni, etc., sono stati tutti smembrati. Nella fattispecie è stato tutto “privatizzato” per gli “amici” (di chi all’epoca era classe dirigente politica). Ma, di rimpetto, strutturalmente, a livello storico, così come anche geopolitico, il sistema Italia è stato messo in condizione tanto di non nuocere ai propri competitori quant’anche di non costituire più un pericolo alcuno – quant’anche un fastidio – per gli alleati più intelligenti e maggiormente dominanti.
Note:
1 Cfr. Abad, Robert, Trade Wars in the 21st Century: Perspectives From the Frontline, in Western Asset (website), Pasadena, California, U.S., Western Asset Management Company, August, 2018, https://www.westernasset.com/au/qe/pdfs/whitepapers/trade-wars-in-the- twenty-first-century-2018-08.pdf, consultato in data 14/09/2023.
2 Cfr. Lanchman, Desmond, On the Road to a US-German Trade War, in Official Monetary and Financial Institutions Forum – OMFIF (website), London, U.K – Singapore, 31/07/2019; ed anche: cfr. Ehrenfreund, Max, ‘We are in a trade war,’ Trump’s commerce secretary says after stern German warning, in The Washington Post, Washington D.C., U.S., Nash Holdings LCC, 31/03/2017.
3 Cfr. Hughes, Neil C., A Trade War With China?, in Foreign Affairs, New York, U.S., Council on Foreign Relations, Vol. 84, No. 4 (Jul. – Aug.), 2005, pp. 94–106; ed anche: cfr. AA.VV., Trade, War, and China in the 21st Century. Beyond TPP – Does America Need a New Global Strategy? (panel), New America Foundation, Washington D.C., U.S, 21/09/2016, https://www.newamerica.org/open-markets/events/trade-war-and-china-21st- century/, consultato in data 14/09/2023; ed anche: cfr. U.S. – China Trade Dispute (topic), in Financial Times, London, U.K., The Financial Times Ltd. (Nikkei, Inc.), https://www.ft.com/us-china-trade-dispute, consultato in data 14/09/2023.
4 Von Clausewitz, Carl, Della guerra, Torino, Einaudi, 2007, p.18.