Denominazione di origine inventata

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Un bel libro di Alberto Grandi, intitolato “Denominazione di origine inventata”, fai i conti con le cosiddette “eccellenze” italiane in campo alimentare. Il made in Italy è sicuramente indice di bontà e di qualità nel settore ma credere che su queste basi si possa costruire una supremazia di mercato (non di certo sui mercati più profittevoli), perché siamo più capaci degli altri, è altamente illusorio. Inoltre, Grandi sfata il mito di una tradizione secolare di prodotti e preparazioni che in realtà ha pochi decenni. Scrive l’autore: “Iniziò, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, la favolosa epopea del “piccolo è bello”, nella quale si glorificava tutto ciò che non era grande impresa e quindi anche “energie individuali scatenate, assenza di controlli, riferimenti preindustriali […], disponibilità di capitali di derivazione agricola, autorità locali consenzienti… Se fino alla fine degli anni Sessanta questa realtà policentrica e per certi versi caotica veniva vista come un retaggio del passato preindustriale, dieci anni dopo diventava la panacea in grado di curare il male profondo dell’economia italiana”. L’odierna opportunità nasce dunque da elementi di arretratezza. Aver creato questa moda enogastronomica nostrana ha portato dei vantaggi ma ha anche favorito delle degenerazioni. Il guaio è che si è giunti al paradosso di credere ad una possibile sostituzione tra produzioni all’avanguardia e processi scarsamente tecnologici (addirittura di agricoltura di nicchia) e di poter competere con la grande dimensione attraverso tante minuscole unità produttive disperse sui territori. Lo abbiamo scritto anche nell’ultimo saggio di La Grassa che sta per essere pubblicato: “Le PMI hanno sopperito alla carenza di grandi gruppi industriali, mettendo però in evidenza i limiti del modello di sviluppo italiano, affetto da “piccolismo” che non è affatto “bello” quando sui mercati internazionali si ha a che fare con giganti meglio equipaggiati, pronti a sbaragliare la concorrenza o a dettare le proprie condizioni a chi sconta dimensioni ridotte”. In ogni caso, le speculazioni sulla specificità italiana, che non è affatto solo nostra, iniziano a diventare parossistiche. Così Grandi: “Il cocktail esplosivo di regionalismo, salutismo e crisi del modello industriale mise in moto la macchina dell’invenzione della tradizione, che in pratica non si fermò più. Gli studi sui singoli prodotti o sulle tradizioni gastronomiche dei più sperduti paesini di montagna, di collina, di pianura, di lago e di mare si moltiplicarono a vista d’occhio…Ogni sindaco, ogni presidente di provincia e ogni governatore di regione voleva il suo piatto tipico, la sua sagra, generalmente antichissima, e la sua associazione per difendere (da chi?) quel determinato prodotto. Furbi imprenditori fiutarono l’affare: la parola d’ordine divenne “eccellenza”. L’Italia si riempì di eccellenze delle quali avevamo ignorato l’esistenza fino a pochi giorni prima e la cui perdita sarebbe stata una tragedia nazionale, o quanto meno regionale, provinciale e comunale. Poi arrivarono le sensibilità ambientali ed economiche e quindi si lanciarono nuove parole d’ordine: “biodiversità”, “lotta alle multinazionali” e finalmente “territorio”. Eccola la parola magica: territorio. Secondo una vulgata ormai di uso comune, l’Italia sarebbe fatta di territori e nemmeno ci si rende conto dell’autoironia che si nasconde dietro questa definizione. Come se la Spagna, la Germania o la Francia, ad esempio, fossero fatte di satelliti o, al contrario, fossero un’unica entità omogenea dal punto di vista culturale e alimentare”. In verità, parliamo di mercati in cui, nonostante il nome che ci siamo costruiti negli ultimi anni, è facile farsi scavalcare dai competitori o essere sostituiti da altri esportatori altrettanto bravi. Meglio prendere coscienza subito della distanza esistente tra la nostra percezione della realtà e la realtà stessa, per non trovarsi spiazzati nell’imminente futuro. Siamo bravi nel cibo ma come noi lo sono anche altri, dai francesi, agli spagnoli, agli olandesi. La ricchezza di un Paese la si costruisce su ben altri presupposti che noi sembriamo aver dimenticato. Ma non c’è nulla di anti-italiano, come qualcuno ha già detto, nei ragionamenti dell’autore, tanto che egli non nega la bontà dei prodotti nazionali ma la narrazione ridicola che se ne fa. L’invenzione di una tradizione mitologica che, invece, ha pochi anni e non secoli, non è una panacea alla crisi in cui siamo piombati. Inoltre, non possiamo continuare ad esaltarci per le produzioni agricole mentre arretriamo nei settori avanzati. Facciamo alcuni esempi. Il pomodoro di Pachino. Non è di Pachino ma è un prodotto di laboratorio della Hazera Genetics, industria israeliana. Ha l’IGP. Onestamente, avrei preferito che si chiamasse il pomodoro d’Israele ma che fosse nato nei nostri laboratori. Il parmigiano, come lo conosciamo oggi, non ha nulla a che vedere con quello tradizionale (medioevale), la sua ricetta è stata cambiata negli anni ’60. Fortunatamente, è successo ancora in Italia che il prodotto sia stato migliorato ma ciò non toglie che anche altri avrebbero potuto fare l’operazione, perché non parliamo affatto di sapienze ultrasecolari. Infatti, pare che gli emigranti italiani nel Winsconsin producano un parmesan “più originale”, perché vicino alla maniera di farlo d’antan. Grandi porta tante altre dimostrazioni che sfatano i luoghi comuni sui quali abbiamo costruito la nostra superiorità alimentare.
Il punto però è un altro. Non dobbiamo aspirare ad essere (solo) il parco giochi universale dove gli stranieri trovano buon cibo e si rifanno gli occhi con i nostri panorami e le nostre meraviglie storiche ed artistiche. Dovremmo aspirare a diventare una grande potenza all’avanguardia che sfonda nei settori di punta dell’epoca presente, altrimenti ci trasformeremo tutti in camerieri e albergatori.