HA STATO PUTIN!

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Il caso dell’aereo MH17 della Malaysia Airlines, abbattuto nei cieli dell’oblast di Donetsk nel luglio 2014, torna alla ribalta. Stati Uniti e Gran Bretagna puntano di nuovo il dito contro filorussi e loro protettori a Mosca.
Lo avevano fatto all’indomani della tragedia senza prove documentate. Lo rifanno adesso con argomenti piuttosto carenti.
I russi, al contrario, organizzarono, il 21 luglio del 2014, appena quattro giorni dopo la sciagura, una conferenza al Ministero della difesa nella quale mostrarono immagini satellitari, rilevazioni radar, tracciati aerei e posizionamenti sul terreno dei sistemi d’arma delle parti in conflitto, arrivando alla conclusione che il colpo fosse partito da una zona sotto controllo di Kiev, sparato da un sistema missilistico Buk 1 in dotazione all’esercito ucraino.
Ma Washinton e Londra non demordono e ripropongono la loro tesi sulla responsabilità dei russi portando a sostegno della versione di cui sono fermamente convinti, udite udite, un rapporto inglese, pubblicato in febbraio dal sito Bellingcat e redatto da giornalisti investigativi, basato su “post di social network, immagini pubbliche e altre fonti”, ora incrociato con alcune foto satellitari di cui è venuto in possesso il think tank d’analisi geopolitica Stratfor, legato all’intelligence Usa.
Dall’incrocio di tali dati, secondo l’agenzia statunitense, emergerebbe la colpevolezza quasi certa dei ribelli (e dunque di Putin che li sostiene). Questo perché l’immagine ripresa dal satellite svela “un sistema di difesa aerea, montato in cima ad un Transloader, spostato da Donetsk a Makiivka” prima che il volo MH17 precipitasse in una località nei pressi di Grabovo. La foto è stata scattata circa cinque ore prima che l’aereo fosse abbattuto da una posizione vicino alla città di Snizhne, a circa 40 chilometri di distanza.
I miliziani sarebbero entrati in possesso del Buk il 15 luglio 2014, allorché dalla frontiera russa qualcuno lo avrebbe trasportato a Donetsk. Di questo passaggio o traffico di missili però non esistono testimonianze.
Per Stratfor questo sarebbe un corpo di prove circostanziali eppure i suoi analisti sono costretti ad ammettere che manca la pistola fumante. Non possono essere sicuri sul fatto che sia stato proprio quel “particolare sistema Buk ad esplodere un missile contro l’aereo di linea malese”. Se è così, l’unica cosa che resta in piedi del teorema angloamericano sono le illazioni dei social. Un po’ poco per arrivare alla verità, abbastanza per sprofondare nel ridicolo.
In ogni caso, Stratfor ritiene che il coinvolgimento, dimostrato o no, di Mosca nella vicenda non comporterà (ulteriori) ripercussioni per i russi. Al netto, ovviamente, delle sanzioni ancora operanti. E pazienza se queste sono ingiuste poiché restano giustificabili (per motivazioni geopolitiche) agli occhi della Casa Bianca in competizione col Cremlino per l’egemonia mondiale.
Oramai gli Usa, in questi tempi dirimenti, badano sempre più al sodo e cercano di cavarsela sbrigativamente senza metterci troppa fantasia. Le suonano e si decantano. Poi si autoassolvono. Mentre non sono altrettanto tolleranti con chi li sfida.
Bastano i social per costruire delle improbabili trame ed addebitare ai nemici le conseguenze di ogni nefandezza che accade in questo mondo. Comunque hanno sempre ragione, con o senza “provette”. Dai tempi di Colin Powell.