I DESTINI STORICI DI UNA TEORIA

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1. “La sconfitta dell’insurrezione parigina del giugno 1848 – la prima grande battaglia tra proletariato e borghesia – spinse da capo in secondo piano, per un certo tempo, le aspirazioni sociali e politiche della classe operaia europea. Da allora in poi la lotta per la supremazia fu di nuovo, come lo era stato prima della rivoluzione di febbraio, soltanto tra gruppi diversi della classe possidente; la classe operaia fu costretta a battagliare per la propria libertà di manovra, e a ricoprire la posizione di ala estrema dei radicali del ceto medio ”(F. Engels, Prefazione all’edizione Inglese del Manifesto del Partito Comunista, Londra 1888. Sottolineature di G.P.).
Quante implicazioni in questo paragrafo engelsiano e quanti elementi da dover sceverare e setacciare per i temi che ci interessa far emergere in questo breve scritto. Innanzitutto, l’opera di cui questo passaggio è la prefazione: il Manifesto del Partito Comunista del 1848. Un testo che nasceva come un programma politico, in una fase di “metabolizzazione” sociale in cui l’esigenza di dare una direzione alle lotte era conseguenza dell’approfondirsi di contraddizioni fortissime tra le classi e dell’avanzata impetuosa di effettivi movimenti sociali.
Questa era stata proprio l’ipotesi di Marx, confermata dai sommovimenti che di lì a breve sarebbero esplosi e rifluiti, per poi nuovamente deflagrare, sotto la spinta delle masse e delle loro prime organizzazioni. La società capitalistica si muoveva velocemente sul magma di questi conflitti suffragando la tesi marxiana circa una presunta tendenza di fondo alla polarizzazione sociale, con una parte del “campo” occupata dalla borghesia industriale e l’altra dal proletariato di fabbrica.
Le alterne fortune del Manifesto sono legate proprio all’andamento ondivago delle lotte operaie, ravvivate dalle multiformi correnti sociali, culturali, ideologiche, prevalenti in questa fase di “caos originario”, dalla quale emergeranno prepotentemente i nuovi rapporti sociali capitalistici.
Engels ci dice che quando Marx scrive questo programma è costretto a mediare e a tener conto delle varie anime, più o meno utopistiche, più o meno opportunistiche, che si confrontano nell’Internazionale; si deve, in questo particolare momento storico, tenere dentro tutti quanti: dalle Trade Unions inglesi, ai prudhoniani, ai Lassalliani, in quanto queste correnti esercitano una forte egemonia sulle classi subalterne.
Ci avrebbe pensato lo scorrere degli eventi e la reazione violenta della borghesia, sfidata sul terreno della presa del potere, a liberare l’ideologia proletaria dalle incrostazioni “romantiche” (owenisti, fourieristi, saint-simonisti ecc ecc.) e dai “svariati ciarlatani sociali che, con ogni sorta di rabberciamenti, dichiaravano di riparare, senza alcun pericolo per il capitale e per il profitto, ogni genere di ingiustizia sociale”.
Secondo Marx, tali “fronzoli prerivoluzionari” trovano terreno fertile a causa di
rapporti sociali determinati solo generalmente che favoriscono l’incantamento
utopistico delle masse. Dopo le prime sconfitte, conseguenza di un’acutizzazione
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della controrivoluzione, i contrasti tra le classi si fanno caustici in virtù di un esercizio di violenza reiterato da parte della grande borghesia finanziaria e industriale che vuole sottomettere l’intera società al meccanismo riproduttivo capitalistico. Engels pone, nel passaggio iniziale che abbiamo citato, l’accento su una caratteristica preminente della moderna società capitalistica: la lotta per la supremazia sociale è generalmente un affare delle classi dominanti mentre i dominati sono costretti a “battagliare” per ricavarsi degli spazi di manovra, per aprirsi delle finestre di opportunità al fine di emanciparsi da una situazione di assoluto “schiacciamento” tra classi possidenti.
Vi si può intravvedere in questa affermazione una delle categorie fondamentali del pensiero lagrassiano che in questa fase storica, mutatis mutandis, mette in rilievo la centralità dello scontro strategico interdominanti, a fronte di un processo di decantazione sociale che accenna solo a mostrare i suoi possibili sviluppi.
Finché non si arriva al nocciolo delle antinomie essenziali all’interno della formazione sociale capitalistica, il fiume indistinto delle ideologie resistenziali raccoglie molti affluenti e mescola i “liquidi”: la maggior parte dei settori sociali che combattono la borghesia lo fanno non per fini di trasformazione ma per riportare indietro l’orologio della storia, per assicurarsi la propria esistenza come ceti medi, “i piccoli industriali, il piccolo commerciante, l’artigiano e il contadino”, della prima metà dell’ottocento, sono la parte più reazionaria di questa società – come lo è anche la vecchia aristocrazia in disfacimento, che fa proprie parole d’ordine “socialisteggianti” per coagulare attorno a sé un più vasto blocco antiborghese – poiché portatori di un sentimentalismo mistico che avvelena la teoria rivoluzionaria.
L’auspicata regressione economica, sulla quale questi gruppi fondano la propria azione, si accompagna alla fuga ideologica in avanti, che peraltro è una costante specifica di tutte le fasi d’inquietudine sociale. In Rousseau, per esempio, agisce lo stesso meccanismo, come messo in risalto da Althusser: “Rousseau invoca come soluzione pratica al suo problema (la soppressione delle classi sociali) una regressione economica verso uno dei fenomeni della dissoluzione del modo di produzione feudale: il piccolo produttore indipendente, l’artigiano urbano o rurale… Ma a che santo votarsi per ottenere questa impossibile riforma economica regressiva? Non resta che la predicazione morale, cioè l’azione ideologica”. Sicché lo sbocco necessitato di una teoria ineffettuale che stabilisce i propri legami con l’ “oggetto sociale” indagato attraverso il puro desiderio, è l’avvitamento ideologico, la predicazione morale ed “il trasferimento dell’impossibile soluzione teorica nell’altro della teoria, la letteratura”.
Marx passerà in rassegna, nel Manifesto del 1848, tutte queste ideologie che, partendo dai frammenti sociali di un mondo perduto e destoricizzato, si costruivano un involto “perlato” intorno ai granelli dei corpi sociali in dissoluzione, come forma di resistenza all’ondata capitalistica. Tali debolezze erano state già utilizzate dalla borghesia durante la rivoluzione francese nel momento in cui essa aveva chiamato all’arruolamento i piccoli borghesi ed i proletari, sotto il vessillo del suo
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universalismo di classe (quello del motto “egalitè, fraternitè, libertè ”), salvo scaricarli subito dopo la presa del potere.
Da un lato la borghesia era la classe che organizzava ed ispirava i nuovi rapporti sociali fondati sull’indipendenza personale formale (a livello della sfera circolatoria e del mercato) e sulla nuova schiavitù salariale (nella produzione), dall’altro i corpi sociali medioevali si disfacevano e venivano inglobati nella struttura sociale capitalistica, nei suoi “dispositivi” di divisione del lavoro all’interno dell’officina.
E più le basi materiali delle vecchia società si dissolvevano, più si accresceva il “codazzo” di variegate ed eteroclite rappresentazioni ideologiche: al versante delle sorpassate “anticaglie” feudali si contrapponeva quello dei nuovi miti borghesi. I legami feudali, non costituendo più la “malta” dei rapporti sociali dominanti, potevano al massimo sopravvivere quale elemento consolatorio di fronte a mutamenti percepiti come devastanti; la mitologia borghese si forgiava, invece, su uno stato di supremazia effettiva, al quale corrispondeva un involucro ideologico tendente ad inglobare, nel reticolo sociale complessivo, anche gli strati medio bassi della collettività.
Sul terreno della tenzone tra classe feudale e classe capitalistica, per il controllo dell’impalcatura societaria, venivano distese una serie di trappole ideologiche che Marx passerà al vaglio nello stesso Manifesto.
La vecchia classe dominante tentava di resistere aggrappata ai suoi privilegi ma si sfilacciava e perdeva i pezzi (gli aristocratici “malgrado i loro stereotipi, si adattano a cogliere le mele d’oro, e a scambiare fedeltà, amore, onore col commercio della lana di pecora, della barbabietola e della grappa”). Ciò che restava di essa si rivolgeva alla parte più immatura del proletariato facendo “…finta di perdere di vista i propri interessi per formulare il proprio atto di accusa contro la borghesia nell’interesse esclusivo dei lavoratori” (Marx). Queste sono le caratteristiche di quello che Marx definisce il “socialismo feudale”, la resistenza e l’azione reazionaria della classe nobile, in via di esautorazione, che sventola la “bisaccia” del mendicante per parlare “al cuore” dei contadini.
Ovviamente, non è solo l’aristocrazia feudale ad essere stata rovesciata dalla borghesia. Esistono spezzoni di piccola borghesia medioevale e contadina continuamente risospinti nelle file proletarie, per quanto la loro predisposizione sia quella di affiancarsi (vanamente) alla grande borghesia industriale, in quanto dell’ontogenesi di questa i primi erano stati precorritori.
Da queste fila vengono gli intellettuali piccoli borghesi alla Sismondi che hanno denunciato tutte le storture della nuova formazione sociale, ma da un punto di vista prettamente piccolo-borghese, perorando una ricostruzione dei vecchi rapporti sociali senza voler rinunciare ai nuovi mezzi di produzione (proprio come aveva fatto Rousseau nel periodo pre-rivoluzione francese).
Un’altra corrente letteraria del socialismo di quest’epoca è quella del “vero socialismo”. Questa derivava da una generalizzazione astratta e filosofica, in versione tedesca, della letteratura comunista francese.
In “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel” Marx aveva già passato in
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rassegna le profonde differenze “pratiche” esistenti tra la società francese e quella tedesca: “i tedeschi nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto. La Germania fu la loro coscienza teorica. L’astrattezza e la presunzione del suo pensiero andarono sempre di pari passo con la unilateralità e inferiorità della loro realtà”. E difatti, anche in questo caso, la “mancanza di certezza sensibile” dei letterati tedeschi trasformò le categorie politico-economiche francesi in qualcosa di filosofico: “…dietro la critica francese dei rapporti patrimoniali essi scrissero ‘alienazione dell’essere umano’, dietro la critica francese dello Stato borghese scrissero ‘abolizione del dominio dell’universale astratto’ e così via ”.1
Ma le grandi verità assolute di cui si impregnavano i veri socialisti non andavano oltre “la veste tessuta di ragnatela speculativa, ornata di fiori retorici da anime belle, imbevuta di rugiada sentimentale ebbra d’amore, questa veste d’esaltazione nella qual i socialisti tedeschi avvolgevano un paio di scheletriche “verità eterne” non fece che moltiplicare lo spaccio della loro merce presso il grande pubblico”; alla resa dei conti il vero socialismo (ideologia della piccola borghesia) si rivelò una costola dell’assolutismo tedesco che lo utilizzò contro la grande borghesia in marcia e per frenare l’avanzata del proletariato urbano.
Per quanto concerne, invece, il cosiddetto Socialismo Conservatore, Marx sarà ancora più pungente, mettendo a nudo la cattiva coscienza del borghese che voleva esorcizzare la natura della classe alla quale apparteneva costruendosi un’ “anima bella”: filantropia, opere di bene, sostegno ai diseredati.
Qui si incontrano una pletora di “protettori degli animali, promotori di associazioni di temperanza, riformatori di ogni risma sociale”. Infine, Marx rivolge la sua critica alle correnti utopistiche comuniste, quelle delle comunità “icariane” alla Cabet o dei falansteri alla Fourier che sognano la realizzazione delle loro utopie attraverso l’“esodo”, rifiutando qualsiasi azione trasformativa e rivoluzionaria. Anche questi benefattori confondono la realtà sociale con la loro immaginazione, si rappresentano fantasiosamente la società del futuro secondo i loro desideri e quanto più i loro esperimenti d’ingegneria sociale falliscono, tanto più essi si ritrovano schierati con i reazionari: gli owenisti in Inghilterra agivano contro i cartisti e i fourieristi in Francia si contrapponevano ai riformisti.
E’ difficile non approssimare la descrizione delle ideologie ottocentesche, fatta da Marx, alle tante teoresi odierne che riproducono, seppur in una situazione storica profondamente mutata, gli stessi difetti e le stesse debolezze. Ambientalisti, antisviluppisti, decrescentisti, organicisti comunitari ecc. ecc., sono le frange con le quali la teoria scientifica e rivoluzionaria del nostro secolo deve fare i conti.
Per questo Lenin diceva che “sognare è la sorte dei deboli”, una debolezza che è
1 Tale opera di Marx è stata scritta nell’autunno del 1843 e pubblicata nell’unico numero degli “Annali franco-tedeschi” nel febbraio del 1844. Nonostante si tratti di un saggio che fa parte dei cosiddetti scritti giovanili, nei quali l’influenza filosofica hegeliana è ancora molto forte, Marx è già sferzante nei confronti di certe astrazioni idealistiche che tendono a mistificare i rapporti sociali ed economici dietro formule aleatorie come: “alienazione dell’essere umano”. Mi sembra che qui l’affermazione sia inequivocabile.
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facilmente preda delle classi dominanti le quali la utilizzano per dividere i dominati e controllarli con più agio.
Contro tutte queste correnti il marxismo ha dovuto lottare alacremente per avere la sua egemonia sul proletariato: “nei primi cinquant’anni della sua esistenza (a partire dal decennio 1840-1850) il marxismo combattè contro le teorie che gli erano radicalmente ostili. Nella prima metà del decennio 1840 – 1850 Marx ed Engels aggiustarono i conti con i giovani hegeliani radicali che in filosofia erano degli idealisti. Verso la fine di questo decennio la lotta si porta nel campo delle dottrine economiche, contro il proudhonismo. Negli anni 1850-1860 questa lotta viene coronata dalla critica dei partiti e delle dottrine che si erano manifestate durante il tempestoso 1848” (Lenin, Marxismo e Revisionismo).
2. Non è dunque un fraintendimento di poco conto quello secondo il quale la teoria marxiana si sarebbe affermata con estrema facilità (in virtù della sua pretesa scientificità) sulle numerose utopie socialiste che abbiamo testé descritto. Essa ha combattuto non soltanto per ricavarsi lo spazio della propria affermazione ed occuparlo come si occupa un bastione nemico, ma ha dovuto anche fare i conti con tutte quelle teorie che le erano profondamente avverse. Come non dare ragione ad Althusser che parlando di quel campo di battaglia che è il pensiero dirà: “… una filosofia (ed una qualsiasi teoria, si potrebbe affermare) non viene al mondo come Minerva nella società degli dei e degli uomini. Essa esiste solo per la posizione che occupa, e occupa questa posizione solo conquistandola nello spazio pieno di un mondo già occupato. Essa esiste dunque solo nella sua differenza conflittuale, e questa differenza può conquistarla e imporla solo attraverso il detour di un incessante lavoro sulle altre posizioni esistenti. Questo detour è la forma del conflitto che costituisce ciascuna filosofia come parte in causa nella battaglia e su quel Kampflatz (Kant) che è la filosofia. Se infatti la filosofia dei filosofi è questa perpetua guerra (…), nessuna filosofia esiste, in questo rapporto di forza teorico, se non prendendo le distanze dai suoi avversari, e investendo la parte delle posizioni che essi hanno dovuto occupare per assicurare il proprio potere sull’avversario che, dunque, portano in sé.”
Partiamo, dunque, da Lenin per sintetizzare i punti salienti di questa lotta. Ne “I destini storici della teoria di Carlo Marx” costui individua i momenti di presa della dottrina marxiana sul contesto sociale dell’epoca. Secondo Lenin, la scansione storica all’interno della quale si deve inserire lo spiegamento del pensiero marxista si realizza in tre periodi che corrispondono ad altrettanti stadi di avanzamento e di affermazione dello stesso:
dalla rivoluzione del 1848 alla Comuni di Parigi (187 1)
dalla comune di Parigi alla rivoluzione russa del 1905
dalla rivoluzione russa in poi
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Prima che decantassero i moti rivoluzionari del 1848 il marxismo non predomina assolutamente sul campo teorico che ispira la lotta tra le classi e, anzi, costituisce una corrente minoritaria tra quelle che si candidano a guidare l’azione delle masse e delle sue avanguardie rivoluzionarie.
C’è, in questa fase, un’assoluta prevalenza delle tendenze moralistiche ed umanistiche che sono lo specchio di quelle forme spontanee e “primordiali” di reazione alla palingenesi capitalistica, messe in opera da quei gruppi societari (spogliati dai processi di accumulazione) incapaci di comprendere i nuovi rapporti materiali che sono al fondo della riproduzione sistemica.
La base dei raggruppamenti sociali è ancora piuttosto caotica ed in questo “brodo di coltura” trovano alimento tutte le teorie “concorrenti” del socialismo scientifico. Su tale nebulosa sociale indistinta, si stagliano le ideologie romantiche ed utopiche che avvolgono nell’aura di un passato mitico il mondo feudale in dissoluzione.
Lenin segnala argutamente quali contraddizioni si nascondono dietro la “spossatezza psicologica” di tali teorie:
l’incomprensione della base materialistica del movimento storico
l’incapacità di discernere la funzione e l’importanza di ciascuna delle classi della società capitalistica
la dissimulazione della natura borghese delle riforme democratiche con frasi pseudosocialiste sul ‘popolo’, la ‘giustizia’, il ‘diritto’ ecc. ecc.
Cosa darà il colpo di grazia a queste concezioni? Troviamo la risposta nello stesso testo di Lenin: saranno i moti del 1848 a spazzare via “tutte queste forme rumorose, variopinte, chiassose del socialismo premarxista ”.
Effettivamente, i moti del 1848 costituiranno un bivio di assoluta divaricazione tra il ‘sentiero’ lastricato di buone intenzioni dell’utopia rispetto alla “strada” dura e tortuosa della scienza.
Questo avverrà perché con il sedimentarsi dei processi sociali, ciò che prima appariva indeterminato assumerà, in seguito, contorni sempre più definiti, rispondendo a quella tendenza alla polarizzazione sociale già preventivata da Marx.
In uno dei suoi ultimi lavori (Tutto torna, ma diverso,) Gianfranco La Grassa riprende l’intuizione leniniana mettendo l’accento sui processi di decantazione sociale che chiariscono meglio lo stretto rapporto esistente tra sviluppo dei movimenti sociali ed azione/retroazione teorica in una situazione di grandi cambiamenti epocali.
La scientificità del pensiero marxiano altro non è, sotto tale aspetto, che la percezione da parte di Marx stesso, di una verificazione del suo impianto teorico nel senso “di aver individuato la dinamica interna della nuova formazione sociale (capitalistica) e le intrinseche tendenze al suo superamento comunistico [La Grassa].
La maturazione degli eventi che portarono all’esplosione dei moti del 1848,
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l’allargamento dei conflitti all’interno del campo capitalistico e la “deformazione” dello spazio-tempo sociale, in via di occupazione, da parte dei due grandi blocchi (borghesia e proletariato), sarà il segno, per il pensatore tedesco, di essersi incamminato sulla giusta via teorica.
Lenin descrive questo processo in maniera inequivocabile cogliendo il fulcro di tale passaggio storico. Il bagno di sangue contro gli operai parigini aveva, infatti, fatto cadere la schermatura ideologica liberale che ancora proteggeva l’universalismo interclassista borghese, mettendo i ceti che componevano la società di fronte ad una scelta inequivocabile, quella tra democrazia operaia e regime borghese.
I due poli attrattori che si formano all’interno della formazione sociale capitalistica, portano a maggiore definizione gli stessi rapporti tra le classi nella nuova situazione. Dirà ancora Lenin: “Il liberalismo vile striscia di fronte alla reazione. I contadini si accontentano dell’abolizione delle vestigia feudali e si schierano a fianco dell’ordine…”.
Nel momento in cui il potere costituito percepisce il pericolo rappresentato da una classe che si contrappone radicalmente alle basi stesse della sua riproduzione sistemica, reagisce con tutta la violenza che esso è in grado di esercitare; vengono messi in moto gli apparati repressivi e decadono alcune formule ideologiche poste a protezione della democrazia borghese, l’ordinamento capitalistico entra in fibrillazione e deve metter mano alla sua forza coercitiva per reprimere le velleità sovversive del proletariato.
Lenin vede lontano quando coglie il senso profondo di tutte quelle ideologie consolatorie che tentano di armonizzare la società: “Tutte le dottrine che parlano di un socialismo non classista, di una politica non classista, dimostrano di essere frottole vane ”(Lenin), del resto come si poteva “glorificare la pace sociale” di fronte all’uso della forza più cieco?
Con la comune parigina del 1871 il quadro diviene ancora più limpido, tanto che Marx potrà indicare in quell’esperienza la forma finalmente svelata della dittatura del proletariato, un esempio di eroismo delle classi sfruttate ed un monito che aleggerà per sempre sulla testa delle classi dominanti e sul futuro inquietante che le attenderà.
Il secondo periodo, dal 1872 al 1904, è invece, secondo Lenin, quello della completa affermazione del marxismo che avviene in una fase relativamente pacifica e senza rivoluzioni. Si formano i partiti socialisti i quali si organizzano sfruttando le forme del parlamentarismo borghese ed erigendo istituzioni proprie come i sindacati, le cooperative ecc. ecc.
L’affermazione del marxismo costringe i suoi nemici a ‘travestirsi’ da marxisti per depotenziare le lotte e le legittime aspirazioni del proletariato. In questo momento storico la lotta ideologica si fa più serrata e la corruzione dei vertici proletari è l’arma più efficace nelle mani delle classi dominanti.
Se nella prima fase il marxismo aveva dovuto sgomitare e farsi largo tra una pletora
di utopie insidiose e fantasiose ora, invece, il suo nemico principale si chiama
opportunismo. L’opportunismo è una forma di “iperrealismo” che “interpreta il
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periodo della preparazione delle forze per le grandi battaglie come una rinuncia a queste battaglie”. L’opportunismo è una barriera psicologica che i gruppi dirigenti del proletariato impongono agli sfruttati affinché questi accettino la gradualità delle conquiste e non si spingano oltre il punto in cui le rivendicazioni mettono in discussioni la gerarchia sociale (il movimento è tutto, il fine non è più nulla).
Questa accettazione dell’esistente non tiene conto del fatto che la pacificazione sociale non è semplicemente il frutto di un “equilibrio concordato” (sebbene in seguito alla manifestazione di ripetute prove di forza) raggiunto “a tavolino” e una volta per tutte, esso è, piuttosto, temporaneo e dipende dalla situazione dei rapporti di forza tanto all’interno della classe dominante che, in seconda battuta, tra questa e le classi subalterne.
La dinamica capitalistica procede senza tener conto dei pii desideri di armonizzazione perseguiti da singoli uomini e gruppi. Non appena ricomincia lo scontro tra grandi trust a livello internazionale, non appena le borghesie imperialiste si affacciano sugli interessi egemonici a livello mondiale, le conquiste sociali del proletariato vengono rimesse in discussione: “il carovita ed il gioco dei trust provocano un inasprimento inaudito della lotta economica, che scuote financo gli operai inglesi, i più corrotti dal liberalismo borghese. Una crisi politica matura sotto i nostri occhi nella stessa Germania, nella ‘cittadella’ della borghesia e dei grandi proprietari fondiari. Gli armamenti folli e la politica dell’imperialismo danno all’Europa moderna una ‘pace sociale’ che assomiglia piuttosto ad un barile di dinamite.”
Ovviamente, Lenin legge questo fenomeno come una ulteriore decantazione sociale, di portata generale, che confermerà, una volta di più, la previsione marxiana. La borghesia si decompone (o almeno avrebbe dovuto farlo) a causa delle contraddizioni sistemiche che essa non può governare, mentre viene maturando la sempre più grande consapevolezza del proletariato (la c.d. coscienza di classe).
Sappiamo che le cose sono andate affatto diversamente e che il movimento comunista è stato scosso da una brutta sorpresa: il proletariato mondiale trascinato nella carneficina della Grande Guerra, si schiera al fianco delle proprie borghesie nazionali. Solo in una condizione storica del tutto eccezionale riuscì ad avere il sopravvento sulle classi dominanti, nel paese dove più deboli erano i ceti borghesi e dove si faticava a spezzare la precedente organizzazione feudale, la Russia del 1917. Da qui in poi si apre il terzo periodo, quello della costruzione del socialismo, che vedrà alla testa del movimento operaio la formazione sociale sovietica quale nazione guida del proletariato mondiale.
2. A questo punto ci è utile ritornare sul testo di Gianfranco La Grassa che precisa ed attualizza quanto detto da Lenin in questo scritto del 1913. Chiariamo, innanzitutto, ciò che ci interessa ricavare da questi due testi che mettiamo a confronto.
Tanto Lenin che l’economista veneto pongono in evidenza il concetto di decantazione sociale, secondo una “catena evenemenziale” che contribuisce a rischiarare il fondo dove si concretano detti fenomeni. Lenin dirà proprio che con l’esplosione dei moti
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del ’48 le classi sociali faranno finalmente i conti con il loro mondo, in quanto i blocchi sociali giungeranno a compattarsi secondo linee più definite. Da un lato c’è, come detto in precedenza, la borghesia industriale accresciuta nelle sue file dai vecchi aristocratici che non disdegnano di mettersi in affari, dall’altro lato ci sono i proletari e i contadini poveri, spossessati dei loro mezzi di produzione e gettati di fronte al Capitale come meri erogatori di forza lavoro. Nel mezzo tanti corpi intermedi e ceti cuscinetto che cominciano ad essere attirati nel campo di forza esercitato dai poli. Queste classi sono il risultato di “tumultuosi processi sociali, di condensazione in raggruppamenti contrapposti, verificatisi nell’ambito del precedente Terzo Stato, un miscuglio per lungo tempo caotico e i cui componenti di base erano tutt’altro che ben delineati ”[La Grassa].
La Rivoluzione del 1789 aveva opposto il Terzo Stato alle classi dominanti aristocratiche e nonostante l’esito dei processi rivoluzionari del ‘89 sia andato molto distante dalle primigenie aspirazioni che avevano mosso i vari ceti, resta fuori di dubbio che i cambiamenti prodottisi siano stati ugualmente radicali e definitivi.
L’eterogeneità dei ceti, che a vario titolo si collocavano nel cosiddetto Terzo Stato, viene ricomposta dalla classe in esso egemone e dai rapporti sociali di cui essa è portatrice. La borghesia urbana e produttiva era riuscita infatti a convogliare le legittime aspirazioni d’indipendenza dei ceti intermedi e di quelli che si collocavano alla base della piramide sociale (proletariato urbano) intorno a precise parole d’ordine di trasformazione, mentre la maggior parte dei contadini restava ancora vicina al mondo feudale e al clero.
Tuttavia, prima dello scoppio della rivoluzione francese il campo conflittuale non si tagliava affatto con l’accetta, la borghesia produttiva più ricca cercava di accedere ad alcuni privilegi feudali e pretendeva, altresì, di essere protetta nelle proprie attività. Da qui nascevano convergenze con una parte della classe aristocratica e nobiliare. La stessa nobiltà era differenziata al suo interno poiché ad una parte parassitaria che viveva di privilegi di lignaggio si contrapponeva la nobiltà, soprattutto togata, che si era lanciata nelle attività capitalistiche.
In sostanza, a livello societario, si era già prodotto un “dispiegamento volumetrico” delle classi che aveva eroso lo spazio sociale dell’alta aristocrazia e dell’alto clero. Sono poste così le basi materiali per una radicale metamorfosi dell’intelaiatura precedente.
Ma quello che ci interessa mettere in risalto è il fatto che quando certe aspirazioni ideali, coltivate nelle prime fasi rivoluzionarie, sono disattese dai fatti, i pensatori più radicali, quelli che hanno creduto in tutt’altri sviluppi della fase storica, danno vita “ad una serie indescrivibile di utopie sociali” che in gran parte giocano un ruolo ‘romantico’ e regressivo.
Del resto, è inevitabile che nei periodi di transizione, allorché i processi sociali seguono vie di “solidificazione”, la stessa teoria deve sottoporsi ad aggiustamenti progressivi per meglio definire il suo oggetto d’indagine.
Sono, insomma, le lezioni della storia ad indicare come può evolvere tanto la tattica
che la complessiva strategia rivoluzionaria e come certe previsioni devono essere
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corrette mano a mano che gli effettivi movimenti sociali fanno il loro corso.
Anche La Grassa, come Lenin, segnala quali sono gli avvenimenti topici che permettono alla teoria marxista di prendere il sopravvento sulla pletora di visioni teoriche rivali, da lì in poi stigmatizzate quali utopistiche per via della loro ineffettualità e distanza dalla “concretezza fattuale”.
Se successivamente al 1789, il fallimento delle aspirazioni di trasformazione radicale della società aveva favorito il germogliare delle utopie, dopo il 1848, l’opposizione frontale tra borghesia e proletariato chiarisce definitivamente cosa stava “bollendo” nel Terzo Stato.
Il secondo punto temporale di rottura è, per La Grassa, la Comune parigina del 1871 evento fondamentale che condurrà Marx prima e Lenin poi ad afferrare quali conseguenze ed opportunità potevano aprirsi in seguito ad una rivoluzione proletaria. La lezione appresa da tale esperienza dimostrò come non fosse possibile anticipare le manifestazioni concrete delle rivoluzioni e gli sbocchi alle quali esse dovevano condurre. Fino a che non si entra “in medias res” è possibile fare solo qualche previsione di principio, cercando di individuare le tendenze di fondo del complessivo movimento sociale, senza alcuna pretesa di sceverare le dinamiche strutturali della società con squadra e compasso.
Infine, questi stessi insegnamenti toccheranno la Rivoluzione Russa del ’17 (la prima grande rivoluzione comunista della storia) che tuttavia, se negli intenti potrà dirsi ispirata alla trasformazione socialista, nei fatti andrà molto distante dalla costruzione del mondo nuovo auspicato. Anche in questo caso, è stata la Storia che ha corretto il tiro, laddove lo Stato operaio-contadino, base della formazione sociale sovietica secondo Lenin, aveva tutt’altra natura e rispondeva ad altre alleanze di classe.
Il blocco sociale sovietico (nell’ambito del quale contadini ed operai avevano un ruolo più o meno marginale) ha dato vita ad una grande potenza geopolitica seppur agendo nell’ambito di coordinate ideologiche che s’indirizzavano alla costruzione del socialismo.
3. Questa ricostruzione storica non ci servirebbe ad un granché se non la sottoponessimo ad una necessaria attualizzazione. Ci interessa capire, nella fase attuale, la posizione occupata delle “classi” (dominanti e non dominanti) che agiscono nell’alveo della formazione capitalistica odierna.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le coordinate storiche della precedente epoca sono state letteralmente sconvolte e le conseguenze di tali mutamenti devono essere ancora indagate approfonditamente, tanto sul piano sociale che su quello ideale.
A partire da questo evento, il campo capitalistico trionfante ha potuto riallocarsi su una parte del mondo che fino a quel momento gli era sfuggita. Dopo anni di dominio incontrastato statunitense, quelle nazioni che avevano perseguito la strada della costruzione del socialismo hanno potuto riorganizzarsi, liberandosi dai fardelli ideologici del passato che hanno contribuito negativamente a farne stagnare le forze più dinamiche.
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La storia si è dunque rimessa in marcia, proprio come era accaduto dopo la restaurazione del 1815, durata per tutto il quindicennio successivo. La Grassa, sostiene che la situazione attuale, non a caso, può ben essere paragonata a quella europea del 1830. Come allora, anche oggi, stanno moltiplicandosi una serie di correnti romantiche che prendono il posto della vecchia ideologia comunista in dissoluzione. A propria volta, gli strascichi di quest’ultima continuano a rivivere in una forma totemica ed ossificata, riproducendo schemi sociali vetusti che nemmeno lambiscono la gestazione del nuovo tempo storico. La sopravvivenza o la nascita di queste vecchie/nuove ideologie è legata alla stessa struttura dei rapporti sociali, la cui metamorfosi ha risolutivamente segnato l’inutilizzabilità delle precedenti categorie di lettura rendendo difficile, al contempo, la loro sostituzione con altre più cogenti.
Per esempio, occorre ridefinire, in linea di massima, la stratificazione sociale attuale (la sua forma concreta nel pensiero) al fine di penetrare e ricomporre teoricamente le dinamiche sulle quali si muovono gli insiemi sociali di questa fase, differenziati al loro interno per reddito, cultura ed aspirazioni.
Si tratta di un’ azione fondamentale per vagliare la porosità delle stratificazioni sociali e tentare di collegare tra loro quelle forze che sono percepite come antitetiche a causa della loro collocazione precedente. Non è certamente una operazione facile ma si può affermare, ad esempio, che la costruzione dell’alleanza operai-contadini nella Russia di Lenin fosse cosa semplice e immediata? Essa fu realizzata anche per via ideologica, tanto che i contadini ripetevano: “Bolscevichi sì, comunisti mai!”
E che dire della piccola borghesia urbana, di quell’esercito di artigiani e negozianti, che nelle giornate del 1848 fu utilizzato dalla grande borghesia capitalistica contro il proletariato, a tutela di una proprietà capitalistica che ad esso, ciò nonostante, non sarebbe stata garantita: “la loro proprietà nominale era stata lasciata in pace fino a che si era trattato di spingerli sul campo di battaglia in nome della proprietà. Ora che si era regolato il grande affare col proletariato si poteva tornare a regolare anche il piccolo affare col droghiere”. (Marx, Le lotte di classe in Francia). Come si può ben capire, le classi dominanti fanno “sintesi” sociale proprio sugli stessi elementi che dovrebbero favorire un’alleanza duratura tra classi subalterne.
Senza la necessaria maturità teorica che indichi alle classi sottoposte i punti in cui è possibile trovare delle convergenze con altri raggruppamenti sociali (non dominanti), in funzione della creazione di alleanze strategiche contro la vera classe dominante, l’apparato ideologico di queste ultime agisce più facilmente sui punti deboli del fronte nemico, li allarga e li fa giocare uno contro l’altro: è la strategia del Divide et Impera.
Quando Lenin, all’inizio della Nep, insisté sul consolidamento dell’alleanza operai-contadini aveva ben presente il livello dei rapporti sociali e l’andamento delle lotte di classe nella Russia post-rivoluzionaria. Da tale punto di vista, la Nep non è solo una politica economica, quanto piuttosto il tentativo esplicito di trovare dei punti di consolidamento dell’alleanza tra queste due classi senza le quali sarebbe stato impossibile costruire il socialismo. Contro i sostenitori di uno Stato totalmente operaio Lenin si era più volte scagliato ricordano la lezione di Marx, il quale, a propria volta, si era opposto alle tesi di Lassalle. Quest’ultimo aveva infatti sostenuto
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che di fronte alla classe operaia le altre classi sociali formavano un’unica “massa reazionaria”. In maniera opposta a questa semplificazione, Lenin approfondirà la necessità di stringere alleanze di classe sostenendo, perfino, che la stessa dittatura del proletariato altro non era se non la forma storica per eccellenza di tali alleanze.
Ma Lenin continua: “Chi ha letto il capitale di Marx e non l’ha capito, non ha capito nulla di Marx…La dittatura del proletariato è una particolare forma dell’alleanza di classe fra il proletariato, avanguardia dei lavoratori, e i numerosi strati di lavoratori non proprietari (piccola borghesia, piccoli proprietari, contadini, intellettuali, ecc.).
Se dunque egli ha qui ragione (come io credo), qualsiasi forza sociale che vuol pensare sé stessa come radicalmente alternativa, non può esimersi dall’approfondire i rapporti sociali e tutta la costruzione ideologica, intesa come rappresentazione del mondo, che da questi elementi deriva.
Si cerca di capire come i vari corpi della società vadano a collocarsi lungo la piramide sociale (utilizziamo tale figura geometrica solo per comodità espositiva e per rimandare ad un ordinamento in ogni caso gerarchizzato della formazione sociale capitalistica), non solo per effettivi livelli economici ma per autorappresentazione “ideologica” del mondo. Questo è il terreno fertile dove mettere “i semi dell’alleanza”.
Oggi dovremmo aver finalmente assimilato che il concetto di ceto medio è un coacervo di differenziali di sapere e di reddito che vanno divaricandosi tanto in basso che in alto. Si può ben dire, pertanto, che tale concetto ormai non corrisponde più al suo contenuto acquisito: il ceto medio si è sdoppiato e ulteriormente stratificato.
La parte più bassa di questo si è declassata o, se vogliamo utilizzare un’espressione un po’ consunta, si è finanche neo proletarizzata, mentre la parte più alta ha raggiunto livelli di benessere talmente elevati che i loro consumi superflui (Tv al plasma, vasche idromassaggio, auto sempre più potenti) sono l’emblema della loro stessa concezione del mondo. E tutto questo accade all’interno di un gruppo sociale che viene ancora definito con un’unica “dizione”.
Se queste sono le odierne divisioni sociali e i profili sociologici di “classe” che farcene di tutto l’armamentario vetero-comunista che legge la realtà in base a schemi di tipo ottocentesco?
In ragione del mantenimento di questo grande equivoco (sul quale l’ideologia dominante gioca le sue carte) vengono riprodotte alcune contrapposizioni del passato (destra-sinistra, comunismo-fascismo, sviluppo-antisviluppo ecc. ecc) le quali hanno il compito di sostenere altrettanti “apparati concettuali” (l’espressione è voluta perché anche una teoria può, per così dire, burocratizzarsi attraverso i suoi paradigmi pietrificati, mutando il suo statuto teorico dallo stato di scienza a quello di dogma) che sono il primo intralcio alla comprensione dei nuovi processi sociali.
4. Cerchiamo di riprendere i fili di quanto fin qui sostenuto proponendo qualche piccola novità. Nessuna Teoria si afferma semplicemente per la sua superiorità e coerenza logica. Essa deve farsi largo tra mille altre visioni del mondo, più o meno strutturate e con paradigmi che si solidificano nel tempo. Attualmente si deve
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condurre, per dirla con Althusser, una fortissima lotta di classe nella teoria, per dissodare il terreno dalle vecchie concezioni e prepararlo alla nuova semina. E’ un po’ lo stesso discorso che fa Kunh, anche se in un ambito prettamente scientifico, quando parla di “scienza normale” in quanto stabilmente fondata sui risultati raggiunti dalla scienza ufficiale, sulla base dei quali la comunità scientifica costruisce la sua prassi. Questa scienza “costituita” viene però messa in discussione dalla cosiddetta scienza “straordinaria”, caratterizzata da intuizioni di varia natura che stravolgono i precedenti schemi, tanto da innescare una lotta tra vecchi e nuovi paradigmi e tra i loro sostenitori
E’ indubbio che se una teoria non si arricchisce dei mutamenti che si verificano nella pratica sociale non può che restare monca. Non si tratta certo di inseguire un impossibile rispecchiamento della realtà, ma occorre tradurre nel pensiero gli stimoli che da questa provengono per interpretarli al meglio. E’ ciò che fece Marx prima del 1848 e che continuò a fare negli anni successivi scrutando, con lenti teoriche ben calibrate, il movimento della società capitalistica che passava sotto il suo naso.
L’attuale fase storica, ancora in piena transizione, non ci dà la possibilità di abbozzare teorie generali proprio per i motivi su esplicitati, ma si presta ad intuizioni che, in via d’ipotesi, possono agevolare la presa delle sue tendenze basilari.
E’ il caso, per il momento, di individuare una serie di punti fermi sui quali erigere, sempre in via previsionale, una griglia concettuale a maglie larghe. Uno degli elementi teorici di novità, sui quali il nostro gruppo (riunito intorno alle teorie di La Grassa) insiste ormai da tempo, è quello della “perenne lotta tra classi possidenti” (per ritornare al linguaggio engelsiano) che attraversa la formazione sociale capitalistica costituendone la spinta dinamica più sostanziale.
La teoria degli agenti strategici non mette in secondo piano la lotta tra dominanti e dominati ma le dà il peso che essa effettivamente ha nelle formazioni capitalistiche occidentali. Ciò attesta quanto difficile sia il compito che vorremmo sobbarcarci, anche perché la nostra cassetta degli attrezzi(teorici) è ormai inadeguata a spiegare il grosso dei cambiamenti avvenuti in questi anni; tuttavia, affrontare una sfida difficile è sempre meglio che continuare a se raconter des histoires, coltivando vane illusioni di rifondazione, rinascita, ecc. ecc., con la consapevolezza che niente tornerà a rivivere ergendosi dalle proprie ceneri.
Ormai dovrebbe essere lapalissiano che la storia non gioca, naturaliter, a nostro favore, i soggetti della trasformazione sociale sono da “inventare” e da “coalizzare” attraverso la costruzione di una teoria scientifica che contenga in sé una positiva “ideologia materiale”, atta a favorire dette alleanze tra classi subalterne. Né la classe operaia né il lavoratore collettivo cooperativo si sono rivelati adeguati al compito. Nel primo caso si è preferito Lassalle a Marx, confidando in una classe sociale che al massimo riusciva ad esprimere tendenze tradunionistiche senza mettere in discussione le basi capitalistiche del sistema sociale; nel secondo, la previsione marxiana, benché meno angusta della prima, si è rivelata comunque errata in quanto le forze mentali della produzione non si sono associate a quelle esecutive (il vero soggetto intermodale del passaggio dal capitalismo al comunismo per Marx) fino alla
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completa esautorazione della proprietà ormai ridotta al parassitismo finanziario. Continuiamo a tenerci ben strette alcune acquisizioni marxiane che hanno disvelato la natura del capitalismo, il suo fondarsi sull’estorsione del plusvalore tramite il pluslavoro non pagato e la formidabile demistificazione dell’uguaglianza formale nella sfera circolatoria (che è tale solo perché sono stabilite condizioni di assoluta ineguaglianza nella sfera produttiva, dove tutto appartiene al capitalista, compresa l’energia lavorativa, e non il lavoratore inteso come uomo, dei produttori).
Ma può bastare questo a scandagliare il capitalismo di oggi? Non lo crediamo, innanzitutto perché la formazione capitalistica si è profondamente trasformata fino a rendersi irriconoscibile ai vecchi schemi teorici. Oggi ce ne occorrono di nuovi che tengano conto dei mutamenti incorsi, al fine di:
ridefinire gli aspetti principali e secondari del capitalismo a partire dalle sfere sociali (politica, economica, ideologico-culturale) attraversate dai flussi conflittuali che muovono gli agenti della trasformazione dentro e fuori(?) il capitale
rileggere sulla base di questo riorientamento generale forme, funzioni e strutture della formazione dei funzionari (privati) del capitale (nonché: trasformazioni produttive, ruolo delle imprese, estensione dei mercati, forme sociali, politiche, culturali, convergenze/divergenze ideologiche di gruppi e individui ecc. ecc.)
sceverare l’articolazione delle diverse formazioni capitalistiche tanto in orizzontale (segmentazione delle classi dominanti in ambito geopolitico) che in verticale (stratificazione dei gruppi sociali all’interno di ciascuna formazione).
Se vogliamo tracciare le tendenze caratterizzanti dell’odierna struttura capitalistica dobbiamo concentrarci sulla ricorsività delle fasi mono e policentriche, poiché esse sono il precipitato evidente della lotta tra agenti strategici nella formazione globale e di quella tra gruppi dominanti nell’ambito delle formazioni particolari.
Questo è un punto di partenza valido per iniziare a ridiscutere seriamente di Teoria e per uscire dallo spazio angusto del cosiddetto “modo di produzione”, il quale non prende nella debita considerazione tali aspetti, mentre si concentra esclusivamente sul conflitto nella sfera economica (quello tra Capitale e Lavoro).
Ripescare le vetuste ideologie del passato porterà forse un po’ di passeggera consolazione ma quanto bruschi saranno ancora i risvegli dal sonno della ragione? Ricordiamo ancora le parole di Lenin: sognare è la sorte dei deboli.
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