IL CASO DELL’ILVA: come la magistratura ha smatellato una industria

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Il libro “Emilio Riva, L’uomo d’acciaio” scritto dalla moglie Giovanna Du Lac Capet, ed. Mondadori,2015, è una storia umana che concilia l’essere un grande imprenditore di Riva a quello di essere amatissima e stimabile persona. Riva non era un distruttore dell’ambiente come vuole la vulgata.

Sorvolo sulla personalità di Emilio Riva cosi come è descritto dalla moglie con un certo rimpianto dopo la sua scomparsa (30 aprile 2014) per rivolgere l’attenzione sulla districata vicenda dell’Ilva, assunta come emblema nazionale di un complicatissimo caso degenerato in un fondamentalismo ecologista che è stato in grado di sfociare in una perdita di asset strategici per l’intera siderurgia italiana e con essa la scomparsa dei residui caratteri di industria nazionale.

Tutto ha inizio il 26 luglio 2012 allorché il giudice per le indagini preliminari della procura di Taranto, Patrizia Todisco, emette una ordinanza di sequestro di sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva; per otto dirigenti tra cui Emilio Riva e suo figlio, scattano gli arresti. Scattano nel frattempo i primi blocchi stradali dei lavoratori dell’Ilva che scioperano ad oltranza per timore di perdere il lavoro: “o moriamo di malattia o moriamo di fame”, questo è lo slogan più evocato.

Il 30 luglio è la data con cui i custodi nominati dal gip si presentano allo stabilimento e partono le procedure per il sequestro volute dalla procura. Sono giorni cruciali di follia e disordine in cui sono confermati gli Emilio Riva rappresentava il male assoluto. Scrive la moglie: “Il silenzio di Emilio diventa improvvisamente merce di cui sospettare, la sua scelta di parlare pochissimo, o peggio di non parlare affatto, è giudicata come una evidente ammissione di colpa. Tutt’a un tratto, l’industriale schivo ed operoso si è trasformato in un orco che non parla, che in realtà se ne sta zitto chiuso nel suo cinismo, rintanato chissà dove, perché ha solo bisogno del buio per contare i miliardi”.

All’epoca in cui il ministro dell’ambiente Clini (2011-2013) si occupò del caso Ilva (l’acciaieria di Taranto) si varò una legge chiamata AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) istituita dall’Unione Europea, con la quale si fissava l’impatto che doveva avere un acciaieria sull’ambiente, e su quella base il permesso di produrre per Taranto a Partire dal 2014; un impegno troppo severo e costoso per la Merkel che, a suo dire, non adeguerà la siderurgia tedesca prima del 2018.

Mentre il ministro Clini mette in sicurezza l’Ilva allo scopo di vincolare i Riva al procedimento della messa in opera, la procura di Taranto ricorre alla Corte Costituzionale e agisce come se i provvedimenti di governo fossero carta straccia, facendo ricorso contro la norma Clini confermando il sequestro. La procura vuole manifestamente ignorare l’AIA che avrebbe costretto la fabbrica ad uno standard di emissioni di inquinamento di gran lunga inferiori al diretto concorrente tedesco e conseguentemente procedere ad un suo smantellamento escludendo ogni tentativo di bonifica.

L’Ilva si chiamò Italsider il 10 aprile 1965 con grande orgoglio nazionale e nessuno si occupò di questioni ambientali anche perché l’Italia era costretta ad importare l’acciaio poi prodotto con soddisfazione per l’intera collettività. L’unico neo furono gli insediamenti abitativi costruiti a ridosso del complesso industriale che erano destinati ad agevolare la vicinanza delle case al luogo del lavoro e che tanti problemi procurò negli anni a venire.

L’Italsider insieme all’acciaio produsse una montagna di debiti e per questo che lo Stato italiano decise di venderlo, fu così che nel 1995 Emilio Riva (morto nel 2014), già industriale di successo dell’acciaio tra i più importanti in Europa, la acquisisce. E dopo averla risanata decide di innovarla e renderla pienamente funzionante fino al 2012 anno in cui viene arrestato e la procura dispone il sequestro dell’area a caldo dell’Ilva.

Un accanimento che ha effetti devastanti su tutta l’area produttiva mettendo in ginocchio fornitori, clienti piccole e grandi aziende e provocando conseguenze terribili, con contratti già firmati e pronti per la consegna che la procura decide di interrompere. Sull’intero gruppo dell’Ilva caddero numerose denunce per inadempienze contrattuali, sulle aziende in attesa del materiale la rovina e la disperazione.

A ciò si aggiunse che la Corte Costituzionale sottolineò che non competeva al giudice stabilire il “grado di pericolosità”, ma solo alla legge e alla pubblica amministrazione. Il giudice si doveva pertanto adeguare a alla legge, non agire sulla base di proprie iniziative arbitrarie. A questa mossa della Corte Costituzionale, per tutta risposta, i giudici di Taranto disposero il sequestro di tutto lo stabilimento, mettendolo definitivamente in ginocchio.

GIANNI DUCHINI, marzo ‘15