Il paese che ha scoperto la scienza politica

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Il paese che ha scoperto la scienza politica sta dimostrando di aver dimenticato i suoi stessi insegnamenti alle genti del mondo. Non solo Machiavelli è stato gettato nel secchio dell’acqua sporca dai sedicenti esperti di guerra e di geopolitica ma tutta una scuola di pensiero, che aveva traghettato gli affari di Stato dall’estemporaneità al rigore teorico, in gloriose epoche passate, viene umiliata da odierni scribacchìni e depensanti.
Abbiamo già più volte riportato le parole di Machiavelli dalle sue opere più importanti che smentiscono le sciocchezze dei guerrafondai su aggrediti e aggressori e su difesa/offesa in ambito bellico. Quello che dalle nostre parti si finge ancora di non capire è la nuova configurazione dei rapporti di forza che ci pone sotto il tallone di ferro di una superpotenza ormai in crisi, in una fase di crescita di altre potenze sfidanti il vecchio e imbolsito ordine mondiale. Si blatera di libertà e democrazia per esempio con riferimento all’Ucraina ignorando i fatti reali. In primo luogo, tutti gli Stati deboli e di piccole dimensioni hanno sempre poche opzioni in un mondo in cui abitano dei giganti. Lo scrive a chiare lettere Giovanni Botero il quale evidenzia che questi non possono che finire inevitabilmente nelle maglie dei grandi e delle loro azioni per la supremazia. Chi dall’esterno conciona di indipendenza lo fa per nascondere meri cambiamenti di regime che mutano la forma della sudditanza ma non la sostanza. Possono trasformarsi certe condizioni e soprattutto l’origine delle influenze ma non si va oltre i predetti limiti dettati dalla storia e dall’epoca. Essendo concreti, quando mai potrà decidere da sé un Paese che deve la sua sopravvivenza alle armi e agli aiuti stranieri? Quando ai popoli è stato consentito di schierarsi per le alleanze internazionali? A decidere sono gruppi ristretti che calano le decisioni dall’alto sul resto della massa. In tal senso l’Ucraina sta messa peggio di ieri, sia per ingerenze che per mutilazioni territoriali.
Inoltre, Botero analizza la parabola dei grandi imperi che quando raggiungono il loro apice espansivo, non solo territoriale ma anche egemonico in senso ideologico, culturale, sociale e politico, non possono che incominciare a ridiscendere. Scrive il piemontese:

“Il valore apre la strada per mezo delle difficoltà alla grandezza, ma, giunto che vi è, resta incontanente inviluppato dalle ricchezze, snervato dalle delitie, mortificato dalle voluttà; regge a gravissime tempeste et a pericolosissime procelle per l’alto mare, ma si perde e fa naufragio in porto. Mancano allora i pensieri generosi, et i disegni eccelsi, e l’imprese onorate, et in luogo loro s’accendono la superbia, l’arroganza, l’ambitione, l’avaritia de’ magistrati, l’impertinenza della moltitudine, non si favoriscono più i capitani, ma i buffoni, non i soldati, ma i ciarlatori; non la verità, ma l’adulatione, non si stima più la virtù, ma le ricchezze; non la giustitia, ma i presenti. La simplicità cede all’inganno e la bontà alla malitia, sì che, crescendo lo Stato, caggiono all’incontro i fondamenti della sua fermezza; e sì come il ferro genera la ruggine che lo mangia, et i frutti maturi producono di se stessi i vermi che gli guastano, così gli Stati grandi producono certi vitii che li gettano a poco a poco, et alle volte anco in un tratto, a terra, o li danno in preda a nemici: e tanto basti aver detto de’ grandi.”
Sembra la perfetta descrizione della decadenza della società occidentale, ormai sprofondata nella degenerazione che distorce valori e idee che un tempo l’hanno resa potente e ora la logorano da dentro e da fuori. Si rinnegano la propria cultura, il proprio passato, le grandi opere precedenti e si respingono le contraddizioni che, nel bene e nel male, hanno condotto al punto più alto di una civiltà per non ferire nessuno e danneggiare tutti.
Infine sempre da Botero ci viene la riflessione sulla segretezza in politica. Oggi gli stolti parlano dì trasparenza e di partecipazione dei molti. Questa ipocrisia, tipica della democrazia, è il più grande danno che si sia fatto all’umanita
Della secretezza, scrive Botero, quale parte “più necessaria a chi tratta negotii d’importanza, di pace o di guerra… Questa facilita l’essecutione de’ dissegni e’l maneggio dell’imprese, che, scoverte, averebbono molti e grandi incontri; perché, sì come le mine, se si fanno occoltamente, producono effetti maravigliosi, altramente sono di danno, anziché di profitto, così i consegli de’ prencipi, mentre stanno secreti, sono pieni di efficacia e di agevolezza, ma non sì presto vengono a luce, che perdono ogni vigore e facilità, con ciò sia che o i nemici o gli emoli cercano d’impedirli o di attraversarli. Il granduca Cosmo de’ Medici, prencipe di grandissimo giudicio, stimava che la secretezza fosse un de’ capi principali del reggimento degli Stati. Ma il modo di tener le cose secrete è il non communicarle a nessuno; il che può far sicuramente quel prencipe, che ha tanta esperienza delle cose e tanto giudicio, che si può da se stesso risolvere. Tal si legge esser stato Antigono re d’Asia, che, essendo una volta dimandato da Demetrio suo figliuolo, quando volesse cavar l’essercito dagli alloggiamenti, rispose tutto turbato: «Credi forse di non dover tu solo il suono delle trombe udire?». Tal fu Metello Macedonico, di cui fu quella risposta ad uno, che’l ricercava del suo dissegno nella guerra di Spagna: «Conténtati – gli disse – di non saperlo; perché s’io pensassi, che la camicia ch’io porto indosso, sapesse quel, ch’io ho nell’animo, io lo gettarei or ora nel fuoco». Pietro di Aragona fè la medesima risposta a Martino IIII, che voleva intender da lui a che fine avesse apparecchiata una grossa armata, con la quale tolse poi a’ Francesi Sicilia.
Ma se, o il prencipe non è di tanto valore, che possa da se stesso risolversi, o il negotio ha bisogno d’essere participato, ciò si deve fare con pochi e di natura secreta: perché tra molti il secreto non può durare. E perché i consiglieri e gli ambasciatori, i secretarii, le spie, sogliono essere ministri ordinarii de’ secreti, debbonsi eleggere a cotali officii persone e per natura e per industria cupe e di molta accortezza. Giova assai la dissimulatione, nella quale Ludovico XI re di Francia collocava gran parte dell’arte del regnare. E Tiberio Cesare non si gloriava di cosa nessuna, più che dell’arte del dissimulare, nella quale egli era eccellente. E dissimulatione si chiama un mostrare di non sapere o di non curare quel che tu sai e stimi, come simulatione è un fingere e fare una cosa per un’altra. E perché non è cosa più contraria alla dissimulatione, che l’impeto dell’ira, conviene che il prencipe moderi sopra tutto questa passione in maniera tale, che non prorompa in parole, o in altri segni d’animo, o di affetto. Alfonso duca di Calabria, stando egli in Lombardia alla guerra di Ferrara, s’era più volte lasciato uscir di bocca che, ritornato a Napoli, col castigo d’alcuni rassettarebbe le cose del regno: queste parole, risaputesi, furono cagione della ribellione dell’Aquila e de’ baroni; Passerino, signor di Mantova, col minacciar Luigi Gonzaga, fu prevenuto et ammazzato col figliuolo. Francesco d’Orso da Forlì, perché si vedeva minacciare dal conte Gieronimo Riario, preoccupandolo, l’ammazzò in camera, perché le minaccie sono armi del minacciato”.