Intervista (teorica) a G. La Grassa (di F. Ravelli)

gianfranco

Vi proponiamo questa interessante intervista a Gianfranco La Grassa dove si affrontano i nodi principali della sua svolta teorica post-marxista che orienta verso una diversa interpretazione dei fenomeni sociali. La Grassa mette in luce le ragioni che lo hanno portato ad abbandonare l’elaborazione marxiana, nei suoi aspetti interpretativi, legati allo sviluppo della dinamica capitalistica (e alle sue categorizzazioni) ma, soprattutto, in quelli predittivi. Il comunismo, vaticinato dal pensatore tedesco, non si è concretizzato (così come non si è materializzata, nella base economico-sociale del capitalismo, la classe transmodale di passaggio da un modo di ri-produzione ad un altro) mentre lo stesso Sistema-Capitale è profondamente mutato nel suo nucleo centrale, dai tempi degli studi del Moro indirizzati sull’Inghilterra (avanguardia del capitalismo), tanto che La Grassa parla ormai Formazione Capitalistica Globale ma articolata in distinte formazioni particolari (aree e Paesi) in cui agiscono funzionari (privati) del Capitale in perenne tensione conflittuale. Proprio nella segmentazione orizzontale, tra fulcri (di agenti) strategici di potere sulla scacchiera mondiale, si giocano maggiormente i destini collettivi mentre le dispute nella cosiddetta stratificazione verticale (con in evidenza la “lotta di classe” tra gruppi economici per la redistribuzione della ricchezza) assumono carattere decisamente subordinato. Siamo in presenza di un cambio di paradigma che apre a palingenesi teoretiche e a ribaltamenti di prassi politica di grande rilievo. C’è chi crede di poter resistere a questi mutamenti arroccandosi dietro scienze superate che decadono a religioni. In tal maniera, approcci che furono rivoluzionari diventano decisamente reazionari ed inutili per la comprensione della situazione presente. La Grassa, invece, rifiuta i dogmi e non teme le insidie che derivano dall’abbandonare i porti sicuri per procedere nella conoscenza in mare aperto. (g.p.)

1) Domanda

Il tuo tentativo di uscire dal marxismo teorico muove dalla falsificazione dell’ipotesi marxiana, da te illustrata nel corso di decenni di studio, circa la formazione del cosiddetto lavoratore collettivo cooperativo associato. Secondo Marx la socializzazione delle forze produttive sarebbe dovuta avvenire in seguito all’esaurimento della capacità del capitalista di controllare le potenze mentali della produzione (i saperi tecnici insiti nella direzione di un’unità manifatturiera). Venendo meno questa fondamentale funzione, i capitalisti sarebbero rimasti titolari della mera proprietà giuridica delle condizioni oggettive del processo di lavoro finendo per formare una nuova aristocrazia finanziaria dedita all’amministrazione dei pacchetti azionari delle fabbriche. Il prosciugamento del potere di disporre dei mezzi di produzione da parte del capitalista (ormai solo proprietario legale) avrebbe favorito la formazione di un nuovo soggetto sociale, il lavoratore combinato dall’”ingegnere” che dirige e dall’operaio che esegue la produzione. L’”ingegnere” è il tecnico, lo specialista della produzione in seno alla fabbrica; l’operaio è il “manovale”, colui che i processi di sottomissione reale hanno incollato alla macchina. È tale soggetto, non privo di decisive differenziazioni sociali al suo interno, che Marx reputa capace, in tempi certamente più veloci rispetto a quelli che hanno condotto al modo di produzione capitalistico, di attuare la transizione socialista. A distanza di un secolo e mezzo da quella previsione scientifica abbiamo appurato che il ruolo delle imprese e il gioco della concorrenza hanno cambiato la fisionomia del capitalismo e portato al tramonto della sua fase borghese. Ciò premesso, vorrei chiederti: cosa manterresti di Marx uscendo dalla porta da lui aperta? La nuova fase del tuo lavoro teorico esalta la funzione oggettivamente determinata degli agenti storici nel conflitto politico, e tuttavia noi sappiamo che anche per Marx gli individui non sono nient’altro che l’incarnazione di categorie e rapporti trascendenti la loro singola personalità. E’ questo un aspetto del suo pensiero che dobbiamo continuare a far valere nell’approdo verso una nuova teoria sociale complessiva?

Risposta

In effetti, di Marx tengo fermo, e solo in parte tuttavia, quanto scritto assai brevemente nella prefazione a Il Capitale:

“Una parola per evitare possibili malintesi [purtroppo, l’aveva previsto, ma quanti malintesi da parte di presunti marxisti; ndr]. Non dipingo affatto in luce rosea le figure del capitalista e del proprietario fondiario [e anche dell’operaio, evidentemente; ndr]. Ma qui si tratta delle persone soltanto in quanto sono la personalizzazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi. Il mio punto di vista, che concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale, può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”.

Evidentemente questo non è valido quando si stabiliscono rapporti interpersonali poiché allora balza in piena evidenza la singolarità di ogni individualità. Non si bada certo al fatto che uno sia capitalista od operaio o appartenente ad altra categoria sociale quando si ama o si odia, si prova amicizia e simpatia o il suo contrario, ecc. Tuttavia, anche per quel che riguarda le individuali particolarità si dà, seguendo Marx, maggiore importanza alla determinazione sociale (esperienza di vita in quel dato contesto culturale e di struttura dei rapporti nella società di una specifica fase storica) piuttosto che a quella biologica, di nascita. E tanto più conta questa determinazione sociale nello stabilire la collocazione di gruppi di individui in questa o quella classe della società. Tale collocazione in classi non annulla ogni particolarità individuale, ma prevale nel discorso teorico  relativamente all’analisi dei rapporti intercorrenti tra grandi raggruppamenti sociali, presupponendo che la struttura di questi rapporti definisca per l’essenziale il carattere di quella data società in quella data fase storica.

Dove mi distacco, da ormai molto tempo da Marx? A mio avviso, egli è influenzato da una buona dose di economicismo. Certamente, tratta prevalentemente di rapporti sociali, ma di quelli di produzione perché per lui sono questi a costituire la cosiddetta base economica della società, che sarebbe, pur con tutte le attenuazioni legate alla reciproca interattività, l’elemento decisivo in relazione alle articolazioni sociali di carattere politico e ideologico-culturale, non a caso definite sempre, nei vari scritti (anche dei marxisti in generale), sovrastrutture. Ed è molto forte l’affermazione secondo cui la formazione economica della società è da assimilarsi ad un processo di storia naturale. Qui il determinismo fa ben capolino e si afferma con ben evidente vigore.

Intendiamoci bene. Quando si fa teoria, e dunque si ricorre a molteplici astrazioni, si giunge necessariamente a semplificazioni che servono a stabilire quali elementi della cosiddetta realtà sociale, di cui stiamo parlando, sono da considerarsi più rilevanti rispetto ad altri di carattere secondario, dei quali tenere conto, ma solo in via di approssimazioni ulteriori. Per Marx, la vita di una società è soprattutto caratterizzata dalla produzione dei beni atti alla vita dei suoi membri; non certamente una vita animale, bensì dotata di potenti impulsi allo sviluppo e mutamento delle strutture interrelazionali. Produrre è comunque essenziale, è appunto la base della vita sociale; e si parla appunto di una base economica.

Ho più volte ripetuto, per far capire dove vedo l’errore di Marx, che la struttura materiale del cervello – i suoi processi fisici e chimici, ecc. – è essenziale per poter pensare. Da tale struttura non derivano però i vari pensieri quali “sovrastrutture” della “base cerebrale”. E allora, dalla produzione non discende la possibilità di dedurne (quale sorta di “processo di storia naturale”) le varie strutture dei rapporti sociali. Il porre a base della realtà sociale la produzione ha poi condotto a quello che per me è l’errore principale di Marx (da me accettato per non so quanto tempo, non cerco scusanti): la divisione dei raggruppamenti sociali decisivi, le classi, in base alla proprietà (potere di disporre) o meno dei mezzi di produzione; poiché, a parte la primitiva condizione animalesca, tutta la storia relativa allo sviluppo delle forze produttive umane vede in primo piano la terra e i vari strumenti, via via perfezionatisi, tramite cui si produce.

Produrre implica di fatto trasformare dati beni in altri adatti o a essere consumati ai fini della vita in società o a essere adibiti ad un’ulteriore produzione. Ed è appunto dalla centralità della proprietà dei mezzi produttivi che derivano tutti gli altri errori, da te ricordati nella domanda, relativi al costituirsi delle basi essenziali per la trasformazione del capitalismo nel socialismo e poi comunismo. Se si abbandona la centralità della proprietà (e quindi della produzione), a mio avviso ormai insostenibile, si deve ammettere che non si sta approfondendo il pensiero marxiano, se ne produce invece un mutamento radicale. Il fatto che quest’ultimo, partendo dalla centralità da me assegnata al conflitto strategico, non sia ancora arrivato ad alcuna conclusione definitiva (com’erano il socialismo e comunismo della visione marxiana) non implica che si debba fare marcia indietro. I poveri residui marxisti sono del resto ormai arrivati al comunismo pensato in termini simili a quelli dei primi cristiani.

Marx aveva formulato una teoria sociale scientificamente assai precisa e solidamente articolata, ma che ha mostrato di essere errata. Un’altra strada va presa; e va presa senza intendimenti pseudoreligiosi, bensì con lo stesso spirito di Marx. Tuttavia, questa strada non consente di prevedere alcun comunismo. La supposta (da Marx) fine della proprietà (privata) dei mezzi produttivi conduceva all’idea dell’embrassons-nous tra tutti i produttori. Il conflitto tra strategie non consente questa “armonia” d’intenti. E tuttavia, l’assenza di conflitto è solo l’idea di morte connessa all’entropia vincente e pienamente affermatasi. La vita è differenziale di potenza, diseguaglianza delle forze in campo, serie di mosse per vincere in una lotta (non più banalmente “di classe”). Tutto questo continua a far vivere la società degli uomini e a cambiarla d’epoca in epoca. Pensare che si affermasse, con la proprietà collettiva dei mezzi produttivi, una amichevole competizione e qualche minore contrasto non antagonistico, ha in effetti un certo carattere di utopia. Il conflitto porta diseguaglianza, c’è chi va sopra e chi sotto, chi vince e chi perde, ecc. Nell’attuale fase di sviluppo di ciò che ancora chiamiamo capitalismo, finito miseramente il presunto conflitto epocale tra borghesia e proletariato, tra classe proprietaria e classe operaia (solo salariata), non siamo ancora in presenza di una nuova e stabilizzata struttura dei rapporti sociali. Il conflitto tra gruppi appare dunque appannato mentre sembra in pieno vigore quello tra Stati; semmai con il corteggio degli scontri di carattere interreligioso, interetnico, ecc.

Siamo in un’epoca “di mezzo”. Abituiamoci e pensiamo diverso, pensiamo nuovo!

2) Domanda

A tuo avviso la grandezza storica di Marx risiede nella capacità analitica di disvelare la realtà soggiacente al modo di produzione capitalistico borghese. Questo si regge sulla compresenza di un’eguaglianza formale al livello del mercato e di una diseguaglianza effettiva nel processo di riproduzione sociale, dove si confrontano coloro che hanno il potere di disporre dei mezzi di produzione e coloro che, liberamente, erogano forza-lavoro. L’acquisizione della libertà giuridico-formale non dà conto del fatto che la forza-lavoro è, sul piano logico, la prima merce capitalistica, ossia quella merce il cui valore s’identifica con il valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro stessa e, con lui, del medesimo rapporto sociale capitalistico. Ora, senza addentrarci nella teoria del valore-lavoro di Marx, nozione peraltro che egli non ha mai usato, vorrei porti una domanda sul rapporto epistemologico intercorrente tra il disvelamento marxiano e la tua riflessione sul secondo disvelamento. Contestando la centralità della proprietà privata dei mezzi di produzione, e nonostante Marx intenda il capitale come rapporto sociale, le tue ricerche muovono nella direzione della messa a punto di un modello teorico basato sul conflitto strategico, la cui logica sarebbe attiva tanto negli apparati politici quanto nella produzione economica e nella sfera ideologica. Il secondo disvelamento sfonda i limiti del primo, lo approfondisce con originalità, ne nega l’esaustività rispetto alla forma assunta dal capitale postborghese, ma non il funzionamento “regionale”. Non è possibile retrocedere dalle acquisizioni di Marx, magari rispolverando decrepite concezioni liberali o fumose idee religiose, e al contempo è necessario comprendere il tuo sforzo di fuoriuscita. Il cambio di paradigma che proponi, ti chiedo, lo si potrebbe in generale leggere, anziché come un’evoluzione per sostituzione, nei termini di una continuità per approfondimento della scoperta marxiana?

Risposta

In pratica, in quanto detto fin qui sta anche la risposta alla domanda che poni. Non si può approfondire Marx, si deve invece abbandonare il suo concetto centrale (la proprietà dei mezzi produttivi, ecc.) e spostarsi di campo. E’ ovvio che ne deriva un completo ribaltamento di tante sue categorie. E’ tutto un apparato teorico che entra in sobbollimento. Il problema è solo: dobbiamo averne paura? Ci sentiamo spersi se viene a mancare l’inutile fede nella classe operaia o nelle popolazioni del “Terzo mondo” (che accerchiano le “città capitalistiche”) o, come ormai ci si limita a predicare oggi, negli immigrati, nei flussi di disperati che possano venire a sconvolgere ogni ordine sociale di un qualsiasi tipo in quest’Europa serva degli Usa e preda di gruppi politici e ceti intellettuali allo sfascio, privi di qualsiasi idea sensata nel loro cervello bacato?

Tendenzialmente, sarei molto pessimista. Vedrei un’Europa ormai incapace di risorgere veramente, quanto meno intellettualmente e culturalmente. Abbiamo sostanzialmente il predominio dei liberali (e quindi liberisti in campo economico); coadiuvati nel loro compito di renderci servi di altre potenze da quella che ancora si chiama “sinistra”, una raccolta di deficienti e/o farabutti che non so se siano mai esistiti in altra epoca a questo livello di degradazione (probabilmente sì, ma non so quando né dove). Tuttavia, è probabile che questo pessimismo dipenda dal lungo logorio subito durante la mia vita già lunga e dalla vicinanza della “resa dei conti” (biologica, intendo dire).

Vorrei tuttavia non essere frainteso: secondo me, la teoria di Marx non è in tutto e per tutto invalidata. L’idea che il profitto capitalistico non sia altro che una forma storica del fenomeno più generale per cui si produce più di quanto è necessario a mantenere l’umanità – e con livelli di vita via via crescenti e importanti sviluppi e trasformazioni delle strutture sociali – è tutt’altro che peregrina. A me sembra ancor oggi peggiore l’idea neoclassica che il profitto dipenda dall’abilità dell’imprenditore nel combinare i fattori produttivi o, come pensava Schumpeter, dalla sua capacità innovativa. Questa abilità combinatrice e questa attitudine all’innovazione possono spiegare il maggiore o minore successo (o anche il fallimento) di alcuni capitalisti rispetto ad altri; possono spiegare il fatto che alcuni guadagnano di più, che altri addirittura perdono i loro capitali, ecc.; non danno invece ragione del fatto che, nel complesso, si ha un accrescimento della produzione.

Di conseguenza, è accettabile l’idea del pluslavoro/plusprodotto/plusvalore di cui si appropriano alcuni gruppi sociali rispetto ad altri. E dunque anche quella di una lotta intorno all’appropriazione di questo “di più”. Si è invece rivelata errata la convinzione che simile lotta abbia significato ed esiti di trasformazione rivoluzionaria della forma fondamentale dei rapporti sociali da un’epoca storica ad un’altra. E’ una lotta semplicemente redistributiva di quanto prodotto; più o meno acuta, ma non con effetti di rivoluzionamento di quella data società. In definitiva, si è dimostrata una gigantesca illusione quella della “rivoluzione proletaria” che avrebbe rovesciato il capitalismo, avviandolo verso forme sociali dette comunistiche. Oggi, continuare a coltivare siffatta illusione è assai più che una perversione; o si è decisamente mentecatti o si è dei colossali mentitori e imbroglioni, al limite dei veri criminali, da neutralizzare.

Per quanto riguarda il problema delle maggiori trasformazioni dette rivoluzionarie, c’è veramente tutto da rivedere, abbandonando intanto l’idea della “classe operaia” come fattore decisivo di un futuro mutamento sociale, pensato quale fine della “preistoria” e inizio della vera “storia” dell’umanità. Idea aberrante. Tale mutamento, se si fosse realizzato, sarebbe semmai stato la fine della storia; per nostra fortuna, questa continuerà esattamente come si è svolta finora con continui conflitti che conducono a risultati non previsti minimamente da nessun “profeta”. La storia prosegue la sua corsa e condurrà sempre all’IMPREVISTO, ci sorprenderà incessantemente e ci spiazzerà, costringendoci a rimettere drasticamente in discussione ogni nostra precedente supposizione, la quale si rivelerà pura chimera, una più o meno piacevole fantasia.

Possiamo fare (azzardare) delle previsioni? Certamente, anzi dobbiamo così procedere, altrimenti ci fermiamo e attendiamo la morte. Tuttavia, dobbiamo essere pronti a riconoscere che la vita è sempre sorprendente nel suo “presentarci il conto”. E’ decisamente il suo bello; E’ IL SUO ESSERE APPUNTO LA VITA! Mi dispiace dirlo: i comunisti, con tutta la loro mania di avere la “storia dalla loro parte”, di avere la garanzia che tutto sarebbe andato come da loro profetizzato, sono di fatto stati portatori di morte, di annientamento di ogni impulso e speranza per il futuro. E quindi hanno perso perché hanno creato un mondo di nebbia e grigiore, dove nulla poteva irrompere innescando l’entusiasmo e la curiosità del nuovo.

3) Domanda

Nell’Introduzione del 1857 Marx espone il metodo dell’economia politica. Precisando che la risalita dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso, egli intende l’oggettività come sintesi di determinazioni (o unità del molteplice) che appare nel pensiero come risultato e non come punto di partenza. Per Marx sono le determinazioni astratte ad avere la capacità di condurre alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero, anche se qualunque categoria economica, per esempio il valore di scambio, presuppone pur sempre un insieme vivente e concreto già dato. Il discorso sarebbe lungo, ma il punto che qui interessa toccare è uno solo, ovverossia l’abbandono, nei fondamenti epistemologici del conflitto strategico, della pretesa marxiana di «riprodurre il concreto nel cammino del pensiero». A tuo giudizio, del resto, noi non riproduciamo il concreto, ma ce lo possiamo soltanto rappresentare tramite campi di stabilità costruiti ad hoc per “fermare” il flusso incessante e inconoscibile della realtà. Questa fugge di continuo, la sua condizione è l’assenza e la sua regola lo squilibrio. Se per l’economia politica classica le determinazioni astratte erano la condizione di possibilità della conoscenza che dal semplice (lavoro, valore di scambio etc.) risaliva al complesso (lo scambio fra le nazioni e il mercato mondiale), la tua riflessione ha come “punto d’inizio” una coerenza ipotetica che si deve essere pronti, pena il naufragio nei vortici del reale, a rivedere o persino a cambiare. E’ in virtù di tali ipotesi, dunque, che si può giungere a una qualche parziale conoscenza e a impostare la lotta politica. Ti chiedo, infine: se quello qui abbozzato fosse effettivamente il modus operandi degli agenti storici nel conflitto strategico, dovremmo allora concludere che pretendere di ricostruire la realtà nel pensiero sarebbe d’intralcio a una compiuta lotta per l’egemonia?

Risposta

In effetti, sono sempre rimasto dubbioso intorno alla frase marxiana (Introduzione del 1857): “le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero”. Stiamo attenti a non confondere, identificando, il concreto astratto (e non sembri un bisticcio di parole) con il concreto reale, empirico.

Quando Marx ad es. pensa il valore quale quantità di lavoro (energia lavorativa in astratto, senza specificazioni dell’oggetto d’uso alla cui produzione è indirizzata) spesa per questa produzione – e dunque, in un certo senso (sempre astratto), incorporata nell’oggetto prodotto – sta immaginando una situazione concreta soltanto, appunto, mediante il pensiero; una situazione, dunque, creata per astrazione. Non a caso, affinché il lavoro speso rappresenti il valore, viene supposta la più perfetta libertà di scambio e la più perfetta eguaglianza degli scambisti. Detta libertà è sovente intralciata da “attriti” più o meno intensi, l’eguaglianza è sempre messa in discussione nella lotta che gli scambisti svolgono tra loro per ottenere un valore maggiore: il venditore si batte per prezzi più alti, il compratore per il contrario. Alla fine si stabilisce un prezzo, ma non è detto che questo corrisponda al valore quale quantità di lavoro erogata; a volte sta al di sopra, a volte al di sotto.  Il valore indica il punto da considerare quale attrattore del prezzo, pur se questo difficilmente (proprio per caso semmai) è esattamente eguale al valore.

In definitiva, il concreto di pensiero (il concreto astratto) non è mai l’effettivo concreto empirico, reale. Tuttavia, si suppone che, pur se in modo assai approssimato – e con eliminazione degli attriti, degli squilibri sempre in azione – il concreto pensato debba avvicinarsi alla corretta rappresentazione della realtà. In definitiva, quest’ultima è pensata come conoscibile, come ricostruibile, per sommi capi, nella sua reale dinamica. E’ proprio su questo punto che ho oggi molti dubbi. Mi convince di più l’ipotesi che la realtà sia inconoscibile, che sia probabilmente un flusso continuo, caotico e squilibrante, che tutto – persone e cose – travolge e trascina nel suo scorrere. Ed è qui che, come dici, penso ai campi di stabilità in quanto nostre creazioni teoriche per attribuire ordine alla “realtà” (tra virgolette questa volta) in modo da poter agire senza farsi travolgere dal processo reale (senza virgolette, ma solo supposto e mai accertabile per via di prove inconfutabili).

Possiamo parlare di realismo quando le teorie formulate – ed eventualmente gli apparati organizzati, strutturati, creati in seguito alle stesse – manifestano un certo successo nella loro applicazione, ci fanno conseguire risultati che spesso ci sembrano esattamente quelli perseguiti. Inoltre, si dimostrano sufficientemente esatte certe previsioni effettuate in base a simili teorie. Il grave è che solitamente un simile realismo viene subito eretto a vera conoscenza della realtà, che viene così cristallizzata in quella data rappresentazione. La teoria, che sempre deve fondarsi su ipotesi costantemente rivedibili (o anche abbandonabili se occorre), viene allora ossificata in ideologie con magari effetti di trascinamento (di massa) per dati periodi di tempo. Alla fine – almeno per quelle ideologie che non promettono altre vite, l’eternità, ecc. – tutto viene a cadere con gravi ritardi di comprensione, con fenomeni di squilibrio che si afferma in modo sempre più virulento, ecc.

Dobbiamo essere pronti all’abbandono di certe teorie, al riconoscimento delle loro gravissime e invalidanti degenerazioni ideologiche, dell’insuccesso crescente di ogni nostra previsione e azione. Difficilmente ci si riesce e tutta l’impalcatura creata da una determinata teoria alla fine degrada, produce miasmi velenosi e crolla trascinandosi dietro code di pensieri e immagini sempre più degenerate e dense di effetti sociali deleteri. Questo è accaduto al povero pensiero di Marx divenuto oggi privo di una qualsiasi valenza scientifica e ridotto a predicazione semireligiosa di bontà, giustizia, tolleranza, ecc. E il pensiero comunista ha seguito lo stesso iter, divenendo fattore di disfacimento culturale e sociale. Occorre una più che radicale bonifica del marxismo e del comunismo. Ma fa parte di questa bonifica l’effettiva ricostruzione del pensiero marxiano nelle sue ipotesi scientifiche di fondo. Certamente, ne scopriremo l’errore, anche in merito alla previsione del movimento verso il socialismo e comunismo. Tuttavia, la scoperta dell’errore può essere feconda di nuove ricerche, di più sofisticate ipotesi ricostruttive di una diversa teoria dell’attuale società. Questa è la scienza: l’errore non paralizza e anzi stimola il ripensamento e lo rende ancora più ampio e approfondito.

In definitiva, per rispondere alla domanda finale della terza domanda, negativa è la convinzione che il nostro pensiero conosca la realtà, la riproduca nella sua concretezza empirica e in ogni particolarità di quest’ultima. Dobbiamo però agire; e per agire è indispensabile pensare una “realtà”. A mio avviso, essa va costruita secondo l’ipotesi che siamo immersi in essa e tuttavia distinti da essa, trascinati nei suoi vortici e cionondimeno capaci di darci stabilità, equilibrio, necessari alla nostra entrata in azione. Dopo di che, è bene convincersi della transitorietà di ogni nostra supposta conoscenza, dei nostri eventuali successi che alla fine mostreranno la corda, ponendoci di fronte ad altre scelte improrogabili. E oggi è improrogabile, per chi è stato marxista e comunista, conoscere il vero significato di tali termini e capire che quella storia è finita. Senza tuttavia alcuna concessione a teorie e ideologie ancora più vecchie e cadenti: niente liberalesimo, niente fascismo, niente pensiero cristiano, e via dicendo. Sto evidentemente parlando dal punto di vista dell’analisi della società, non per la speranza di un’altra vita, soprattutto eterna, in qualche dove che non fa comunque parte del bagaglio teorico dello scienziato.

4) Domanda

In quest’ultimo scambio mi permetterai di andare un po’ “a ruota libera”.

Il tuo libro dell’anno scorso, Navigazione a vista, andrebbe lungamente meditato per comprendere a fondo il cambiamento di paradigma che la nostra tradizione teorica – il marxismo – dovrebbe intraprendere. Dirigersi verso i nuovi moli ai quali il sottotitolo fa riferimento è stimolante e necessario, a patto però che ciascuno giunga – con le forze di cui dispone – alla comprensione dell’effettivo avvenuto disuso del porto dal quale intendiamo salpare. A una tale compiuta comprensione molti devono ancora arrivare, e chi scrive è tra loro (già Antonio Labriola, d’altronde, ricordava che «superare è aver compreso»).

Detto questo a me le urgenze sembrano due e i problemi almeno quattro.

Comincio dalle prime: a) il conseguimento della legge scientifica della forma capitalistica di tipo manageriale, che deve essere del medesimo livello d’astrazione di quella marxiana. Quest’ultima ha come oggetto il modo di produzione capitalistico classico (o borghese) e si basa sull’ipotesi, da te paragonata al galileiano studio del moto senza attriti, secondo cui i possessori di merci sono tutti di pari forza e in uno stato di perfetto equilibrio e di totale eguaglianza giuridica; b) la ricostruzione analitica dei modi in cui il conflitto strategico precipita nelle formazioni sociali particolari. Chi ti accusa di aver abbracciato la geopolitica a mio avviso non comprende l’urgenza di sviluppare questo punto.

Provo a riassumere anche i problemi, ciascuno dei quali, naturalmente, meriterebbe un’ampia trattazione: 1) il ritardo con cui arriveremo alla messa a fuoco della suddetta legge (ahinoi è ormai un secolo che balbettiamo); 2) l’entrata in crisi, lenta ma in parte già manifesta, di quella stessa tipologia capitalistica di cui ignoriamo la “forma di cellula”; 3) l’impossibilità di riferirsi al movimento operaio come soggetto storico capace della transizione sociale (una rivoluzione c’è stata, ma tra un capitalismo e l’altro. Dovremmo allora concludere che i “veri” rivoluzionari sono stati gli “strateghi del capitale”?; 4) la difficoltà «di giungere alla intelligenza teorica del movimento storico nel suo insieme». Nel Manifesto della nostra tradizione c’è scritto che una parte degli ideologi borghesi è passata al proletariato. Perché oggi gli intellettuali, salvo poche eccezioni, sono così meschini? Evidentemente perché l’assetto sociale in cui operano, benché declinante, è ancora quello di gran lunga nel quale essi possono svolgere una funzione importante. Chi vorrà opporsi a questo ordine di cose dovrà attendere ben altri eventi di quelli avutisi negli ultimi tempi. Scoppierà allora la lotta, anche ideologica, utile per decretare chi realmente sarà giunto alla intelligenza di cui sopra.

Risposta

Dovrò anch’io dunque andare a ruota libera. Sul cambiamento di paradigma, mi sembra che sia inutile spendere altre parole. Ed è pure superfluo insistere sul fatto che il cambio va accompagnato da una sempre più accurata ricostruzione del pensiero di Marx. E anche sul tipo di astrazione utilizzato da Marx nella cosiddetta “riproduzione del concreto” ho già esplicitato il mio pensiero. Resta il problema dell’oggettività o intersoggettività sottese alla teoria formulata.

Secondo me, l’oggettività è assicurata nell’impostazione marxiana dai processi storici che conducono a successive forme dei rapporti sociali, centrati come già rilevato sulla proprietà (potere di disposizione) o non proprietà dei mezzi di produzione. A differenza di quanto pensava, ad esempio, Althusser, le classi sociali in lotta (fondamentalmente borghesia e proletariato nell’ultima formazione sociale conosciuta, quella capitalistica) entrano in campo già formate: la borghesia proprietaria dei mezzi produttivi e il proletariato o classe operaia solo in possesso della forza lavoro. Se avesse avuto ragione il filosofo francese, contrariamente a quanto da lui pensato in merito alla “lotta di classe” quale demiurgo della storia, il processo sarebbe stato sostanziato appunto dal conflitto tra “soggetti” tramite cui egli pensava si sarebbero formate le classi in lotta (e perché proprio borghesia e proletariato?). Saremmo insomma stati in piena intersoggettività; le classi emergevano, “precipitando” nei due schieramenti contrapposti, dallo scontro in atto nella società che, evidentemente, in un primo momento sarebbe stata un imprecisato amalgama di soggettività differenti, infine coagulatesi nelle due classi antagoniste appunto mediante la “lotta”.

Se invece si pone all’inizio la proprietà o meno dei mezzi produttivi, abbiamo appunto un elemento – indipendente dalla lotta tra i due soggetti – che li fissa con precisa caratterizzazione e li rende antagonisti. La lotta tra i due ne consegue ineluttabilmente; e ne consegue pure, altrettanto ineluttabilmente, la vittoria del proletariato, la fine del capitalismo e il passaggio alla nuova forma di società. Nessuna casualità è ammessa: l’oggettività del processo è assicurata, così come l’avvento del socialismo e poi comunismo. Questo è il succo della teoria marxiana.

Indubbiamente, le mie ipotesi relative al conflitto strategico ricadono nell’intersoggettività; e non fissano in anticipo quali soggettività entreranno nello scontro più acuto e foriero di mutamenti sociali. Tanto meno si assicura che tali mutamenti abbiano qualcosa a che vedere con le speranze, dimostratesi largamente illusorie, circa lo sbocco comunistico (o anche soltanto socialistico). Per intanto liberiamoci di queste illusioni, che hanno negativamente caratterizzato i processi sviluppatisi dopo la Rivoluzione d’Ottobre – fantasticata quale rivoluzione proletaria e inizio della transizione al socialismo – e finiti miseramente, e ingloriosamente, nel 1989 (crollo del sedicente campo socialista dell’est europeo) e 1991 (crollo dell’Urss).

Ho ultimamente cercato – si veda soprattutto il mio libretto Tarzan vs Robinson (Piazza editore) – di dare un fondamento in qualche modo oggettivo a detto conflitto (tra le strategie di più soggetti in lotta per la supremazia nella società). Preferirei non parlarne qui perché si tratta di un discorso abbastanza lungo e che va senz’altro sviluppato a parte. Proprio per questo, non mi sento di iniziare qui una discussione in merito a quei quattro punti che tu indichi alla fine della tua intervista. Da lì semmai inizia un nuovo discorso. Dico solo che il ceto intellettuale odierno, per la sua massima parte, è ormai ad un livello di degrado che non consente alcuna possibilità di rinascita. Si tratta delle ulteriori degenerazioni di un movimento fortemente involutivo qual è stato il ’68. D’altronde, dopo essere stato, molto timidamente del resto, contrastato dalla parte più decrepita dei ceti dominanti europei, tale movimento ha goduto del massimo appoggio da parte di questi ultimi perché di fatto serve mirabilmente a quel disfacimento culturale che facilita il nostro asservimento agli Stati Uniti. Questo ceto intellettuale, e ancor prima i ceti dominanti europei servi, dovranno essere integralmente eliminati; e nel senso letterale del termine. Se non si riuscirà in quest’obiettivo principe, inutile rimuginare sulla ripresa di un pensiero critico che sappia fare i conti con i fallimenti dei cent’anni passati.

E con simile conclusione non proprio speranzosa termino il mio dire.