LA JIHAD AL SERVIZIO DEI DIRITTI UMANI


 

Il terrorismo umanitario

 

A breve ricorrerà il 10° anniversario degli attentati dell’11 Settembre 2001 (giorno della memoria 2.0, alla faccia del golpe cileno) che furono il casus belli della “guerra al terrorismo”.

Tralasciando ogni lecito dubbio e perplessità in merito a quell’evento, ciò che ci preme analizzare più da vicino non è tanto il ruolo del terrorismo islamico come spauracchio dell’Occidente e dei diritti umani, bensì come suo segreto alleato e umile servitore.

Ora che, dopo la vera o presunta morte di Osama Bin Laden, giunge ufficialmente al termine questa decade di lotta al terrorismo, torna in auge sfruttare le frange di terroristi per smerciare il surplus  di democrazia e diritti umani lungo le coste mediterranee del Nord Africa e del Vicino Oriente.

 

Si ripropone quindi uno scenario visto in primis nell’Afghanistan del ’79, dove i mujaheddin furono lautamente finanziati ed addestrati dalla CIA per rovesciare la legittima Repubblica Democratica dell’Afghanistan, che di fronte all’aggressività dei fondamentalisti, supportati ovviamente anche dai paesi islamici, fu costretta a chiedere l’intervento sovietico. Fu proprio in tale situazione che nacque l’organizzazione terroristica di Al-Qaeda, al cui capo si affermerà un mujaheddin saudita ai più noto come Osama Bin Laden.

Dieci anni dopo l’esercito sovietico lasciò l’Afghanistan e nel ’92 anche la Repubblica Democratica Afghana crollò. Salirono al potere i talebani che istituirono la Sharia, la legge islamica, finché vennero pian piano diseredati e , per la loro “disobbedienza”,  tacciati come “nemici della democrazia” e quindi, strumentalizzando ignobilmente il sillogismo aristotelico, nemici dell’Occidente. Per Occidente s’intende una gerarchia piramidale con a capo la guida spiritual-temporale degli USA, seconda la guelfa coscienza dell’élite statunitense.

 

Proprio in questo lasso di tempo si colloca lo smembramento della Repubblica Federale Jugoslava.

Sfruttando e acutizzando gli storici problemi etnico-religiosi dei Balcani, l’Occidente si schierò nuovamente a fianco dei musulmani, stavolta albanesi, che, tramite un’altra organizzazione terroristica denominata UCK (passata tristemente alla storia come un Esercito di Liberazione del Kosovo), erano chiamati a fare le veci dell’indipendenza e dei diritti umani, contro gli assassini antidemocratici serbi, capeggiati da Slobodan Milosevic, legittimo presidente della Repubblica Serba dall’89 al ’97 e presidente della Repubblica Federale Jugoslava dal 1997 al 2000.

La propaganda umanitaria non perse tempo nell’additare Milosevic come “reincarnazione di Hitler”, reo in realtà di non voler svendere la propria patria ai pescecani imperialisti e maldisposto verso le formule neo-liberiste a quel tempo “trionfanti” nelle ex-repubbliche socialiste. Dimenticando o tacendo che Hitler sarebbe stato in caso più ideologicamente vicino agli albanesi dell’UCK, per la comune ambizione di una “Grande Albania”, oltre i confini attuali ed etnicamente purificata. Sia però ben inteso che la “reductio ad hitlerum” serve solo per giustificare soprusi sottaciuti, oltre ad ostentare orgogliosa pochezza mentale dei lacchè “democretini”.

D’altro canto, invece, i “ribelli” albanesi, zii di quelli libici, si servirono dell’aiuto dei loro amici di Al-Qaeda per portare avanti la guerra santa dei diritti umani, con l’immancabile beneplacito dei servizi segreti americani, inglesi e tedeschi (quale palcoscenico migliore, per la Germania, dei Balcani per ripresentarsi come potenza europea attiva e influente dopo la Wende, ossia la riunificazione?).

Da menzionare anche il coinvolgimento, in favore dei secessionisti, degli stati confessionali, islamici (Afghanistan, Iran, Pakistan ecc…) e cattolici (Città del Vaticano).

La questione venne chiusa nel 1999 con i bombardamenti di Belgrado da parte della NATO e nel 2001 con la cattura e successiva estradizione di Milosevic al Tribunale Penale dell’Aja, imputato di “crimini contro l’umanità” da parte dei vincitori aggressori, ai quali tenne tenacemente testa fino alla sua morte in carcere nel 2006, in circostanze misteriose (tant’è che taluni affermano che sia stato avvelenato). La ciliegina sulla torta arrivò due anni dopo la morte di Milosevic: il 17 febbraio 2008 il Kosovo, baluardo dei diritti degli spacciatori mafiosi, nonché base militare USA a cielo aperto, dichiarò la propria indipendenza, o meglio secessione illegale.

 

Adesso la “comunità internazionale”, leggasi Occidente più vari “Stati Cagna”, vorrebbe riproporre l’ennesimo tentativo di imbastire un processo farsa per “crimini contro l’umanità” a Muammar Gheddafi, nel caso in cui volessero farlo catturare vivo e non finisse (anche volontariamente) nelle mani dei tagliagole di Bengasi. Perchè, di fatto, come svelato in questi giorni, l’alternativa a Gheddafi potrebbe essere una banda di criminali e terroristi, di matrice islamica, manovrati dai più grandi mascalzoni della terra, che, grazie alla posizione occupata, vengono incoronati come magnanimi dispensatori di diritti umani dai sacerdoti dell’informazione nella cattedrale della Santa Democratica Imbecillità.

In queste guerre (in)civili, spacciate per rivoluzioni, gli spettri di Al-Qaeda e dei salafiti in particolar modo, si sono manifestati con prepotenza. Addirittura il comandante militare dei ribelli a Tripoli è un certo Abdelhakim Belhaj, un jihadista veterano dell’Afghanistan, legato ad Al-Qaeda, insomma un ribelle NATO.

 

Prospettive islamiche: fra realpolitik e anti-imperialismo

 

Resuscitato il “modello Brzezinski”, proprio di ogni degna amministrazione democratica, si è rivelata, ai nostri occhi infedeli, la Santa Trinità Umanitaria (Carter, Clinton, Obama) che esporta santini e offre conversione agli paesi eretici.

La prossima conversione, già in atto, al verbo occidentale, è per la Siria.

Ovviamente l’ombra del fondamentalismo islamico aleggia anche a Damasco, non solo a Tripoli. A patrocinare i ribelli siriani ci sono i soliti noti, dove però spicca, dopo la rottura di ogni rapporto commerciale e militare, la coppia Ankara-Tel Aviv, divisa in terra palestinese, unita, nella stessa crociata, in quella siriana. Turchia e Israele si giocano comunque l’egemonia regionale, ma chissà se sua maestà atlantica proteggerà sempre i sionisti come sui vassalli, soprattutto a lungo termine. Sappiamo, infatti, che l’ago della bilancia imperialista non ha fissa dimora.

 

La situazione non è certo delle più rosee per Bashar Al-Asad, che adesso dovrà gestire l’embargo sulle esportazioni petrolifere verso l’Unione Europea, che contano il 95% del totale. Probabilmente saranno reindirizzate verso Est, da dove proviene la speranza, vedremo se vana o reale, targata Russia e Cina, di evitare l’intervento militare della “comunità internazionale”.

Altra pedina importante nella questione siriana è l’alleato Iran, che, sebbene non abbia chiesto ad Al-Asad di farsi da parte (per lo meno non ancora), ha esortato il presidente siriano ad “ascoltare il suo popolo” e a “concedere riforme”. Richieste che, per quanto possano essere legittime e in “buona fede”, suonano sempre ambigue di questi tempi, soprattutto dopo la dichiarazione iraniana di aver aiutato i ribelli libici (nonostante fonti dell’intelligence francese abbiano anche parlato di armi e istruttori mandati a Gheddafi da Teheran).

Gli iraniani, però, sanno che la Siria è un alleato fondamentale ed anche un canale geopolitico che conduce al Mediterraneo e tiene separate, geograficamente e non solo, Turchia e Israele. Infatti, per evitare ogni rottura diplomatica, e non solo, con la Siria, hanno accusato USA e Israele di fomentare le rivolte e non hanno condannato il governo alleato.

Che, a parte nel caso siriano, l’Iran veda di buon occhio la “primavera araba” non consiste in un tradimento del “fronte anti-atlantista”, poichè, ahinoi, esiste, per ora, solo nei sogni.

La ragion di stato è più imponente di qualsiasi anti-imperialismo. L’Iran ha da curare in primis i suoi interessi nazionali, così come ogni altro Stato del mondo. Se poi finora i loro interessi sono risultati contrastanti con quelli americani, questo non vuol dire che debba essere sempre e in ogni situazione così.

Non è deterministicamente dato che i movimenti islamici di tutto il mondo siano in ogni luogo, e d’ora in avanti, al servizio dell’Occidente. Non dimentichiamoci poi che in questo momento esistono ancora Hamas e Hezbollah, da distinguere decisamente dai salafiti (i quali tra l’altro accusati di essere stati gli esecutori dell’assassinio dell’attivista italiano Vittorio Arrigoni, sostenitore della causa palestinese). Altri movimenti integralisti rilevanti da notificare sono quelli che minacciano Russia e Cina: in Cecenia, Daghestan e nella regione autonoma cinese dello Xinjiang, dove recentemente si è svolta la Fiera Cina-Eurasia, a cui ha preso parte anche il presidente del Pakistan, Zardari, assicurando la collaborazione del paese islamico nella lotta contro il separatismo degli uiguri.

 

Ritornando da dove siamo partiti, alla decennale lotta all’integralismo islamico, potrebbe sembrare che, dopo i recenti accadimenti ci si avvii ad una fase di “guerre col terrorismo islamico” (o meglio una tattica parallela con il terrorismo, che possa sfruttare, a seconda dei casi, il suo utilizzo o la sua persecuzione da parte della “comunità internazionale”).

Proprio in virtù di quello che è stato appena detto, che comunque è risaputo, sebbene facilmente trascurato, sarebbe più verosimile vedere i movimenti islamici radicali come un’arma a doppio taglio che può ferire anche chi la usa. Infine, potremmo ipotizzare in futuro un “afghanizzazione” della Libia o di qualche altro Stato “primaverile”, con l’incognita islamica che potrebbe, a lungo andare, disobbedire ai nuovi padroni. Quando i figli crescono è più facile che si allontanino dai  propri genitori, ma bisogna vedere se e come avverrà stavolta il ritorno del figliol prodigo.