LA LEZIONE DI MAX WEBER: “ LA POLITICA COME PROFESSIONE”


Nei primi del Novecento aleggiava una convinzione profonda, prima sconosciuta nel campo delle scienze, e cioè la specializzazione. Un tarlo che arrovellava chiunque approdasse allo studio scientifico si poneva in modo improcrastinabile, l’arduo compito di una produzione scientifica: uno specialismo più legato al destino della propria anima, in un vissuto di esperienza scientifica, come premessa ad una dimostrazione. L’ispirazione rappresentava l’aspetto trainante della passione scientifica, l’idea giusta per produrre qualcosa, anche in assenza di scopo e di verifica scientifica; un tormento dell’esperienza (scientifica) come vissuto della vita, quasi un modo di vivere più attinente alla personalità, piuttosto che al duro lavoro della ricerca scientifica. E tutto questo può significare “personalità scientifica?” si chiedeva Max Weber nel suo illuminante testo “Scienza come Professione e Politica come Professione,” in uno degli ultimi interventi-saggio di un certo rilievo, un testamento (poco prima della sua morte, nel 1920) in forma di sintesi di una lunga elaborazione e ricerca espressa nella sua opera maggiore “ Economia e Società,” con particolare riguardo alla scienza della politica, con un piglio evocativo di uno scienziato sociale che sta descrivendo una degenerazione partitica-politica, prossima a venire.
Uno legame unisce i due saggi “Scienza come professione” e “Politica come professione,” nell’intima vocazione del lavoro intellettuale come professione, e nel considerare la ricerca scientifica rivolta all’atteggiamento ed al “culto scientifico,” nient’altro che una disperata ricerca di dimostrare qualcosa, in non già detto da qualcuno altro specialista. Ma, in tutti i campi, compreso quello scientifico, “solo chi serve puramente il proprio oggetto (Sache)” ha una sua personalità; l’unica differenza della scienza rispetto all’arte è che la prima (scienza) è inserita nel progresso, mentre la seconda (arte) può dirsi “interamente compiuta” in quanto non invecchia mai; l’individuo può attribuirvi personalmente diverso valore, ed un opera d’arte in quanto tale, non può essere superata da nessun altra; al contrario, nel destino delle opere scientifiche sta inscritto un suo superamento, non ci può essere progresso senza “sperare che altri si spingeranno più avanti di noi,” e con ciò giungere al significato più profondo della scienza.
Un significato che può orientare l’atteggiamento pratico (azione) dell’uomo di scienza nell’idea che “ il progresso scientifico è una frazione, e senza dubbio la più importante, di quel processo di intellettualizzazione al quale andiamo soggetti da secoli… L’attività scientifica è inserita nel corso del progresso, e viceversa, nessun progresso si attua nel corso dell’arte” Quindi lo scopo dell’attività scientifica è quello di invecchiare, di essere superata nel progresso e con ciò, orientare l’attività pratica mediante previsioni fornite dall’esperienza (scientifica) nell’opera di razionalizzazione (intellettualistica) che diventa un processo di “disincantamento” dalle potenze della magia, che dominano il mondo. Il “Progresso” in quanto tale ha un significato transeunte e mai definitivo, ed è posto al di là della “tecnica” per approdare alla “scienza come professione,” nel significato più profondo, in chi si dedica alla scienza come “vocazione;” un percorso che si è potuto realizzare partendo dalla formazione del “concetto” di Socrate (mezzo della conoscenza), per arrivare “all’esperimento razionale ”dell’Uomo del Rinascimento, prima di approdare alla “scienza” di Galilei; e da qui ripartire, dall’idea che il “presupposto di qualsiasi lavoro scientifico sta sempre nella validità delle regole della logica, e del metodo.” Fare la scienza come professione significa fornire alla “professione” un valore oggettivo, rendersi conto del significato ultimo del suo operare al di fuori degli afflati mistici e dei sensi profetici che possono alimentare talvolta in modo impetuoso, in certi periodi storici, le grandi comunità.
Con questa premessa, l’impressione che si ricava dalla lettura del testo, nella seconda parte del saggio sul politico come professione, è a tinte forti, sembrerebbe un affresco d’epoca esteso fino ai giorni nostri; tutto quello che viene descritto è calzante e stringente come un presagio su quello che può succedere (l’avvento del nazismo) fin dal momento della costituzione della Repubblica di Weimar; Weber contribuì alla stesura della sua Costituzione, dissociandosi subito dopo dal partito Democratico e di cui disapprovava le concessioni fatte al programma di “Socializzazione” (da leggere Statalizzazione) dei socialdemocratici ( nel 1920). Il saggio è una lezione di Scienza
della politica, senza tuttavia entrare direttamente sui programmi politici della nascente repubblica di Weimar; anche se il contesto storico che si descrive, sulla incipiente degenerazione democrazia parlamentare Occidentale nella sua conformazione statalista, è di uno spessore tale che non può non richiamare alla memoria, le condizioni delle democrazie occidentali dei giorni nostri.
La “Politica come Professione” è una sintesi del lavoro di ricerca dell’autore sulle associazioni politiche, nel loro lungo percorso iniziato nel secolo Diciannovesimo, e concluso (già dal primo Ventennio del secolo scorso) nelle forme più compiute di Associazioni-Partitico-Stataliste, in quanto rapporto storico di un moderno dominio sociale dello Stato, nella nuova legalità (politica) dei partiti nei moderni Stati-Costituzionali. L’autore nella sua esposizione si richiama a cause suggestive, anche se in realtà fondative, sulla costituzione dello Stato Moderno, derivanti da motivazioni “intrinseche” e da “mezzi esteriori; “ le “motivazioni intrinseche;” oltre all’autorità data dalla “tradizione,” due soprattutto sono gli elementi su cui poggia la predetta dominazione; anzitutto il carisma, nella natura straordinaria del capo, con la dedizione assoluta personale, “dal condottiero eletto in guerra o dal sovrano plebiscitario, dal grande demagogo e dal capo di un partito politico;” su tale carisma si incardina a sua volta quale “mezzo esteriore,” la forza della legalità nella dominazione esercitata dal “moderno funzionario statale o da tutti i titolari (del poter statale) che si rassomigliano.” Il funzionario statale rappresenta la forma storica assunta nella professione, impersonata (dapprima) nel capo politico “ nel libero < demagogo > sorto sul terreno dello “Stato cittadino” (italiano) proprio soltanto dell’Occidente e soprattutto della civiltà < Mediterranea >, ed in seguito, luogo del < Capopartito > parlamentare, cresciuto sul terreno dello Stato Costituzionale che solo in Occidente ha messo saldi radici;” tale dominio può essere esercitato soltanto in continuità del controllo, nell’attuazione fisica del potere, similmente ad una combinazione di amministratori e di mezzi materiali (organizzazione) per l’amministrazione di una azienda (impresa).
Lo sviluppo dello stato moderno ebbe una lunga gestazione; venne promosso dapprima dal principe, attraverso “ l’espropriazione di quei privati (ceti aristocratici) che si trovano accanto a lui investiti di un potere di amministrazione indipendente, e cioè di coloro che posseggono per proprio diritto i mezzi per condurre l’amministrazione, la guerra e la finanza, o per conseguire comunque un fine politico;” successivamente, alla fine di tale processo, troviamo lo Stato Moderno dove tutto il complesso amministrativo è riunito in un unico complesso centrale, amministrato dal funzionario statale e separato (espropriato) dall’esercizio politico; i ceti aristocratici in appoggio del principe, espropriati dal loro potere di controllo dei loro mezzi amministrativi-politici, vengono sostituiti, “mediante usurpazione o elezione, da capi politici (collocandosi in una prima fase a fianco del principe, prima di essere quest’ultimo detronizzato) i quali si arrogano il potere di disporre delle persone investite di funzioni politiche in tutto l’apparato dei mezzi materiali, facendo derivare la loro legittimità direttamente dalla volontà dei sudditi delle democrazie parlamentari.
Nel corso di questo processo di espropriazione (dei ceti al servizio del principe) comparvero le prime categorie di “politici di professione” che formarono il potere effettivo dello Stato Moderno sia democratico che monarchico nei funzionari statali, militari e civili. La democrazia, al pari dello stato assoluto, esclude una amministrazione “affidata a notabili feudali o patrimoniali o patrizi o d’altro genere per sostituirla con funzionari nominati;” quest’ultimo aspetto rappresenta il passaggio decisivo allo stato moderno nel senso che attraverso la nomina, l’ufficiale in quanto detentore del potere militare, non si differenzia più dal funzionario dell’amministrazione civile; l’esercito di massa è un esercito burocratico similmente alla Chiesa Cattolica la cui decisione più importante al Concilio Vaticano del 1870 non fu il problema dell’infallibilità (del Papa) ma nel far diventare il vescovo o il parroco, semplici funzionari del potere centrale.
Lo Stato Moderno dal punto di vista organizzativo “è un impresa al pari di una fabbrica.” Tale identità sta alla base di ogni fondamento economico, tra chi lavora separato dai mezzi materiali dell’impresa, o dall’interno dell’organizzazione amministrativa dello Stato: l’operaio, l’impiegato, insieme al funzionario statale dipendono entrambi, dal potere di disposizione dell’imprenditore insieme al detentore del potere politico; la separazione dei mezzi di produzione del lavoratore
nell’impresa privata viene associata alla caratteristica comune della separazione dei mezzi materiali dell’impresa statale moderna orientata però, verso “scopi di potenza e di politica culturale e verso scopi militari, e all’economia capitalistica privata” Lo stato maggiore amministrativo opera secondo una gestione autonoma della propria amministrazione, anche se in piena dipendenza al potere politico, similmente ad un consiglio di amministrazione di una società per azioni, che viene nominato dall’assemblea dei soci e deve rispondere soltanto a quest’ultimo; l’obbedienza al detentore del potere politico viene osservata non in virtù di una legalità in astratto, ma in ragione di un dominio sociale, dove la forza legale esercitata dal potere amministrativo statale, può essere cercata soltanto nell’interesse personale che può essere compendiato nella remunerazione personale e nella “onorabilità sociale.” Le prebende dei funzionari statali nella forma di stipendi come compenso allo sfruttamento dei dominati nella gestione del monopolio degli uffici, o lo spoils system nella appropriazione delle cariche e dei posti di potere da parte del partito risultato vincente in un confronto elettorale ed a tutto vantaggio per i seguaci del moderno demagogo, non sono per nulla dissimili dall’onore cavalleresco di uno stato feudale, o dal privilegio dei ceti con cui il sovrano dominava con l’appoggio di una aristocrazia indipendente, e con i quali esercitare il dominio come capo carismatico condividendo gloria bellica e bottino per i guerrieri.
L’impostazione veberiana del funzionario statale è al centro di un’analisi che ha come oggetto, lo studio dello snodo nella compartecipazione assistita ed intercambiabile tra gestione amministrativa statale e gruppi politici parlamentari; un coacervo di interessi di parte (partiti) che si occultano nella gestione statalistica, con apparente salvaguardia, nella ideologia, di interessi più generali (della collettività). Del resto il vero funzionario statale deve ufficialmente amministrare al di fuori degli interessi dei partiti almeno fino a quando “non è in gioco la ragione di stato”, che più propriamente significa: l’interesse fondamentale dell’ordinamento dominante. E proprio per garantire la mischia tra interessi politici di parte (partiti) sempre in lotta tra di loro, il funzionario amministra in campo neutro (in finzione giuridica) ed in zona periferia del sistema; è praticamente un gioco delle parti tra chi amministra secondo le ferree regole formali dell’ordinamento vigente, il complesso ordine amministrativo del sistema politico, e le parti (partiti) che si affrontano come in campo di battaglia circoscritto dal perimetro istituzionale delle regole statali del funzionario. Da questo punto di vista il ruolo svolto dal funzionario (statale) è precipuamente politico nel significato più genuino del termine, e non dissimile nello stesso ruolo dal funzionario di partito; del resto, già con l’avvento dei partiti di massa delle democrazie parlamentari occidentali di fine Ottocento, troviamo apparati mastodontici che fanno vivere migliaia di persone organizzate (stipendiate) che eleggono in modo plebiscitario, al di fuori del palamento, il capo carismatico; il sistema politico italiano è composto, si dice, da un milione di persone che vivono sul costo della politica, dai Comuni, ai Municipi, al parlamento, oltre a qualche altro milione di dipendenti del pubblico impiego assunti dal sistema partitico-sindacale.
Un caso emblematico è l’apparato della democrazia plebiscitario in Usa; i partiti (in Usa) sin dalla prima metà dell’Ottocento sono conformati in vista della lotta elettorale più importante per l’elezione del Presidente dell’Unione e dei Governatori nei singoli stati. Programmi e candidati vengono prestabiliti nelle < convenzioni nazionali > dei partiti, senza l’intervento dei parlamentari. Il Presidente dell’Unione (Usa) fin dall’Ottocento poteva disporre per la nomina da 300 mila a 400 mila funzionari statali, previo accordo con i Governatori. Allo spoil sistems del vincitore derivante da un apparato plebiscitario del partito si accompagnò la comparsa del “boss,” una figura di imprenditore capitalistico della politica,.. il quale fornisce voti a proprio rischio e pericolo…Il boss non ha < principi > politici ben determinati, non si propone alcuna finalità, ma si domanda solamente: che cosa serve ad attirare voti?”
G.D.   aprile ‘08