La maturazione della Primavera Araba

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[traduzione di Piergiorgio Rosso da: The Arab Spring Matures by Robert D. Kaplan | Stratfor]

La parte facile della Primavera Araba – quella che ha istantaneamente gratificato le elites occidentali – è finita. Questa fase riguardava il rovesciamento di regimi tirannici da qualche parte e il loro indebolimento da qualche altra. Dato che la questione era limitata al rovesciamento del dittatore, era essenzialmente una questione di libertà, un attacco a poteri sovra-centralizzati. Gli Stati Uniti ed Israele c’entravano poco in questa fase iniziale.

La seconda fase che stiamo vivendo, riguarda chi comanda nelle strade e nei palazzi. Riguarda il definire la società dalle sue basi. Questa fase riguarda i valori politici, e siccome l’islamismo è un qualcosa che si è formato attorno alla visione sugli USA e su Israele, gli USA sono stati l’oggetto delle mobilitazioni furiose. Israele per il momento è risparmiata. Solo perché il film anti-islamico è stato originato negli USA. Prima o poi la furia investirà direttamente Israele. Dopo tutto la frustrazione nei confronti degli USA è dovuta in buona misura al suo supporto a Israele ed al rifiuto di Israele di fermare gli insediamenti.

Questa lotta interna per il potere andrà avanti per anni. Dato che coinvolge società afflitte da severi affanni economici, che hanno scarsa esperienza di governo libero, i nuovi regimi saranno occupati soprattutto nel mantenere il potere davanti alla tumultuosa politica interna. Tali regimi, deboli e preoccupati avranno una capacità limitata di condurre guerre. L’opposto della situazione in Asia, dove i governi hanno consolidato le istituzioni militari e civili attraverso decenni di sviluppo economico e possono ora proiettarsi all’esterno – indirizzandosi verso dispute territoriali nella sfera marittima.

Il fatto che i regimi arabi sono impediti dal condurre guerre interstatali è compensato dal fatto che essi hanno difficoltà nel controllare le loro stesse frontiere e gli elementi militanti interni alle loro società. Così il Sinai è diventato più insicuro dopo decenni di relativa quiete, gruppi armati scollegati dal governo eletto si aggirano per la Libia, dove le distanze geografiche e le identità tribali fanno tribolare il controllo centrale. La Libia è una metafora appropriata della regione. Ha un governo eletto ma poca governabilità.

In effetti il Medio Oriente si è evoluto da una fase di guerre interstatali durante la Guerra Fredda (1956, 1967, 1973) ad una fase di relativa anarchia nel post-Guerra Fredda. Per quanto la possibilità di guerre interstatali rimanga in essere a causa di uno stato non-arabo, l’Iran – mentre i più grandi stati arabi come l’Iraq, la Siria e la Libia si sono in diverso grado indeboliti o dissolti alle prese con l’ossessione omicida dei militanti islamici e mentre le tensioni inter-comunitarie s’infiammano.

Anche il jihadismo fiorirà in questo vuoto di potere creato dalla sostituzione di forti autorità centrali con deboli poteri democratici. Ma invece che un jihadismo transnazionale concentrato nel pianificare attacchi contro gli USA, vedremo più probabilmente un jihadismo di casa occupato nelle lotte per il potere politico all’interno di ogni società. Dopo tutto alcuni dei regimi filo-occidentali che al Qaeda voleva rovesciare sono già caduti, per cui al Qaeda in quanto forza con una ragion d’essere pan-islamica è in qualche modo superata. Ovunque dal Magreb agli altipiani iraniani, le strutture politiche si stanno sgretolando, mentre la possibilità di un bagno di sangue settario in Siria aumenta tanto più là continuano i combattimenti. Il Presidente Bashar al Assad non ha alcuna possibilità di ricostruire il suo regime; tutt’al più potrà emergere come il più potente signore della guerra fra tanti in Siria, in uno scenario di libanizzazione del paese.

Lo stato di anarchia deriva naturalmente dall’assenza di istituzioni nascoste per decenni sotto la corazza di poteri autoritari. Una volta eliminato o indebolito quel potere, le deboli o inesistenti burocrazie devono provare a confrontarsi con la confusione nelle strade e nei luoghi del deserto tribale. Gli israeliani conoscono bene questa realtà. Finora Israele ha fatto la pace con poteri forti e autoritari. Quelli democratici quando sonno impauriti ed assediati, non hanno spazio politico per assumere rischi. In modo analogo non c’è alcun leader palestinese che non sia paranoide e che non si guardi costantemente alle spalle. Il processo di pace è scompigliato. Israele potrà pertanto continuare ad allargare i suoi insediamenti e poi, al momento propizio, stabilire un improvviso e strategico ritiro dalle maggiori cita del West Bank e dalle aree contigue che sceglierà di non occupare.

Il rovesciamento dei regimi autoritari poteva essere inevitabile, ma ha innestato un tornado perché la democrazia stabile può prendere decenni prima di svilupparsi. Inoltre in un mondo di città sovraffollate, con pessime infrastrutture, nell’epoca in cui i media viaggiano alla velocità della luce, l’insorgere di mobilitazioni per questa o quella sospetta angheria, è la nuova normalità. In tali circostanze la geografia del Medio Oriente non viene contraddetta, ma diventa più claustrofobica e più preziosa.

In questo Medio Oriente anarchico, l’Egitto non offre più ancoraggio politico all’Occidente, come prima. Sin dagli anni ’70, a cominciare dal dittatore Sadat fino a Hosni Mubarak, la centralità geografica e il peso demografico dell’Egitto costituivano una forza per la stabilità regionale contro le forze radicali. Ma il nuovo regime islamico al Cairo deve appagare i suoi elementi radicali, mentre la politica interna gli lascia poca energia per proiettarsi seriamente al di là dei suoi confini. Nello stesso tempo l’Arabia Saudita è politicamente malata con i suoi invecchiati dirigenti brezneviti che si aggrappano alla loro costosa vita nello status quo, mentre volteggia su di loro la nascente insoddisfazione dei giovani alimentata dalla combinazione tossica dei social media e della disoccupazione. Quanto all’Iran, il Marg bar Amrika (“morte agli USA”) è l’eccezionale colla della rivoluzione che deve essere mantenuta di fronte ai nuovi affanni economici che corrodono la società – dato che la disciplina rivoluzionaria è ora particolarmente necessaria per mantenere il regime intatto.

La riflessione chiave che deriva da tutto ciò è quanto scarso potere di manovra hanno gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti non possono “costruire nazioni” [nation-building è un termine che fa parte del lessico specifico della politica di “esportazione della democrazia” – ndT] dentro il Medio Oriente. Potranno avere accordi limitati con i servizi di sicurezza locali nella regione al fine di proteggere le ambasciate americane ed altre proprietà. Potrà incoraggiare le forze moderate con aiuti e facendo uso delle sue leve per influenzare il governo egiziano su qualche questione e quello saudita su altre. Ma gli Stati Uniti non possono, per esempio costruire in Libia uno stato forte, ben governato senza uno sforzo straordinario che priverebbe Washington di libertà operativa nella regione e nel mondo.

La Primavera Araba, in altre parole, ha a che fare con la limitazione della potenza americana mediante la rottura dell’autorità su cui Washington contava per esercitare la sua influenza. Il fatto che il Medio Oriente sia più democratico di prima non beneficia necessariamente gli Stati Uniti. Questo perché le democrazie sono di per sé a valore neutro. Non sempre rappresentano l’ordine liberale, specialmente quando sono fragili ed instabili.