MENO IDEOLOGIA (E RETORICA) E PIU’ CONCRETEZZA

 

 

In realtà l’intitolazione sconta la semplificazione che, in quanto tale, le è inevitabile. Anche l’ideologia, difatti, può essere concreta. Ma quella cui qui mi riferisco, invece, ha il non commendevole pregio di essere al tempo stesso alquanto vacua e suggestiva, innanzitutto per chi la predica senza quella continenza che pure sarebbe opportuna, se non altro per non scadere nel ridicolo. Mi riferisco, dunque, ad un’ideologia specifica, che ogni tanto risorge in occasione di specifici eventi o congiunture. È l’ideologia dell’interesse nazionale.

Essa è usata in guisa di un vestito che si allunga o ritaglia a piacimento a seconda dei gusti di chi lo indossa, sovente per occultare interessi che di nazionale nulla hanno. Poi, magari, per una più efficace azione di nascondimento, tale interesse nazionale viene callidamente declinato sbandierando i vantaggi economici, lo sviluppo della ricerca scientifica, l’incremento delle opportunità di lavoro che l’attuazione di un dato progetto comporterebbe per la “comunità nazionale”. Così, e per stare alla stretta attualità, l’ineffabile Ministro della Difesa, l’Ammiraglio Di Paola, può sostenere che la prosecuzione dell’attuazione dell’accordo per l’acquisto degli aerei F-35 costituirebbe “un impegno importante, dal punto di vista tecnologico, industriale, delle capacità produttive e occupazionali”, senza, ovviamente, adombrare che il recesso da tale accordo rappresenta opzione del tutto inconcepibile per chi è aduso da lunga pezza soltanto a sbatter tacchi innanzi agli ordini impartiti da oltre Atlantico. Lo stesso militare, poi, virando su un tema più generale, azzarda che “I sacrifici, le riforme, i cambiamenti, le innovazioni che il governo propone agli italiani non ci vengono imposti dall’Unione Europea, ma sono processi che servono all’Italia per essere più europea. Una volta Antonio Gramsci disse: per essere cosmopoliti bisogna prima avere una patria”. Senza particolari commenti, qui è sufficiente rinviare al noto motto sul patriottismo come ultimo rifugio delle canaglie.

            Motto sempre attuale, indubbiamente. Con una variante consistente in ciò, che ormai si è talmente a corto di credibili ragioni per giustificare il tentativo di vampirizzare denaro, che il “patriottismo” – o suoi derivati – diventa sempre più non già l’ultimo ma il primo, o tra i primi, degli argomenti addotti penosamente dagli improvvisati alfieri dell’interesse nazionale. Ebbene, una notevole dimostrazione di un siffatto atteggiamento è stata fornita in occasione della recente decisione governativa di rifiuto della prestazione della garanzia finanziaria a copertura dei fabbisogni necessari per la realizzazione degli investimenti richiesti dallo svolgimento delle Olimpiadi a Roma nel 2020, facendo decadere, in tal modo, la candidatura proposta dalla capitale. Subito, tra i politici, ne è seguito un profluvio di voci contrarie (il nostro Paese, si sa, pullula di sovranisti amanti dello sport) che, nonostante intonate a diversi registri, hanno esibito l’elemento comune di essere, se non mi sbaglio, radicate in gran parte, sia pure a diverso titolo, nell’ambiente romano. Così, c’è chi ha urlato come un violino stridente per l’occasione persa quale supposto fattore di sviluppo per l’Italia (Cicchitto e Gasparri, a nome di tutto il PDL). C’è chi ha invece bofonchiato a mo’ di fagotto, limitandosi a masticare amari borborigmi con timbro dimesso, a ciò costretto o per il suo ruolo istituzionale, che non gli consente di inveire contro un Governo con cui comunque dovrà convivere per un anno e mezzo (Alemanno), ovvero perché consapevole di non poter polemizzare eccessivamente, pena la non gradita amplificazione di un dissenso rispetto al partito di appartenenza (Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, che deve pur sempre essere appoggiato dal PD per essere prima prescelto come candidato e poi eletto a sindaco di Roma nel 2013). Altri, invece, quali voci soliste che già hanno avuto esperienze amministrative alla guida di città importanti, hanno parlato di scommessa persa per il sistema Paese (Chiamparino).

            Trascorsi, comunque, pochi giorni dalla decisione del Governo, quelle voci si sono subito spente. Effettivamente, gli argomenti fondati sulla considerazione della manifestazione “sportiva” come occasione di sviluppo o come scommessa per l’Italia, avevano il fiato corto. Il fallimento, sotto questo punto di vista, di manifestazioni analoghe organizzate in Italia negli ultimi vent’anni ne è la dimostrazione irrefutabile. Risibile, comunque, l’argomento – del resto comune ai sostenitori dell’evento romano – arrangiato da Alemanno dopo il diniego governativo: “Abbiamo sempre detto che gran parte dei progetti immaginati per il 2020 non servivano alle Olimpiadi ma servono alla nostra città per rimetterla sulla strada dello sviluppo e perché si possa fare un grande salto strutturale anche a beneficio dei cittadini”. Compreso la “logica”? Servono, dunque sono necessari, investimenti per la città, non per le Olimpiadi. Pertanto, è lecito attendersi da chi è investito della responsabilità istituzionale della città stessa la realizzazione dei suddetti progetti indipendentemente dalla presenza dello stimolo olimpico. Quindi, delle due, l’una: o costui dispone della relativa capacità politica ed operativa, ed allora dovrebbe provvedere comunque, senza attardarsi in piagnistei per la perdita della presunta occasione; oppure è un inetto, e allora è fondato il sospetto che, attribuendo alla perdita dell’organizzazione dei giochi la scomparsa delle prospettive prossime per la capitale, intenda precostituirsi una penosa scusa per l’inerzia futura che – già lo presente, evidentemente –  ne paralizzerà ogni proposito.

            Trovo altresì risibili gli argomenti di quei fervorosi manichei che hanno già provveduto a tracciare la linea di separazione tra amanti della nazione e perfidi antinazionali: i primi sono i fautori delle Olimpiadi a Roma, ed il loro consesso accoglierebbe dunque – pensate un po’ – i vari pidiellini quali Alemanno, Cicchitto, Gasparri, Letta (Gianni), Petrucci, Pescante, ma anche il soi disant amareggiato Zingaretti e Chiamparino; gli altri, ossia i disfattisti, invece, sono i contrari. In particolare, secondo i patrioti olimpici lo “sport” sarebbe un vettore di potenziamento dell’immagine degli Stati, tanto più quando si tratta di una competizione sportiva antichissima. Il che mi pare però più un banale slogan adatto ad una brochure pubblicitaria commissionata dal comitato organizzatore della competizione medesima che un argomento minimamente sensato, dacché la reputazione ed immagine degli Stati non credo dipendano dalle origini millenarie di una qualche ricorrenza – peraltro, proprio per la sua vetustà, del tutto incommensurabile all’evento “aurorale”; ma questa è la tendenza destoricizzante di taluni sovranisti, ipnotizzati dall’elemento mitico – la cui preparazione ed organizzazione siano curate da uno Stato. I più intrepidi fra i suddetti fervorosi animatori si spingono financo a considerare il fenomeno sportivo addirittura un fattore geopolitico. Sarà, ma a me non consta l’esistenza di una corrispondenza diretta tra Paesi che eccellono negli sport più praticati e diffusi nel pianeta ed il loro tasso di forza geopolitica. Anche perché, se così fosse, l’Italia dovrebbe essere annoverata tra le prime potenze mondiali, posto che il calcio sembra figurare tra gli sport più praticati e diffusi del pianeta, e dunque, secondo la bizzarra tesi in discorso, rilevante fattore di potenza geopolitica. Ma, probabilmente, se asserisco ciò è perché sono uno inguaribilmente affetto dalla tabe dell’autodenigrazione lesiva dello Stato-Persona; idolo da adorare, viceversa, per taluni nostalgici credenti.

            In effetti, i fautori della concezione dello Stato implicita nella polemica descritta testé, sembrano pensare lo Stato come entità ideale che va servita da tutti, individui e corpi “intermedi”, in maniera incondizionata, senza interferenze impure dovute alla tutela dei propri concreti e materiali interessi. La quale tutela può dunque anche contemplare idiosincrasie ed avversioni per le inefficienze degli apparati amministrativi e lo sperpero irrazionale di denaro pubblico, proprio come avvenuto nelle molteplici occasioni di organizzazione di eventi sportivi su scala mondiale svoltisi in Italia. Ma a questo punto ogni zelante patriota avrà già fatto scattare l’accusa, nei confronti di questi empi, di qualunquismo e moralismo-giustizialista. Eppure, questi patrioti fanno mostra, in ogni occasione si dia loro, di tenere in grande considerazione le regole auree del realismo politico. E dovrebbero perciò ben sapere che a lungo andare risulta disastrosamente perdente guidare uno Stato assumendo come presupposto che gl’interessi (e dunque anche la pretesa di servizi pubblici che funzionino, perché funzionali al soddisfacimento degl’interessi stessi) di singoli e gruppi debbano essere e saranno certamente (non si sa in virtù di quale superiore principio) nemmeno trascesi, ma addirittura messi sic et simpliciter tra parentesi, al cospetto del moloch statuale. Il fatto si è che, mi pare, questi sacerdoti dello “Stato-Persona” sembrano troppo affezionati alle proprie tesi per concepire che la loro pretesa validità debba essere sempre testata dalla verifica sperimentale. Ragion per cui, di fronte alle e nonostante le sciagurate prove offerte dal “pubblico” statale nell’organizzazione di eventi di portata mondiale, continuano a sostenere che il problema sono coloro che registrano siffatti fallimenti comportandosi in modo scetticamente e sensatamente conseguente, perché non colgono le prospettive di potenza che Roma 2020 avrebbe aperto all’Italia tutta. E se poi questi “scettici qualunquisti” insistessero nell’opporre in modo circostanziato quei precedenti che confutano la pur generosa credenza nella virtuosità dello Stato-Persona, allora tanto peggio per i fatti.