METAMORFOSI DI BONTEMPELLI: E' UN TONI NEGRI DEPRESSO

Forse a qualcuno sarà capitato di imbattersi nell’ultimo “ritrovato” teorico di Massimo Bontempelli intitolato “Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità”. Come si evince dal titolo ci sta dentro un po’ di tutto, frammenti di analisi marxiana, spicchi di filosofia tra Kant e Hegel, qualche piccola nozione economica e, dulcis in fundo, “fettine” di psicologia post-apocalittica rinvianti irrimediabilmente allo spaesamento dell’individuo nell’era della tecnica e del capitalismo assoluto. Eviterò di addentrarmi troppo nelle questioni specificatamente filosofiche con le quali Bontempelli inizia il suo cammino verso le categorie marxiane di sussunzione formale e di sussunzione reale del lavoro al capitale, lasciando volentieri questo compito a Mauro Tozzato che s’intende di filosofia molto più di me. Mi limiterò qui soltanto a tracciare il percorso della coppia categoriale in discussione, così come viene sceverata da Bontempelli nel suo saggio.
In sostanza, Marx avrebbe ricavato il concetto di sussunzione dalla logica kantiana (riconduzione di un termine al rapporto insieme di inclusione e subordinazione che gli è proprio rispetto ad un termine più esteso), operandone un riadattamento nell’ambito di categorie sociali come il lavoro e il capitale. Fin qui poco da dire, soprattutto per chi come me deve limitarsi a confrontare queste analisi con le scarne reminiscenze (peraltro ricavate dai testi scolastico-filosofici di Bontempelli) su Kant ed Hegel. Il filosofo di Stoccarda viene chiamato in causa perchè la sussunzione contempla due aspetti, uno appunto formale e l’altro reale. Bontempelli sostiene che la sussunzione formale in Marx si richiama esplicitamente alla logica hegeliana e al concetto di forma in Hegel.
Hegel definisce la forma come “relazione fondamentale le cui determinazioni stanno di contro al contenuto” il quale, così posto, “è determinato già in lui stesso come fondamento della sua unità particolare con sé, e sta di contro alla forma quale relazione intera di fondamento e fondato”.
Fortunatamente Bontempelli fornisce la traduzione della complessa “terminologis hegeliana” e di questo devo ringraziarlo perché altrimenti avrei interrotto la lettura già a questo punto: “Il senso di questa [affermazione] si ritrova nel Capitolo VI inedito. Il lavoro artigiano, o il lavoro contadino indipendente, sono contenuto della storia, e sono un contenuto determinato già in lui stesso, nel senso che il suo concreto svolgimento nasce dalla sua natura, e non da alcunché di esterno”.
Ci siamo adesso? Mica tanto? Comunque continuiamo a seguire il suo ragionamento. “Il lavoro artigiano, cioè, è determinato dai suoi strumenti, dalla sua materia prima e dalla sua tecnica specifica, ovvero in lui stesso, indipendentemente dal fatto se sia sfruttato oppure no da un potere esterno, e da chi e da quale finalità sia eventualmente sfruttato.” Insomma, esso “fonda competenze, relazioni e stili di vita”. Ecco così svelato il senso dell’espressione “fondamento nella sua particolare unità con sé”. Adesso resta da chiarire la seconda parte dell’affermazione, quella che parla de “la relazione intera di fondamento e di fondato”.
Prendiamo l’esempio del lavoro contadino. “Il lavoro contadino indipendente come lavoro è fondamento, fondamento della vita del contadino, nella sua particolarità avulso dal più generale contesto storico di relazioni sociali, ma se viene inserito in tale contesto relazionale, ad esempio in rapporto di dipendenza feudale da una signoria rurale, si rivela fondato dalle regole e dagli scopi di tale rapporto, pur rimanendo
fondamento a livello della sua particolarità specifica”. Si capisce, pertanto, che il complesso dei rapporti sociali feudali è, invece, quella relazione più generale che inglobando il lavoro contadino particolare lo “derubrica” a fondato, essendo la relazione più generale quella fondamentale. Con un ultimo sforzo le cose si fanno ancora più chiare: il lavoro del contadino indipendente è, se storicamente e socialmente “decontestualizzato”, fondamento mentre se esso viene ricontestualizzato nell’ambito dei rapporti feudali dominanti, si riduce a fondato da quegli specifici rapporti di produzione. Quindi, dice Bontempelli, mentre per Hegel la forma è assunzione “da parte di una relazione generale, di un contenuto più particolare determinato in sé stesso” per Marx invece, fuori dalla logica e trasposta nell’ambito dei rapporti di produzione, la forma è “forma di appropriazione, da parte di un rapporto sociale globale ed in funzione della sua autoriproduzione, del prodotto di un lavoro predeterminato ad esso nel suo modo di essere”. Marx fa riferimento qui a quella prima fase in cui il capitale raduna presso di sè uomini e mestieri, nelle manifatture, senza intervenire sulla natura del lavoro, in quanto i saperi produttivi sono ancora ben saldi negli uomini che da poco hanno abbandonato le proprie botteghe per andare a lavorare, costretti dalle nuove condizioni, sotto uno stesso tetto e per conto di un capitalista. Questo implica che “il processo lavorativo è sottoposto al capitale e il capitalista vi entra in qualità di dirigente, considerandolo insieme e immediatamente come processo di sfruttamento del lavoro altrui” (Marx, Capitolo VI inedito). Però “a questi cambiamenti [ … ] non si è finora accompagnata una trasformazione sostanziale nel modo d’essere vero e proprio del processo lavorativo, del processo di produzione reale”. In pratica, il comando capitalistico può agire con maggiore o minore violenza sugli uomini, costringendoli ad un lavoro prolungato, per ottenerne maggiore profitto (plusvalore assoluto), ma non oltre un certo limite di durata della giornata lavorativa, la quale non può essere allungata all’infinito.
Da questo consegue, come giustamente ribadisce Bontempelli, che “solo una modificazione del processo lavorativo può evidentemente consentire la produzione nello stesso tempo di una maggiore quantità di merce, e quindi una minore quantità di lavoro incorporata in un’unità di merce, per cui il pluslavoro relativo è necessariamente associato ad una sussunzione non più formale ma reale”.
E così giungiamo finalmente a poter definire la sussunzione reale in Marx. I rapporti specificatamente capitalistici sono precisamente il risultato dell’incremento delle forze produttive sociali del lavoro “mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’impiego delle macchine, e, in genere, la trasformazione del processo di produzione in cosciente impiego delle scienze naturali, della meccanica, della chimica ecc. e della tecnologia per dati scopi”, poiché tale “incremento, dicevamo, della forza produttiva del lavoro socializzato in confronto al lavoro più o meno isolato e disperso dell’individuo singolo, e con esso l’applicazione delle scienza – questo prodotto generale dello sviluppo sociale – al processo di produzione immediato, si rappresentano ora [e solo ora] come forza produttiva del capitale anziché come forza produttiva del lavoro, o solo come forza produttiva del lavoro in quanto identico al capitale; in ogni caso, non come forza produttiva del lavoratore isolato e neppure dei lavoratori cooperanti nel processo di produzione” (Marx, op.cit.). Finalmente siamo arrivati a comprendere il concetto di sussunzione in Marx nella sua duplice forma, presi per mano da Bontempelli il quale, visto che c’era, ci ha condotti a fare un giro prima nella logica kantiana e poi in quella hegeliana. Ci abbiamo impiegato un po’ più di
tempo ma, tutto sommato, il “panorama filosofico” era piacevole e l’ “aria intellettuale” della giusta temperatura.
Forse però usciamo un po’ più ebbri del dovuto da questo de-tour, tanto che il nostro autore pensa proprio adesso di poterci di rifilare il suo “pacco filosofico”. Ed ecco la novità dell’ipotesi bontempelliana: “l’operazione concettuale che da tempo propongo per la sua possibile fecondità interpretativa è quella di riformulare, per trasporla come categoria illuminante in un più vasto ambito, la nozione marxiana di sussunzione, alla stessa maniera in cui Marx ha riformulato la nozione kantiana di sussunzione per riferirla al rapporto tra capitale e lavoro. Si tratta cioè di pensare la distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale non più soltanto del lavoro al capitale, ma dei contenuti della stessa vita umana al capitale”. E no Bontempelli! Questa non è affatto nuova perchè l’ho già sentita, non mi è piaciuta all’epoca e non mi piace nemmeno oggi. In Impero di Toni Negri e Michael Hardt (ma anche in precedenti opere di quell’uomo che sentiva il calore della classe operaia solo quando si calava il passamontagna) si parla precisamente di ciò, del fatto che saremmo passati da una sussunzione formale del mondo al capitale, caratteristica del vecchio capitalismo industriale, ad una sussunzione reale del mondo al Capitale, contrassegno dell’Impero senza centro che assomiglia molto al capitalismo assoluto di Bontempelli (a tal proposito basta andare a rileggersi la recensione di M. Turchetto al libro “Impero” che potete trovare a questo link: http://lists.autistici.org/message/20020320.005224.5f71dff2.en.html).
Certo, Negri è più affascinato che perplesso di fronte alla nuova situazione perché, a suo modo di vedere, l’epoca dello sfruttamento intensivo del mondo coincide con l’era postindustriale più pulita ecologicamente e meno “ingombrante” industrialmente. Ma, a parte le differenze, resta la sostanza della premessa iniziale che, come si può ben vedere, può sfociare in punti di vista letteralmente agli antipodi. Bontempelli è più onesto di Negri ma un bel po’ più depresso.
Di qui in avanti l’incedere dialettico di Bontempelli diviene una litania pretesca su quanto dovremmo pentirci di mangiare polli allevati in batteria, usare troppo la tecnologia e viaggiare in macchina. Tutte cose che corrompono la nostra soggettività. Non ci credete? Ecco qualche passaggio.
Dal paragrafo intitolato “Dominio sul vivente”: “Occorre sapere che chi oggi mangia spesso carne, chi consuma regolarmente prodotti vegetali fuori dalla loro produzione naturale, chi accetta la frutta standardizzata e non maturata da supermercato, non solo si nutre male e perde il senso dei sapori ma dà, per così dire, il suo democratico voto quotidiano a favore dello sfruttamento capitalistico (molto più democratico e molto più determinante del voto nella cabina elettorale), proprio come chi usa frequentemente l’automobile e si affretta a comprare gli ultimi ritrovati della tecnologia immessi sul mercato”. Non fate orecchi da mercante voi che vi “abboffate” con pollo allevato in batteria perché costa meno del filetto, il filosofo ce l’ha proprio con voi. E da domani niente più macchina, a meno che non vi serva come predella per improvvisare comizi sulla decrescita. Infine, attenti alla tecnologia la quale, si sa, è uno strumento che corrompe il vostro spirito rivoluzionario.
Ma andiamo avanti nello sproloquio.
Dal paragrafo intitolato “il senso comune sviluppista e la sua critica”: “Chi, perciò, sta
dalla parte dello sviluppo, sta di fatto dalla parte del sistema vigente, qualunque
illusione coltivi riguardo alla sua collocazione, e si condanna all’inintelligenza della
trama di connessioni effettive tra i molteplici aspetti del mondo attuale [ … ] Non si possono contrastare le derive belliche dell’imperialismo attuale se non in una prospettiva di decrescita. Chi è a favore dello sviluppo è, anche se crede il contrario, a favore delle guerre imperialistiche che dello sviluppo sono un corollario.” Gli americani sentitamente ringraziano perché, effettivamente, loro non avranno più bisogno di fare le guerre se gli altri si tagliano le palle da soli.
Dal paragrafo intitolato “La sussunzione della persona umana”: “Succede però spesso che un militante antimperialista si muova frequentemente e naturalmente in automobile, senza rendersi conto che bruciare benzina nel motore significa votare per il sistema in maniera ben più sostanziale che con una scheda elettorale, e che un luogo imprescindibile di attacco al sistema stesso sarebbe quello della circolazione autoveicolare privata”. Povero militante antimperialista, invece di farsi bastonare dalla polizia per poi poterne contare orgogliosamente i lividi, avrebbe potuto, molto più semplicemente, spaccare qualche auto in sosta. Ma l’oppositore è un ingenuo perché non capisce che “ha in molti casi una personalità adattata a vivere senza troppo soffrirne in mezzo alle conseguenze negative del traffico autoveicolare privato [ … ] e ad accettare quella particolare privatizzazione e desocializzazione della strada che la circolazione autoveicolare crea.” Finito? Macché: “[…]Si può dire che la freddezza riguardo alla decrescita, l’incapacità di sentirne l’urgenza, e la tendenza a fraintenderne il senso, sono tipici segni rivelatori della personalità sussulta sotto il capitale: una tale personalità, infatti, ha interiorizzato lo sviluppo come modello di comportamento individuale, per cui manca della sensibilità per cogliere il valore di aspetti statici del paesaggio naturale e sociale, e per soffrire della loro dissoluzione, cosicché i processi innovativi del capitalismo non lo spaventano [ … ] ”. Ammetto di essere un deviato, di avere una personalità completamente sussunta, ma purtroppo non me ne rendo conto perché il capitale ha completamento ridisegnato la mia mappa cerebrale, agevolato in ciò dalle mie “tendenze interne anch’esse prodotte dal capitale”.
Dal paragrafo intitolato “Le forme della personalità nella sussunzione reale” (in questo paragrafo vengono sciorinati tre diversi livelli di psicopatologia: il disprezzo di sé, la personalità concretista, la personalità narcisista): tutto ha inizio dal fatto che “[ … ] oltre un certo sviluppo il capitale non può realizzare il plusvalore che produce se non con un ritmo particolarmente veloce degli acquisti di massa delle merci” e che “questa velocità cambia l’immagine sociale della merce. Essa diventa un oggetto da consumare in maniera rapida e definitiva” favorendo l’insorgere ne “l’individuo che non rispetta gli oggetti, perché li consuma velocemente, e che non rispetta il suo ambiente, perché lo sporca con oggetti trasformati in rifiuti […]il disprezzo di sé[…], l’individuo non trova più nei suoi beni materiali i segni esteriori della durata dello spirito umano nel tempo”. Per sfuggire a questo disprezzo di sé l’individuo si rifugia nell’appartenenza (personalità concretista) alle più diverse organizzazioni, trovando in ciò un “pavimento” che gli impedisce di sprofondare nella sua nullità. Qualora nemmeno questo escamotage dovesse bastare, perché, magari, uno è tanto acculturato da sottrarvicisi, ecco che arriva: l’ “autorappresentazione grandiosa della propria personalità” (personalità narcisista). Volete un esempio di personalità narcisista? I signori sono serviti: “Napoleone, che, angosciato dal disprezzo di sé quando frequentava la scuola militare, dove gli altri allievi ufficiali lo emarginavano e lo schermivano perché non nobile e non francese, lo ha poi impercompensato nell’immagine gloriosa e carismatica di se stesso”. Ma oggi
che il capitalismo è divenuto assoluto può produrre da sé (ed in serie) questo tipo particolare di personalità narcisistica la quale, come ci insegna Bontempelli, esisteva anche in un periodo precedente (come attesta l’esempio di Napoleone) ma era molto meno diffusa. Difatti “la costituzione del soggetto come terminale della circolazione delle merci contiene dunque gli elementi basilari del narcisismo: una storia familiare che abbia iniziato e poi accentuato il disprezzo di sé, ed un’educazione intellettuale che abbia trasferito l’autorappresentazione ipercompensatoria dal rapporto con la merce a quello con le persone, ed abbia consentito d’investirvi abilità effettive e talenti mentali”. Insomma, il grosso di noi è già fottuto, l’unico che si salva è, naturalmente, il filosofo Bontempelli il quale ha “capacità interpretative in questo campo” decisamente fuori dal comune.
La sussunzione è compiuta, andate pure in pace.
ANCORA SU BONTEMPELLI di M. Tozzato
Provo qui ad avanzare alcune considerazioni a margine del commento che nel nostro blog G. Petrosillo ha proposto ieri , 11.02.2008, sul saggio di Massimo Bontempelli intitolato Capitalismo, sussunzione, nuove forme della personalità. Tengo a precisare, prima di tutto, che ritengo (e non sono certo il solo) Massimo Bontempelli , sia come storico che come filosofo, un intellettuale di notevole levatura. Per quanto mi riguarda, ad esempio, continuo tutt’ora ad utilizzare i suoi libri di storia, che non si possono certo confinare nell’ambito della semplice manualistica, e per quello che concerne la filosofia, oltre alla sua “storia” mi pare doveroso citare, perlomeno, il libro Filosofia e Realtà (Editrice C.R.T. – Pistoia 2000), sicuramente uno dei migliori testi di esegesi hegeliana degli ultimi vent’anni, per non parlare della sua notevole “vita di Gesù” elaborata nel libro scritto assieme a Preve Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero (Editrice C.R.T. – Pistoia 1997). Tutto ciò, però, non ci esime dal mettere in luce, come bene ha fatto Petrosillo, le nostre divergenze in termini di concezione generale del mondo e di teoria della società. L’approccio di Bontempelli che è tale da permettergli di muoversi con grande competenza all’interno del pensiero filosofico, in particolare di quello hegeliano, non risulta altrettanto efficace in rapporto a Marx nei confronti del quale esiste, a mio parere, una sostanziale incapacità di intenderne lo specifico approccio alla scienza della società. Dal fatto che Marx non sia propriamente un filosofo e che quindi i suoi “maestri filosofici” siano stati Kant e soprattutto Fichte ed Hegel, come ripete giustamente da tempo Preve, non si può passare direttamente ad attribuirgli l’adesione integrale ad una di queste filosofie, nemmeno a quella hegeliana. Che in Marx la lettura di Hegel, come ha fatto rilevare in un recente saggio Roberto Fineschi, risulti a volte sorprendentemente semplificata e banalizzata rappresenta soltanto il sintomo del fatto che ad un certo punto il pensatore di Treviri ha intrapreso un altro sentiero, un percorso che lo ha portato alla critica della formazione sociale capitalistica attraverso l’ esposizione della sua struttura fondamentale denominata modo di produzione. La Grassa, al contrario di Bontempelli, dopo essersi mosso per decenni all’interno del pensiero marxiano e leniniano è riuscito a compiere un passaggio che nessun altro che io conosca è riuscito a fare: continuare a maturare dall’interno la propria elaborazione – senza abbandonare del tutto la teoria marxista né rassegnarsi ad accettare di rimanere nell’ambito del marxismo storico otto-novecentesco [teoria del comunismo critico (1841-1874) + marxismo storico (1875-
1991)] – riuscendo ad assumere contemporaneamente una prospettiva da osservatore esterno che alla fine ha prodotto quella rottura che gli ha permesso di iniziare ad elaborare un paradigma nuovo che – per “civettare” anche noi un poco con Hegel – ne rappresenti sia il superamento che la conservazione (Aufhebung). Passando ora a considerare la corretta ricostruzione filologica di Bontempelli sul rapporto tra forma e contenuto in Hegel, citata anche da Petrosillo, mi sentirei di aggiungere che se nel reale hegeliano si manifesta la struttura fondamentale del mondo empirico dei fenomeni – che comprende ciò che è accidentale e che in questo modo diventa effettualità la cui essenza è il trapassare – ciò significa che esso ne rappresenta anche il lato formale per cui la forma reale risulta identica e differente rispetto al contenuto empirico ed allo stesso tempo, in quanto idealità, è tale da permetterci l’appropriazione conoscitiva del mondo. Ma il rapporto tra formale e reale è diverso in Marx rispetto ad Hegel, nella misura in cui, a partire dall’Ideologia Tedesca, il primo ha in qualche maniera cercato, non in termini propriamente filosofici ma piuttosto di metodologia, di costituire una fondazione empiristica della dialettica. Nel suo notevole saggio dal titolo La dialettica in Marx Mario Dal Pra ha infatti scritto:<< La vera alternativa che si può prospettare , rispetto alla continuità della dialettica marxiana con la dialettica hegeliana, è quella di un’accettazione da parte di Marx di una fondazione empiristica della dialettica. Molto acutamente Lefebvre ha avanzato l’ipotesi che il periodo nel quale Marx, a suo giudizio, prescinde interamente dal metodo dialettico, è quello in cui egli aderisce all’empirismo ed ha di conseguenza prospettato l’approdo tardivo di Marx al metodo dialettico [all’epoca della sua rilettura della Scienza della Logica e della stesura dei Grundisse. N.d.r. ] come un superamento dell’empirismo. Ritengo anch’io che non si diano che due soluzioni possibili circa la fondazione del metodo dialettico: o una fondazione di tipo concettuale, del genere di quella formulata da Hegel, o una fondazione di carattere empirico. Una volta che si ritenga inesistente il problema della conoscenza ed inesistente il divario tra soggetto ed oggetto, la validità del metodo dialettico poggia sul suo valore ideale ed ontologico ad un tempo, in quanto esso si qualifica come struttura concettuale in cui propriamente si esprime la struttura stessa della realtà.>> Ma Marx, anche nella sua tarda ripresa di alcuni aspetti della dialettica hegeliana, mantiene un approccio metodologico e gnoseologico che non abbandona mai il terreno dei “fatti” e dell’analisi dell’effettualità empirica da cui trarre per via di astrazione la struttura reale come oggetto di conoscenza. Risulta del tutto estranea al pensiero marxiano perciò la questione, proposta continuamente dal marxismo dottrinario, del rapporto tra dialettica idealista e dialettica materialista; questa opposizione del tutto “metafisica” e ben poco “dialettica” non ha niente a che spartire con la metodologia marxiana empirista ed interessata ad una dialettica dell’interazione e dello sviluppo delle contraddizioni nel tempo e nello spazio ( anche il giovane Hegel del resto scriveva : <<ogni contraddizione produce una modificazione>>). E’ proprio l’approccio sostanzialmente hegeliano che porta poi Bontempelli a proporre di allargare la nozione di sussunzione reale non più soltanto al rapporto <<del lavoro al capitale>> ma alla sottomissione al “capitale” <<dei contenuti della stessa vita umana>>. Viene proposta così la categoria di capitalismo assoluto come termine interpretativo cruciale per la comprensione dell’attuale fase di sviluppo della formazione sociale capitalistica. Con questa espressione si vorrebbe evidenziare che la cultura (quella materiale come quella relativa ai costumi, ai saperi, ai modi di vita) – che caratterizza le parti del pianeta egemonizzate più direttamente dai
gruppi e dai sistemi statuali dominanti nel capitalismo contemporaneo – rappresenterebbe la “potenza decisiva” all’interno del sistema sociale capitalistico attuale. Questa cultura determinerebbe un habitus mentale e comportamentale distruttivo ecologicamente e degenerativo per i rapporti sociali e comunitari e per la sopravvivenza dell’ humanitas della nostra specie. Esiste effettivamente una analogia con le idee negriane: l’”Impero” di Negri come il capitalismo assoluto di Bontempelli vogliono essere delle “potenze senza centro” diffuse e onnipervasive dove al di là di un immaginario antagonismo “assolutamente radicale” di moltitudini indefinite di oppressi o di elitè depositarie della vera conoscenza del “trascendentale esser uomo dell’uomo” non si vede proprio ciò che è veramente decisivo: la struttura dei rapporti sociali tra gruppi e entità geopolitiche in conflitto per la supremazia e le relazioni tra questi e gli strati sociali dominati ( e non decisori). Le considerazioni di psicologia sociale e le analisi delle forme della personalità sviluppate nell’ultima parte del saggio bontempelliano sembrano dimenticare una cosa, magari banale: in quanto a forme di personalità distruttive la nostra epoca non è peggiore delle precedenti. La barbara crudeltà, la violenza , le guerre di sterminio degli antichi dispotismi le ho conosciute anche tramite i libri di Bontempelli: lo sterminio dei Catari, il genocidio dei pellerossa, il massacro delle popolazioni delle antiche civiltà precolombiane del nuovo mondo, le spaventose guerre di religione, il “patriarcalismo” come potere di vita e di morte del capo famiglia sulla donna e sui figli per finire con i smembramenti dei corpi , i roghi delle streghe e i metodi “poco urbani” usati con i nemici ( e forse anche gli amici) da Vlad Dracul, il famoso Impalatore. E aggiungiamo ancora un ultima domanda: al tempo di Hitler, del nazismo e delle osannanti masse tedesche eravamo già entrati nell’epoca del “capitalismo assoluto” ? A me sembra che il tipo di vita e lo sviluppo economico e tecnologico della nostra epoca possano essere causa dei grandi problemi ecologici e ambientali che tutti conosciamo, anche se nel nostro blog ne diamo una valutazione che rifiuta il catastroficismo e che mette in risalto che è la struttura sistemica del capitalismo a risultare decisiva.
Questo vuol dire che non solo il territorio, le risorse, le fonti energetiche, la vita animale e vegetale sono particolarmente in pericolo ma anche che, evidentemente, la nostra salute, la quale dal punto di vista del nostro “fisico” in passato soffriva in altre maniere e probabilmente di più, si trova a essere, oramai sempre più, preda di disturbi nervosi e psicologici indotti dal nostro ambiente naturale e sociale. In questo senso e da questo punto di vista siamo probabilmente in presenza di nuove patologie individuali e sociali. Per finire possiamo aggiungere che ci ripromettiamo di cercare di trattare, in futuro, la tematica della decrescita in maniera sufficientemente articolata; lo potremo fare, però, solo quando avremo la possibilità di confrontarci con una sua esposizione sufficientemente razionale e realistica. Per il momento non ci resta che rimandare il lettore all’articolo di qualche mese fa di Luigi Cavallaro – di cui abbiamo fatto un riassunto sul nostro blog – che recensiva il noto libro di Latouche, con l’aggiunta di un breve passo tratto dall’intervista di G. Repaci a E. Brancaccio. L’economista sannita afferma:<<Personalmente ho espresso la mia valutazione su un certo ambientalismo di sinistra, sulla decrescita e su Latouche in un articolo di qualche estate fa [ … ]. In esso sostenevo in fondo delle cose elementari. E cioè che se qualcuno parla di decrescita – vale a dire di crescita negativa del prodotto sociale – come concreto obiettivo di politica economica, allora o è un bolscevico che mira nuovamente alla pianificazione
centralizzata in un sistema chiuso o semi-chiuso […] oppure è uno che semplicemente farnetica. La ragione è evidente: l’abbattimento della produzione sociale, quale atto politico deliberato, richiede necessariamente uno sforzo pianificato, indipendentemente dal giudizio positivo o negativo che possiamo poi esprimere su di esso>>.