MINE VAGANTI, di Giuseppe Germinario

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Tra le polemiche scomposte e nervose dei protagonisti della campagna elettorale e le evidenti inquietudini manifestate dai vicini di casa europei, risalta ancor più la compostezza e la tranquillità olimpica con cui gli Stati Uniti di Obama, tutto sommato, hanno osservato le italiche convulsioni; ne hanno del resto ben donde.

Dall’alto della loro postazione l’Italia deve apparire certamente poca cosa, anche se con un ruolo non trascurabile.

Non è questa, però, la ragione principale di tanta sicumera; poco più di un anno fa le pressioni e i colpi di mano per sancire definitivamente il cambio della guardia sono stati decisamente incalzanti, al di fuori degli stessi protocolli diplomatici.

Il corteo di solerti messaggeri di ogni colore che si è accalcato nei vari corridoi dei centri di potere americani, culminato in gloria a metà febbraio con il viaggio del primo dei Mercuriali, deve aver definitivamente tranquillizzato i gran maestri dello scacchiere internazionale. All’assenza di pochi in quel codazzo deve aver sopperito la discreta opera di informazione e di contatti sul posto.

Le poche volte che si è parlato di politica internazionale, al centro della polemica sono caduti tutt’al più i paesi Nord-Europei, la Germania, la Francia, qualche paese del Nord-Africa a seconda della coloritura politica dei polemisti. Mai e poi mai, né tra i contestatori emergenti, né tra le forze storiche e decisamente malconce, una critica coerente al principale attore nella scacchiera internazionale, di per sé, quindi, in gran parte responsabile della situazione. Al massimo il totale silenzio con qualche recriminazione sul passato, come nel caso di Berlusconi, se non il religioso assenso, come nel caso del PD; nel mezzo qualche punzecchiatura sugli interventi militari all’estero, come nel caso del M5S e sulla timida rinegoziazione del contratto degli F35, quando paesi dall’indiscutibile fedeltà atlantica, come il Canada, hanno sancito il loro recesso puro e semplice, come nel caso ancora del PD. Di Monti, per finire, parlano il suo curriculum ed il suo Governo, compresi gli atti di “ordinaria amministrazione” della fase elettorale. Paradossalmente, meno il gallo si sente minacciato, più gli altri abitanti del pollaio si lanciano in dispute petulanti e in rivalità reciproche con poco respiro.

All’avvio della campagna elettorale avevo coltivato una ingenua illusione. Nella iattura della sua apparizione, la discesa in campo di Monti avrebbe comunque contribuito, stando ai suoi annunci e al suo proposito di scompaginare definitivamente gli schieramenti classici, a imporre il dibattito piuttosto sul discrimine dell’europeismo che sulla classica contrapposizione destra/sinistra se non berlusconismo/antiberlusconismo. Avevo dimenticato che nelle campagne elettorali, tranne forse che nei momenti di effettivo cambiamento radicale, i programmi e le linee politiche definite hanno una funzione del tutto secondaria nella raccolta dei voti e dei consensi. L’illusione si è dissolta in un attimo. La statura del personaggio, nota inizialmente a pochi e a noi, sempre più manifesta ormai ai più, la scelta di scendere direttamente in campo con le forze del tutto residuali e collaterali più vetuste e con una rappresentanza di borghesia compradora e di settori complementari, di centri strategici del tutto incapaci di formare una parvenza di blocco sociale egemone ha dissolto in poche ore ogni velleità; ha semplicemente vellicato con successo l’istinto di conservazione dei due partiti maggiori, uno dei quali, il PD, da circa tre anni impegnato con un buon successo in un processo di rinnovamento e riorganizzazione; ha probabilmente pregiudicato definitivamente il proposito di transumanza verso Monti, nel prossimo futuro, delle varie frazioni del PDL postberlusconiano.

Non a caso, in questa campagna elettorale, la maggior parte delle cartucce più efficaci sono state sparate all’inizio e l’ultima settimana si è trascinata stancamente consentendo un rilancio parziale della macchina organizzativa del PD; l’offensiva è servita inopinatamente a riconsegnare ai due partiti principali le redini della scena politica e la gestione alquanto problematica e perigliosa dei prossimi mesi e a sfaldare, persino oltre la misura ottimale perseguita dal PD, la milizia di Monti; la fragilità di quel progetto ha messo a nudo tutte le debolezze e la decadenza dei classici centri di potere e di consenso che hanno garantito, nei decenni scorsi, la coesione della formazione sociale: dalla Chiesa Cattolica, in particolare la sua componente episcopale, alle organizzazioni collaterali di settori classici di ceto medio, alla galassia Fiat, rappresentata presso Monti da Montezemolo e Bombassei, una volta determinante nelle scelte di fondo del paese.

Il ritorno dei due principali contendenti, dopo i pericolosi sbandamenti, ha comportato però un prezzo che peserà sicuramente nelle vicende incerte del prossimo futuro e nel gestire i processi sociali traumatici: la reazione da riflesso condizionato tesa a recuperare il proprio elettorato piuttosto che puntare alle invasioni di campo architettate nei mesi precedenti, ad esempio con Renzi.

La conseguenza di queste dinamiche è stata che i momenti più interessanti del dibattito hanno rivelato tutt’al più i caratteri conflittuali e i propositi bellicosi dei rapporti tra i principali paesi europei, con alcune vittime designate sulle rive mediterranee, nascondendo del tutto il ruolo della principale potenza, più volte stigmatizzato dalla nostra testata e l’assenza di qualsiasi progetto di leadership autonoma, che non sia distruttivo della condizione dei paesi limitrofi mediterranei, da parte della Germania; hanno posto, anche se in termini demagogici e approssimativi, la questione fiscale; almeno qualche balbettio sulla difesa della grande industria strategica lo si è ascoltato durante l’ultima campagna giudiziaria.

Tutte questioni poste da Berlusconi con il retaggio, però, di vent’anni di protagonismo politico e di qualche ribaltamento e umiliazione a testa bassa di troppo subita ad opera dell’ “abbronzato”.

Sull’altro versante impressiona il conservatorismo remissivo del PD. Solo per parlare degli interventi di quest’ultima settimana di Bersani e dintorni, è impressionante la totale insensibilità dimostrata verso l’attuale modalità di gestione del recupero dell’evasione fiscale rifugiandosi nel solito atteggiamento moralistico utile a nascondere oppressione, vessazioni e caos amministrativo; la stessa proposizione della priorità del lavoro, riducendolo di fatto ad un problema di investimenti pubblici, tutti per altro da verificare, di incentivazione fiscale degli investimenti aziendali senza un filo di voce sul ruolo della grande industria, con la difesa anzi di ogni intervento, anche il più discutibile e spettacolare, della magistratura, quasi che il lavoro, l’occupazione sia qualcosa di indipendente dalla struttura industriale e imprenditoriale, nonché dalla collocazione geopolitica del paese.

La realtà è che il PD ha riposto nel ciclo di vittorie della sinistra in Europa e nel mondo occidentale, in primo luogo gli Stati Uniti di Obama, poi in Germania, l’auspicio “disperato” della fine delle chiusure nazionalistiche, dell’avvio di un ciclo mondiale keynesiano benefico per tutti gli stati, del superamento degli attuali vincoli di bilancio assunti nell’Unione Europea; ritiene che la contrapposizione tra destra e sinistra nel mondo sia nettamente predominante rispetto al conflitto tra i vari interessi nazionali e alle conseguenti gerarchie che si determinano nelle dinamiche geopolitiche con l’illusione che la vittoria di una parte, la sinistra, induca a rapporti solidaristici, equi ed egualitari, piuttosto che conflittuali, tra i paesi del blocco occidentale.

Una riproposizione, a suo modo, di una interpretazione dualistica delle dinamiche sociali e politiche.

L’ultimo oracolo di D’Alema, del resto, ha sentenziato solennemente che la riconferma di Obama ha innescato un processo irreversibile di governo della sinistra nel mondo in una frenesia idolatrica che ha pervaso ormai tutto il gruppo dirigente del PD; un furore che lo sta disarmando di ogni residua capacità critica e contrattuale. L’esito elettorale probabile, ormai pressoché segnato, probabilmente superiore rispetto agli ultimi sondaggi noti, di relativa prevalenza del PD, accompagnato da un recupero significativo ma ormai esauritosi del PDL, da una parziale débacle di Monti e dal successo vistoso del M5S di Grillo condurrà, lo ha già ventilato Bersani, a una infinita successione di contrattazioni tale da rendere debole, già alla nascita, il futuro Governo.

Poulantzas ed Althusser, negli anni ‘70/’80, hanno mostrato che alla crisi o inefficacia operativa di un settore dello Stato, i centri di potere riescono a reagire concentrando la loro attività, anche in maniera surrettizia, in altri apparati dello stesso al prezzo però di scompensi destabilizzanti; a volte con la manipolazione diretta, a volte, specie nelle strutture più complesse ed articolate tipiche delle attuali formazioni sociali occidentali, con l’influenza e l’induzione di dinamiche tra i vari gruppi ed apparati.

Ogni formazione sociale di una certa consistenza e di una certa importanza deve, del resto, la propria particolare condizione di forza e sovranità soprattutto alle dinamiche tra i gruppi interni alle formazioni e alla loro permeabilità rispetto agli agenti esterni, piuttosto che all’azione diretta di forze esterne.

Il probabile esito elettorale non farà che accentuare l’attuale frammentazione delle strutture di potere del paese e dei suoi gruppi sociali.

Il Governo Monti, nel frattempo, ha contribuito pesantemente ad accentuare il dissesto e l’indebolimento delle strutture del paese. Non è stato in grado di costruire nessuna coesione su di un progetto politico qualsiasi; ha assecondato con “compiacimento dichiarato”, con la sua inerzia e con la sua cieca e servile sudditanza verso chi lo ha effettivamente intronato, alla smobilitazione di brandelli del paese. Ha questuato tra i paesi più compromessi politicamente, dal Qatar, all’Arabia, alla Corea, anche per il tramite della Merkel, quote di debito pubblico piuttosto che valorizzare le capacità industriali del paese; ha assecondato con entusiasmo ogni avventura militare e interventista, anche la più contraria agli interessi italiani; ha ulteriormente indebolito le relazioni con i paesi emergenti ed alternativi al blocco euro-atlantico compromettendo decenni di relazioni politiche ed economiche. In Italia ha accentuato la frammentazione corporativa in un contesto di distruzione e predazione delle risorse del paese. L’unica sua attenuante è di aver trovato nell’Unione Europea una sponda impresentabile. Tanti anni di attiva militanza in essa hanno reso, la sua, una scelta del tutto consapevole.

Il carattere movimentista del M5S, la sommatoria di rivendicazioni e di proposte espressione di comitati tra loro i più disparati, l’impostazione vagamente decrescista della filosofia d’azione, non farà che prolungare le contrattazioni e l’agonia dell’attuale regime, l’ulteriore frammentazione dei centri di potere piuttosto che facilitare la formazione di un gruppo dirigente alternativo. Tutt’al più potrà nascere qualcosa dalle ceneri e dall’ennesimo naufragio di illusioni. E’ comunque il segnale importante che ampi strati di popolazione, dei ceti più svariati, sono ormai avulsi dalle tradizionali strutture partitiche ma sono in bilico verso tentazioni di tipo comunitaristico. In altri frangenti il sistema è sempre stato in grado di assorbire questi movimenti; il fatto che il PD si sia sentito già in obbligo di anticipare e proclamare questa tattica è un segnale di insicurezza. Oggi potrebbero mancare tempo e risorse necessarie; le forzature, lo abbiamo già visto negli anni ’90 e l’anno scorso partoriscono mostri.

Le premesse, comprese le indagini giudiziarie, le trattative preliminari, le transumanze parlamentari già meditate ancor prima dell’insediamento, ci sono tutte.

Alla sopravvivenza a questa ulteriore fase di impaludamento sembrano pensare solo due figure dello scenario politico: il PD, il quale potrà giocare la carta di Renzi; Monti il quale spera in un processo di cooptazione di frammenti del PDL, avendo perso però quasi totalmente il proprio prestigio e peso politico proprio; potrebbe rimanergli l’investitura imperiale, ma anche da quelle parti i segni di disappunto non mancano.

La chiave di tutto rimane al di fuori della portata dell’attuale ceto politico in scena; risiede nelle modalità di svolgimento della crisi economica legata al cambiamento degli assetti geopolitici e nelle sue ripercussioni sociali; dipenderà da come gli Stati Uniti intenderanno regolare i rapporti in Europa, in particolare con la Germania, soprattutto se questa riuscirà per l’ennesima volta nella sua storia nel miracolo di associare l’egemonia economica asfissiante nella regione al relativo isolamento politico nella Unione Europea e alla freddezza di rapporti con la Russia. I precedenti del comportamento vigliacco e predatorio nei confronti della Grecia non lascia ben sperare.

A quel punto, la vittoria della sinistra progressista nel mondo, prospettata dal visionario D’Alema, si ridurrebbe al veicolo di dominio, ancora per qualche altro decennio, dell’umanitarismo americano; in alternativa troverebbe spazio anche il proposito conflittuale di Berlusconi verso la Germania.

La sinistra, che al centro dell’impero si prospetta come una opzione particolare di gestione della formazione sociale, nella periferia più sconnessa, come l’Italia, rischia di diventare la pura emanazione di quella politica con una debole rappresentanza nel paese nei settori meno dinamici e più assistenziali.

Arrivederci tra settantadue ore.