MISERIA DEI CATASTROFISTI E DEI DECRESCISTI

Decrescita-felice

C’è una vulgata tra i cosiddetti filosofi ed economisti antisistemici, con la quale civettano anche molti pensatori inseriti nei gangli istituzionali, nazionali e internazionali (vedi Tremonti ed altri),

secondo la quale la responsabilità di questa crisi deriverebbe dalla mancanza di etica della finanza che fa della speculazione esasperata l’unica ragione della sua esistenza, determinando il marcimento dei fondamenti dell’economia reale, quella che produce beni tangibili e ricchezza concreta.

Altri si spingono ancora più in là riprendendo vecchie e lacere teoresi secondo le quali saremmo giunti all’ultimo stadio del capitalismo, quello finanziaristico,  che preannuncerebbe l’implosione, per una insormontabile contraddizione interna, di questa formazione storico-sociale. Ma di attesa nella speranza della débâcle finanziaria finale, intrinseca alle dinamiche del capitalismo, si crepa. Sono trascorsi secoli e nonostante i vaticini apocalittici dei filosofastri e dei pensatori improvvisati, ertisi a santoni col predicozzo facile, continuiamo a morire salariati (molti, e con grandi differenze di reddito) o capitalisti (pochi), ognuno poi andrà ad incasellarsi dove la sua iattura o fortuna sociale richiede.

Siamo in presenza di una crisi ricorsiva, come tante ce ne sono state nel tempo remoto e recente, di una formazione globale che ci ostiniamo a chiamare capitalistica ma che è già  tutt’altra cosa rispetto a quella inglese del “de te fabula narratur” di marxiana memoria.  Ogni crisi, da quando questo modo di produzione si è storicamente affermato e sviluppato, inizia sul versante finanziario. Inutile e sciocco, allora, scatenarsi contro banchieri avidi e corsari di borsa, come altrettanto ineffettuale è lasciarsi andare ai discorsi etici e lamentosi o alle profezie da tregenda, sempre smentite dagli eventi successivi. Come scrive l’economista veneto Gianfranco La Grassa, “La finanza è indispensabile – soprattutto in epoche di grandi cambiamenti e trasformazioni – poiché nel capitalismo la gran parte di ciò che è prodotto è merce e si deve scambiare mediante denaro. Senza quest’ultimo non solo non ci sono scambi, ma nemmeno investimenti e innovazioni, e neppure avanzata ricerca scientifico-tecnica; soprattutto non c’è la potenza, termine entro cui ricomprendo tutta l’attività politica, nel senso più lato possibile, senza la quale non ci si sviluppa né ci si difende dalla crisi e dall’arretramento di posizioni di fronte ai competitori.

Quando però c’è necessità di un dato mezzo, chi lo possiede ne approfitterà, in specie quando i bisogni d’esso aumentano (appunto nelle epoche di trasformazione); e approfittarne significa credere ad un certo punto di poter fare denaro tramite denaro, inventare trucchi, imbrogli, creare le famose “bolle speculative”, ecc. La “distorsione” del sistema è intrinseca al funzionamento specifico d’esso. Il settore che manovra denaro tende ad autonomizzarsi rispetto al resto, ha le sue imprese, ecc; quindi chi dirige queste ultime agisce come se tutto il mondo fosse solo quello della finanza.”

Ma tutto il mondo, appunto, non è solo quello della finanza che anzi la Politica scuote e ridimensiona quando esso si scoordina dagli interessi strategici e conflittuali degli Stati (almeno se quest’ultimi si dimostrano indipendenti e guidati da agenti strategici autonomi e lungimiranti… il contrario di quel che avviene da noi insomma). Attualmente, infatti, ci sono potenze economiche e militari che si servono degli strumenti finanziari per portare al collasso le formazioni sociali (paesi) meno attrezzate e più deboli, celando il pugno di ferro della minaccia politica o militare dentro il guanto di velluto delle leggi di mercato. Pertanto, affermiamo con sicurezza e senza tema di smentita che nessuna Fine della Storia è all’orizzonte; in verità c’è chi la sa raccontare bene la grande narrazione catastrofistica per gabbare e comandare sugli altri e c’è, al contrario, chi si fa irretire per paura di agire e di criticare o addirittura per tirarci a campare.

In questo caos sociale e mentale, che peraltro annuncia grandi mutamenti geopolitici, le erbacce utopiche spuntano senza sosta per coprire il campo conflittuale dove si trovano ad agire soggetti e gruppi sociali.

Tra tutte le bizzarrie che ci propalano gli intellettuali che scansano il ragionamento scientifico come la peste, essendo più agevole inventarsi le favole da vendere al volgo e al colto, quella attualmente più diffusa è la decrescita la quale partendo dal postulato per cui avremmo raggiunto i limiti dello sviluppo, si tratterebbe ormai di tornare indietro ai tempi in cui non era l’offerta a sospingere la domanda verso bisogni creati ad arte e alle fasi in cui produzione umana e natura non erano in contrasto ma una si accordava armonicamente all’altra. A parte il romanticismo di determinate affermazioni che dimostrano come tali discettazioni non appartengano a questa terra, essendo fuori dal tempo e dallo spazio reale, costoro, in sostanza, vorrebbero modificare il modo dello scambio e della produzione con la bacchetta magica, rigenerando all’interno della formazione capitalistica piccole oasi economiche e sociali che sfuggano alle leggi del capitale. O meglio, vogliono godere del grado di progresso a cui l’umanità è giunta grazie al capitalismo (la chiamano abbondanza frugale) ma senza gli eccessi, le contraddizioni, i conflitti che detto modo di produzione e riproduzione ha storicamente generato. I decrescisti non comprendono, perché proprio non ci arrivano essendo decresciuti nel cervello, che laddove si pretende una giusta proporzionalità della produzione e del consumo, per salvare l’umanità o il pianeta, si dovrà anche accettare, volenti o nolenti, le pregresse condizioni della produzione industriale e artigiana nonché i rapporti sociali che la informavano. Altro che democrazia di internet o agricoltura a km0, costoro si preparino a sottoporsi agli ordini di qualche feudatario o a coltivare la terra facendo trascinare l’aratro dal bue. Credete forse che queste utopie appartengano alla nostra contemporaneità? Pensate che i decrescisti siano moderni, cioè gente che ha avuto un’idea nuova per la salute del pianeta e dei suoi abitanti? Sono ciarlatani nati anziani, sono escrescenze di ogni periodo di crisi, di disordine e di trapasso storico. Sono l’inganno che i dominanti foraggiano per intorbidire le acque sociali.

Sono così moderni che già nell’ottocento, travestiti da proudhoniani o da sismondiani, Marx li prendeva in giro e li irrideva come anche noi non possiamo esimerci dal fare nel XXI secolo:

 

“Questa giusta proporzione tra l’offerta e la domanda, che ricomincia ad essere l’oggetto di tanti pii desideri, da molto tempo ha cessato di esistere. E’ ormai divenuta una cosa antiquata. E’ stata possibile solo nei tempi in cui i mezzi di produzione erano limitati, in cui lo scambio si muoveva entro limiti estremamente ristretti; con la nascita della grande industria, questa giusta proporzione doveva cessare, e la produzione è stata fatalmente costretta a passare, in successione continua, attraverso vicissitudini di prosperità, di depressione, di crisi, di ristagno, di nuova prosperità, e via di seguito. Coloro che, come Sismondi, vogliono ritornare alla giusta proporzionalità della produzione, pur conservando le basi attuali della società, sono dei reazionari, poiché, per essere conseguenti, devono anche voler ripristinare tutte le altre condizioni dell’industria dei tempi passati.

Cos’era che manteneva la produzione nelle giuste proporzioni, o quasi? La domanda che si imponeva all’offerta, precedendola. La produzione seguiva passo passo il consumo. La grande industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può più attendere la domanda. La produzione precede il consumo l’offerta fa violenza alla domanda.

Nella società attuale, con l’industria basata sugli scambi individuali, l’anarchia della produzione, che è fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso.

Così, di due cose, l’una:

O volete le giuste proporzioni dai secoli passati, con i mezzi di produzione della nostra epoca, e allora siete al contempo reazionari e utopisti.

O volete il progresso senza l’anarchia; e allora, per conservare le forze produttive, dovete abbandonare gli scambi individuali.

Gli scambi individuali infatti non sono conciliabili se non con la piccola industria dei secoli passati, e con il suo corollario di “giusta proporzione”, ovvero anche con la grande industria, ma in questo caso con tutto il suo seguito di miseria e di anarchia”. (Karl Marx, Miseria della Filosofia)