SCHUMPETER, DALLO SVILUPPO ECONOMICO AL CREDITO FINANZIARIO

L’ottobre di Wall-Street del ’29 ha rappresentato la prima grande crisi del capitalismo, di poco inferiore agli effetti catastrofici di una grande guerra, per la grande disoccupazione creatasi e per la riduzione drastica della produzione dovuta al crollo della domanda dei beni; gli economisti tradizionali (neoclassici) ed i marxisti interpretarono la crisi da “sovrapproduzione” come fenomeno dipendente da fattori esterni all’economia come per esempio le rigidità del mercato del lavoro (alti salari), oppure la centralizzazione monopolistica dei capitali. Su questi due cause iniziò una diatriba tra gli economisti e politici piuttosto enfatica che durò tutto il novecento e che si concretizzò in particolare ed in modo dominante con tutte le politiche con “carattere statalistico”. L’intervento tampone di risposta alla crisi del ’29 fu il New Deal in Usa di Roosvelt con gli ampliamenti di Spesa Pubblica (statale) per opere pubbliche ed un salario minimo garantito per rallentare la diminuzione della domanda di beni; su questa efficace esperienza di intervento della Spesa Pubblica in economia, nasce come riflessione “ La Teoria dell’occupazione, dell’interesse e della moneta,” testo scritto da Keynes nel 1933, che rappresentò successivamente alla morte dell’autore (1946), una specie di bibbia sulla Spesa Pubblica, da parte delle varie correnti neokeynesiane e marxiste.
Sulla crisi della fine degli anni Venti, tutti gli economisti delle varie tendenze (neoclassici,neokeynesiani, marxisti) concordarono anzitutto sulle “cause della crisi” derivate dalle caratteristiche esterne ai sistemi economici con le pubblicazioni di una estesa letteratura economica che ha accompagnato la discussione in tutto il secolo scorso. L’interpretazione ricorrente data sulle cause endogene della crisi non poteva non fare risalire all’intervento dello Stato come supremo regolatore della(e) crisi economica in generale. Su questo aspetto la convergenza, tra neokeynesismo (lasciando in disparte l’intellettuale Keynes che nella sua teoria erano disposte ben altre motivazioni teoriche) ed il marxismo, fu totale. La Spesa Pubblica assunse nel tempo caratteri e finalità completamente diversa dagli intenti originari di Keynes (nel suo “Credito aggiuntivo della Spesa Pubblica” come mitigatore della crisi dal lato monetario) sostituendo ad essa l’idea invasiva della Spesa Pubblica come supremo regolatore di ogni crisi. In America la “crisi” ebbe risvolti completamente diversi perché agli interventi di Spesa Pubblica sull’economia si accompagnò la necessità di liberare capitali con il “Capitalismo Manageriale” con importanti cambiamenti nelle strutture societarie americane fin dagli anni ’30, e che trovò importanti teorici e sostenitori nella “rivoluzione dei dirigenti” in Burnham e Berle (anche se l’uscita definitiva dalla crisi fu la seconda guerra mondiale). L’estendersi dello spazio di raccolta di capitali, nella separazione di un potere distinto dalla proprietà attraverso i “Managers,” garantì un potere di controllo dall’alto, allargando nel contempo, in modo considerevole le basi degli azionisti in una sorta di democrazia di massa delle proprietà guidata da un dirigismo (manageriale) centralizzato come governo delle grandi imprese, in una più estesa formazione di capitali; il dilatarsi dello spazio di manovra nella raccolta di capitali (dovuta ad una più marcata centralizzazione finanziaria dei capitali) per alimentare il Centro Usa a più alta competizione, spingeva sempre più ai margini produttivi l’ economie europee relegandole ad un sistema periferico a bassa intensità produttiva ma con alta erogazione di Spesa Pubblica (relativamente al sistema paese): una direzione statalista e centralizzata della Spesa Pubblica (delle economie europee) con un management pubblico, in “coazione a ripetere” tenuto sotto controllo dei vari organismi internazionali, in dipendenza Usa (vedi, Fmi, … ) entro i parametri imposti tra deficit di Spesa(pubblica) e Pil; in questo contesto il dominio manovrato della Spesa Pubblica (europea) assunse i caratteri prevalenti di Direzione Politica dell’economica compatibile e complementare allo sviluppo del paese centrale cercando nel contempo di tenere in vita industrie assistite e non competitive (vedi il caso Italia) insieme al finanziamento della coesione sociale nel “ Welfare”.
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Non è un caso che le interpretazioni del grande economista Schumpeter, nel suo “Capitalismo, socialismo e democrazia” già in pieno conflitto (1942), predisse (in particolare, nei confronti dell’Europa) un predominio realizzato anglo-americano attraverso “un imperialismo etico, un ordine mondiale garantito da una forza militare e da una organizzazione sociale definita come socialismo militarista. Ma è chiaro che il controllo e la direzione politica del mondo sarebbero enormemente favoriti dalla creazione dalla ricostruzione e creazione ex novo di stati piccoli ed inefficienti in Europa e dall’installazione di governi di tipo laburista o socialdemocratico. Specialmente in Germania e in Italia, i residui dei partiti socialdemocratici fornirebbero il solo materiale politico con cui costruire governi disposti ad accettare per qualcosa più di un periodo di prostrazione il nuovo ordine mondiale, e a collaborare senza riserve con gli agenti del protettorato anglo-americano non c’è molta ragione di credere che il socialismo significhi l’avvento della civiltà cara ai socialisti ortodossi. E’ molto più probabile che sia un socialismo con qualche tratto fascista.”
La storia si sa come andò a finire, l’imperialismo fu a marca Usa, ed in subordine, governi europei furono a prevalenza socialdemocratica con possibilità di alternanze; rimase per lungo tempo (e fino a tutt’oggi, circa 60 anni) il dirigismo statale con il culto della Spesa Pubblica il “deus ex machina” del sistema economico, ed attraverso essa, la soluzione di ogni crisi economica. L’idea dello sviluppo rimase eternamente legata ad un concetto di Spesa come grande erogatore di servizi e beni, nonchè contenitore ideologico e luogo di mediazione dello scambio politico tra imprese, partiti e cittadini,con la creazione per quest’ultimi dello Stato Sociale. Sfugge in tutto questo, qualcosa di più profondo, del resto messo chiaramente in luce da Schumpeter, nelle sue raffinate analisi strutturali dell’economia che nasce da un suo retroterra politico culturale prima, ministro delle finanze nel governo austriaco del 1919 (nell’immediata prima guerra mondiale) e successivamente, come consulente Economico della Repubblica di Waimer fino alla sua partenza in Usa nel ‘32, poco prima dell’avvento del nazismo. Le previsioni dell’economista austriaco circa il futuro beghino dei partiti socialdemocratici europei (non dissimile quello piciista in Italia), si rivelarono abbastanza esatte e nascevano oltre che sulle “ideologie sulle socializzazioni produttive e finanziarie” nei caratteri unificati del Capitalismo Monopolista di Stato e come conseguenza a quest’ultimo, nelle direzioni di sviluppo da dare agli investimenti attraverso la Spesa Pubblica. Del resto, l’identificazione dei miraggi ideologici dei “Socialismi Finanziari” delle socialdemocrazie e dei partiti comunisti aiutati in questo già dalle pervasività delle banche Usa (messo in evidenza nel mio ultimo articolo” Il Capitalismo Finanziario Italiano”), avevano favorito nel dopo crisi del ’29, la formazione degli scudi protettivi con i regimi suindicati, nelle economie di guerra del nazifascismo, onde far fronte alle devastazioni del Capitale Finanziario (Usa). Tale pervasività finanziaria riprese con caratteri nuovi nel secondo dopoguerra e si sviluppò in tutta l’area europea creando quel retroterra suindicato con imprese a bassa competività, e soprattutto, con l’eredità di strutture statali europee cresciute in modo abnorme con l’imposizione fiscale di guerra a carico delle aziende e dei cittadini; strutture statali che, con il beneplacito Usa, favorirono la penetrazione del Capitale Finanziaro in Europa, prosciugando risorse (finanziarie) e limitando con ciò la competizione d’impresa. Le enormi burocrazie europee, sopravvissute all’economia di guerra, vennero tenute in vita con la crescita, sempre maggiore, della Spesa Pubblica in tutto il periodo post bellico, limitando i meccanismi dell’accumulazione e perdendo completamente l’idea dello sviluppo e della competizione, ripetendo con ciò, gli stessi errori commessi prima dell’avvento del nazi-fascismo. In tutto questo, vi fu un proliferare nelle Università europee (in particolare in quelle italiane) di fior di economisti neokeynesiani nell’ombra del Capitalismo di Stato, confinando in un ruolo del tutto marginale il grande Schumpeter, nelle sue pur brillanti analisi dello sviluppo economico ed in chiara controtendenza all’idea della competizione (e dello sviluppo).
Questa lunga premessa sulla Spesa Pubblica o comunque sul “rapporto pubblico-privato” rinvio alla interessante lettura di La Grassa (uscito nel blog ripensaremarx.it) dove si ricorda che il “pubblico è solo in grado di esprimere, in date congiunture, una più penetrante incidenza della sfera politica in quella economica.” La lettura di Schumpeter è in questa chiave che, anche se non era
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pienamente elaborata dall’autore, era comunque ben presente l’idea che dalla crisi non si poteva uscire con un intervento dall’esterno del sistema economico e, ben consapevole delle teorie che stavano dietro alle crisi e alle ideologie politiche pressappochiste e fasulle di tutti il socialismi e marxismi statalisti europei del dopo Marx, potessero far coppia al liberismo americano, espressione quest’ultima di una altrettanta prevalenza della struttura economica competitiva nella politiche del paese Centrale Usa nei confronti di quelle del vecchio continente.
Lo sviluppo economico secondo Schumpeter, nel suo libro sulla “Teoria dello Sviluppo Economico” del 1911 ( edizione rimasta inalterata fino alla quarta del 1937), non può essere ridotto ad oggetto della storia economica soltanto dalle condizioni economiche preesistenti; da questo punto di vista, la “teoria economica” assume un ruolo del tutto subordinato: non saranno i fatti storici dei singoli eventi a mutare in modo significativo il corso ordinario e abituale del “flusso economico circolare,” similmente ad uno schema economico statico in equilibrio perfetto o quasi, già elaborato dall’economia classica senza sviluppo, con profitto zero e con “stipendio direzionale” dell’imprenditore. L’oggetto della “teoria economica” può avere maggiore incisione e spessore di elaborazione se si assume come suo campo di applicazione, nel “come si compie il mutamento e nel quale fenomeno economico determina. Il flusso economico circolare (del 1° capitolo) descrive la vita economica dal punto di vista della tendenza del sistema economico ad uno stato di equilibrio, cioè un adattamento ai dati esistenti nella formazione dei prezzi sulla base delle quantità dei beni, con la tendenza verso uno stato di equilibrio senza mai raggiungerlo; una tendenza di equilibrio soltanto ideale, sempre perseguita e mai raggiunta, dovuta ad una modifica continua dei dati economici; una “teoria statica” dei processi economici che spiega i mutamenti continui nel tempo, attraverso adattamenti costanti fatti di “piccoli passi.” Di converso, la necessità di una lettura economica, proposta dall’autore, che sia in grado di leggere i cambiamenti discontinui derivati dai grandi cambiamenti (rivoluzionari) che scaturiscono “dall’interno” della vita economica; da questo punto di vista lo sviluppo economico diventa un fenomeno che deve essere spiegato nei mutamenti della vita economica in modo endogeno, non imposti dall’esterno: quando per esempio il mutamento economico avviene per avvenimenti extra-sociali (condizioni naturali) o extra-economici (guerre,cambiamenti delle politiche commerciali, sociali ed economiche), o nelle tendenze dei gusti dei consumatori. Lo sviluppo economico diventa “lo spontaneo ed improvviso mutamento nei canali del flusso, la perturbazione dell’equilibrio che altera e sposta lo stato di equilibrio precedentemente esistente.” Schumpeter, pone nella sua teoria dello sviluppo l’elemento forte del reale spostamento d’equilibrio che avviene attraverso l’innovazione della produzione: “ è il produttore che di regola inizia il cambiamento economico e i consumatori, se necessario, sono da lui educati … Ogni produzione consiste nel combinare materiali e forze che si trovano alla nostra portata…la nuova combinazione può prodursi o effettivamente si produce solo in maniera discontinua… sorgono i fenomeni caratteristici dello sviluppo…lo sviluppo viene definito dall’introduzione di nuove combinazioni.” Ma, ”un diverso impiego delle forze produttive in economia (innovazione) non può essere attuato altro che mediante uno spostamento nel potere d’acquisto dei soggetti economici..” Su questo punto Schumpeter mette in evidenza che da una economia statica del “flusso circolare” non si può accantonare alcun fondo liquido monetario consistente ed in grado di far fronte ad un qualsiasi processo innovativo: il fondo di liquidità che và ad innestarsi nell’innovazione, non può nascere dal risparmio dello sviluppo statico precedente, ma creato “ex-novo.”
La “Teoria dello sviluppo economico” ha trovato un discreto numero di estimatori, anzitutto, per l’eclettismo dell’autore, onde rimettere in piedi l’Economia Politica ridotta ad uno specialismo ellittico nella versione del “Marginalismo” dei neoclassici e, nel tentativo di ritornare ad un’analisi strutturale dei grandi Sistemi Economici. C’è tuttavia un’ altro aspetto da aggiungere, forse il più importante, messo in ombra da gran parte degli economisti e dai vari marxismi, l’idea cioè che l’imprenditore è colui che innova e che in quanto introduce innovazione diventa un prenditore di Capitali presso le Banche: l’(im)prenditore è soltanto colui che inizia una produzione di tipo nuovo che si pone accanto a quella vecchia, creando un nuovo mercato in contrapposizione a quest’ultima
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attraverso una “distruzione creatrice.” Il richiamo alla figura imprenditore come una sorta di capitano di ventura (in colui che si assume il rischio dell’innovazione) ricolloca al centro dell’analisi l’economia, l’Impresa come processo sistemico di produzione, in chiara controtendenza alle teorie monetaristiche degli economisti di fine Ottocento che, attraverso la “Teoria Quantitativa” ponevano nella funzione della Moneta (ed altri mezzi di pagamento) come una delle componenti fondamentali dello sviluppo e successivamente a questi, dal dopo crisi del ’29, nel dopoguerra con i neokeynesiani, ideologi della Spesa Pubblica.
La prima importante distinzione tra innovazione dell’imprenditore e credito bancario (capitolo III), cioè un finanziamento che precede la formazione dell’impresa innovatrice, colloca il rovescio della medaglia nell’estensione del Capitale Finanziario realizzato in dominanza sulla produzione, in una nuova posizione complementare e di supporto rispetto al Capitale Industriale nello stimolo propulsivo ad un nuovo sviluppo produttivo. Per arrivare a ristabilire la giusta direzione dello sviluppo attraverso una collocazione in via subordinata del Finanziario, Schumpeter pone l’elemento Capitale, non soltanto come fondo di beni di produzione e di consumo, ipotesi valida soltanto in un’economia statica, ma sopratutto come nuovo fattore aggiuntivo (di Capitale) che lo sviluppo introduce nel processo economico: “è il mercato dei capitali.. che l’uomo d’affari chiama mercato monetario, quello su cui ogni giornale informa quotidianamente sotto questo titolo.. ma sul mercato monetario non viene trattata semplicemente moneta.. in ogni caso il mercato dei capitali è la stessa cosa del fenomeno che la pratica definisce mercato monetario;” un mercato di capitali che convive, nei suoi flussi all’interno di un economia statica insieme a quelli (monetari) aggiuntivi creati dallo sviluppo; le imprese innovatrici convivono all’inizio con quelle vecchie, entrambi bisognosi di capitali a fronte di banchieri offerenti; l’oggetto della contrattazione è lo scambio tra potere d’acquisto presente contro quello futuro; “ in questa quotidiana battaglia dei prezzi tra le parti si decide il destino dello sviluppo futuro…. Il mercato monetario è sempre per così dire il quartier generale dell’economia capitalistica, da cui partono gli ordini ai suoi singoli settori e ciò di cui in esso si discute…la determinazione dei piani di sviluppo successivo.”
Sul punto essenziale del Capitale aggiuntivo per l’investimento e del Credito all’Innovazione, stà tutta la differenza della funzione della moneta (e suoi sostituti) rispetto ai (Neo)Classici della Teoria Quantitativa; un’analisi quella di Schumpeter condotta sul filo di un’impasse teorica decisiva, nell’analisi del passaggio dal finanziamento allo sviluppo e nell’affermazione dei due aspetti essenziali del Credito: anzitutto, la possibilità di finanziare nuovi mezzi di produzione che sostituiscano quelli vecchi ancora operanti, obbligando con ciò il mercato a creare una nuova domanda di beni; l’altro aspetto riguarda il fatto che il credito non nasce da risultati di risparmi di sviluppi precedenti. In questo caso, la natura del credito ha la caratteristica di svolgere la funzione particolare di creazione di nuova domanda di beni. ”La concessione del credito, in questo senso, agisce come un ingiunzione al sistema economico di subordinarsi agli scopi dell’imprenditore, come un ordine ai beni di cui egli ha bisogno..E questa funzione è il fondamento che sta alla base del moderno edificio del credito” Su quest’ultima affermazione si può scoprire tutta la novità in controtendenza, alle teorie economiche del secolo scorso che comunque convergevano nell’unica misura di interventi alle crisi già in corso, principalmente con l’intervento monetario come funzione esiziale e sostitutiva all’idea dello sviluppo economico. La teoria di Schumpeter è risultata nel tempo quella che più si è avvicinata alle pratiche delle strategie d’impresa che hanno garantito nell’innovazione dei prodotti, gli sviluppi economici realizzati nel corso di tutto il Novecento ( in particolare, nella seconda parte del Novecento, con i prodotti dell’informatica, delle biotecnologie, nanotecnologie, dell’elettronica..); del resto, Il modello di sviluppo proposto sta dentro un campo di ricerca di avvicendamento di cicli economici, i cui passaggi tra un ciclo e l’altro sono dati da discontinuità segnate dall’innovazioni e legate alla spiegazione della “singolarità di una serie di fenomeni” che compaiono all’interno delle stesse fluttuazioni cicliche. Il lavoro di ricerca stà dentro un modello teorico all’interno del quale si possono assumere sempre nuovi punti di vista attraverso “verifiche” da intendersi, che “nessun accertamento non analizzato, non depurato, può mai dimostrare propriamente la verità o la falsità di una’asserzione teorica.”
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I cambiamenti di un sistema economico nascono dal proprio interno da “una fonte di energia” in grado di scombinare qualsiasi equilibrio raggiunto, un’idea forza che nasce, come lo stesso autore riconosce principalmente da Marx, anche se poi diverge da esso nell’elaborazione estremamente sintetica della sua “teoria dello sviluppo”, mai più ripresa nei suoi risvolti più importanti nel versante delle reazioni del sistema economico al momento dell’introduzione dell’innovazioni: la potenza derivante dall’ immissione della novità della nuova merce, rappresenta una nuova energia in grado di propagarsi, di acquistare sempre più nuova forza e di investire inopinatamente i gradi alti e bassi della struttura sociale: un sovvertimento che nasce in un sommovimento più profondo, alla base della struttura economica sociale Una chiave di lettura quella dello sviluppo, conchiusa in un’ipotesi teorica decisamente nuova più legata alla realtà, nel grande mare dei modelli economici tutti abbastanza simili, tra economie statiche o in equilibrio, insieme ad un diverso modo di indagare l’economia “nel divenire delle società come una entità realmente indivisibile.”
G.D. settembre 07
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