SERGIO ROMANO “RIVOLUZIONARIO” E PANEBIANCO PREOCCUPATO

pan

 

Sul Corriere della sera del 08.02.2013 è apparso un articolo-recensione di Antonio Carioti riguardante l’ultimo libro pubblicato da Sergio Romano intitolato Morire di democrazia. Così scrive Carioti nel suo articolo – dal titolo pomposo: Europeismo rivoluzionario – riportando le tesi di Romano:

<<I processi di globalizzazione hanno indebolito la sovranità degli Stati, ma noi continuiamo a votare per governi nazionali la cui capacità d’incidenza va scemando a vista d’occhio. E i politici, per farsi eleggere, devono da una parte impiegare enormi somme di denaro (non sempre di provenienza lecita) e dall’altra fare grandi promesse destinate a non essere mantenute. C’è da stupirsi se infuriano i demagoghi dell’antipolitica, non solo in Italia? Nel frattempo acquistano sempre maggiore influenza poteri privi di legittimazione democratica, in primo luogo l’establishment finanziario «composto – scrive Romano – da persone che non hanno altra cittadinanza fuor che quella del “mercato” e reagiscono con insofferenza e dispetto a ogni tentativo pubblico di regolamentare il loro mestiere»>>.

Sin qui niente di nuovo; sembra di vedere riproposta la solita affermazione riguardante i poteri devastanti di una finanza internazionale onnipotente e incontrollabile nonostante i risibili tentativi degli stati di legiferare per limitarne l’egemonia. Riguardo al ruolo della Ue e delle prospettive di una sua efficace riforma, l’ex diplomatico italiano propone la realizzazione effettiva di uno Stato federale: si tratterebbe di attribuire al Parlamento di Strasburgo, scrive Romano «il diritto di esprimere un governo e ai cittadini dell’Ue quello di eleggere il loro presidente». Quindi, in sostanza, si proporrebbe un modello semipresidenziale alla francese esteso all’intera Unione, un cambiamento rilevante rispetto alla camera di compensazione tra le istanze dei diversi Stati che sono oggi le istituzioni europee. Anche queste affermazioni di Romano, però, non ci dicono nulla di significativo ma improvvisamente l’articolo di Carioti, riportando il contenuto del saggio in questione, assume un tono del tutto differente. Romano arriva a prospettare, a quanto pare, e uscendo dai limiti di un realismo critico serio, ma non “estremista”

<<come compito primario dell’Europa unita una svolta radicale in politica estera, cioè la proclamazione di una neutralità di tipo svizzero, la cui immediata conseguenza sarebbe la scelta di «congedare le basi americane» e sciogliere la Nato o tramutarla in qualcosa di profondamente diverso dall’alleanza che abbiamo conosciuto fino ad adesso>>.

Carioti logicamente di fronte a simili affermazioni pone delle pesanti obiezioni. Il Regno Unito, ma anche alcuni paesi scandinavi e dell’Est europeo, non accetterebbero mai una simile soluzione e poi gli stessi paesi più importanti del continente, a partire dalla Germania, dovrebbero rendersi conto di dover gestire da soli i problemi economici di questa Europa federata più “ristretta”. Da soli e con gli Usa che certo non resterebbe con le mani in mano di fronte a una simile sfida, sia sul fronte politico-militare che su quello economico. Insomma Romano proporrebbe una scelta audace e risoluta da parte dei paesi guida dell’Europa continentale e, anche se nell’articolo non se ne parla, uno spostamento verso Est (Russia in particolare) dell’asse politico dell’Unione. E in conclusione del suo libro, rispondendo preventivamente alle possibili obiezioni, ammonisce i moderati filoamericani prospettando nei prossimi anni la crescita, tutt’altro che improbabile, di forti movimenti populisti antieuropei (cioè anti-Ue) pronti a dare battaglia proprio per riaffermare l’autonomia dagli Usa e la piena sovranità statale in una solida alleanza tra sistemi-paese nel cuore del vecchio continente. I sostenitori della “democrazia” dovrebbero quindi rendersi conto che continuare per la vecchia strada produrrà uno sfacelo completo e capire che il coraggio dell’indipendenza e dell’autonomia – anche se questo significa dover sfidare la superpotenza d’oltreoceano – non è un opzione tra le altre ma un “dovere” e una “necessità”.

Cambiando, quasi, argomento passiamo all’articolo, sempre sul Corriere, di A. Panebianco del 10.02.2013. Il politologo propone uno scenario post-elettorale che rientra nelle previsioni della maggior parte degli analisti, con qualche aggiunta:

<<una crescita delle spinte centrifughe e, per diretta conseguenza, della frammentazione parlamentare, unita alla ricostituzione di un «centro» di media grandezza che dovrà acconciarsi, almeno per un po’, a governare, in posizione subordinata, con il probabile vincitore (il Pd). In attesa che una riforma elettorale proporzionale mandi definitivamente in cavalleria bipolarismo e alternanza. Ciò sarebbe coerente con la tradizione, e con l’idea secondo cui una «democrazia difficile» come la nostra si possa governare solo occupando il centro e tagliando le ali estreme (da noi sempre molto robuste)>>.

Parlare a tutt’oggi di “ali estreme” molto “robuste” ci pare, comunque, fuori luogo; quello che appare rilevante è, invece, l’alternarsi sulla scena di forti movimenti populisti, radicati spesso sul territorio, a vocazione non “antipolitica” – come troppo spesso si ripete – ma decisamente antidemocratica, appoggiati da un numero crescente di lavoratori disoccupati, artigiani e piccoli imprenditori sul lastrico a cui ormai non interessa un bel nulla della cosiddetta “democrazia” ma che vogliono tornare a lavorare, vivere e produrre in maniera decente. Continua così, poi, Panebianco:

<<Tradizione a parte, chi punta a ricostituire il centro ha dalla sua anche un’altra ragione di forza. Il fatto che tale centro sia, in Italia, il più titolato a mantenere saldo il rapporto con l’Unione Europea.[…] Anche se Mario Monti è al momento il negoziatore più autorevole di cui l’Italia possa disporre in Europa la verità è che noi l’Europa dobbiamo per lo più subirla (accettarne i diktat ), non possiamo davvero co-gestirla, governarla insieme agli altri. Sarebbe strano il contrario, tenuto conto delle caratteristiche del Paese. L’Italia non è la Francia né la Germania, e nemmeno la Spagna. L’Italia è, in grande, più simile al Belgio. Può correre, in prospettiva, il rischio di diventare un failed State , uno Stato fallito. L’appartenenza all’Europa, i vincoli europei, sono una assicurazione contro ciò che potremmo fare a noi stessi>>.

Appare evidente che per il politologo la Ue, nell’attuale suo modo di essere, viene ritenuta una sorta di garanzia per un paese fragile e “anarchico” come il nostro; anche lui, però, più avanti, si sbilancia un poco e prova ad affermare qualcosa di “serio”:

<< Il Paese è economicamente fermo da un ventennio e noi, da bravi alunni che hanno fatto i compiti, imputiamo la stasi alla «mancanza di riforme». Ma da che cosa dipende ciò se non dal fatto che le «coalizioni distributive» (quelle che si limitano a distribuire la ricchezza esistente) sono assai più potenti di quelle produttive (quelle che generano ricchezza), così potenti che aggredirle sul serio – nemmeno il governo Monti lo ha fatto – scatenerebbe conflitti incontrollabili?
Per citare un esempio a caso, si guardi al decreto del governo Monti sull’Ilva. L’Italia che tifava per il decreto (che voleva cioè contemperare bonifica e salvataggio di un vitale comparto industriale) e l’Italia che tifava per l’azione della magistratura, e al diavolo tutto il resto, erano, e sono, due Italie completamente diverse, due «società» con opposte credenze, scale di valori, interessi. Due società fra loro estranee, anzi nemiche, che solo uno scherzo del destino obbliga a convivere nello stesso territorio>>.

Per una volta l’esimio professore ha “messo i piedi nel piatto”; le contraddizioni nel nostro paese, aggravate dalla crisi mondiale epocale, rischiano di far esplodere l’intero “edificio” a meno che non ci sia qualcuno che abbatta quello che c’è da abbattere e provi seriamente a ricostruire. Sarà rischioso per tutti ma forse non c’è alternativa.

Mauro T. 10.02.2013