Discutendo di teoria con di G. La Grassa

Nell’analizzare il modo di produzione capitalistico La Grassa attualmente ritiene che sia fondamentale esaminare il conflitto strategico interdominanti, ovvero focalizzare l’attenzione innanzi tutto sulla competizione che intercorre tra gli agenti capitalistici, la quale è finalizzata principalmente all’ottenimento di un maggiore grado di dominanza.

E’ evidente che questa posizione teorica, privilegiando la suddetta azione conflittuale rispetto ad altri elementi rinvenibili nell’opera marxiana e diversamente sviluppati dalle numerose correnti del marxismo storico  [verso le quali è, peraltro, notevolmente critica], si ponga come fine precipuo il rilevare l’aspetto politico sottostante alle dinamiche capitalistiche, le quali, secondo La Grassa, non sarebbero comprese appieno se ci si dovesse soffermare sulla sola economia, considerando esclusivamente il profitto a scapito dell’analisi delle più complesse forme di dominio esistenti nella società capitalistica.

            L’incipit è chiaro: l’agire economico è politico! L’obiettivo polemico anche: il discorso puramente economico, tanto caro ai sinistri accademici quanto agli ortodossi economicisti di diversa origine, è sicuramente perseguibile in ambito speculativo, altresì è improponibile, a maggior ragione dopo più di un secolo di dibattiti non sempre proficui, all’interno di una pratica teorica che si pensa comunista.

 

            E’ bene precisare, comunque, che La Grassa, da  economista, con il suo argomentare non intende certamente colpire i seguaci della "triste scienza" con l’accusa di eccessiva astrattezza, infatti in un suo scritto del 12/2005 ironizza riguardo ad un economista insignito del nobel presumibilmente per aver criticato la razionalità conoscitiva illimitata presupposta dall’economia neoclassica [se non abbiamo inteso male, il nobel in questione è quello del "comportamento amministrativo", ovvero H. Simon]. Inoltre, si ricorda che La Grassa non è certamente ascrivibile nella schiera dei marxisti che sovente confondono l’analisi del modo di produzione capitalistico, forma generale, con quella concernente la formazione economico-sociale capitalistica, situazione concreta [egli, di certo, non sovrappone "teoria e prassi" e non è dimentico della suddetta distinzione evidenziata particolarmente dall’impostazione althusseriana; anzi, è tra i pochi che la rivendica e la rielabora!].

 

            Passiamo a considerare, dunque, le osservazioni dello studioso: la principale operazione teorica che lo contraddistingue è <<la sostituzione del conflitto strategico alla proprietà (dei mezzi di produzione) in quanto concetto centrale del suddetto modo di produzione>> [Perché il conflitto strategico?, 01/2005]; il mutamento che propone in campo marxista appare di rilevanza paradigmatica, dato che tradizionalmente in questo ambito si è intenti <<a trattare la proprietà in senso meramente giuridico, sottintendendo che essa [è], nel capitalismo, quella regolata dal regime del diritto privato. In questo modo, ogni forma pubblica di proprietà [è] considerata almeno l’anticamera di una formazione sociale diversa, quella socialistica…[ ] infine, il capitalismo [è] identificato con la proprietà privata mentre quella statale [viene] ritenuta caratteristica precipua del socialismo o almeno di una formazione sociale di transizione ad esso>> [Ibidem].

 

            Per comprendere l’importanza di quanto sostenuto, tralasciando l’annosa discussione circa il ruolo dello Stato nelle opere di Marx ed Engels [facciamo solo presente che il filosofo francese Henri Lefebvre, qualche decennio fa, ha notato come storicamente Lassalle abbia purtroppo prevalso su Marx], occorre ricordare che ad oggi le "strategie" delle forze politiche di presunta matrice comunista non si spingono oltre la mera rivendicazione dell’intervento pubblico-statale nella sfera economica, intendendo ciò per l’appunto come un’azione intrinsecamente portatrice di istanze socialmente anticapitalistiche. E’ chiaro, invece, che in tal modo non si fa altro che seguire e riprodurre errati riti ideologici, che precludono una seria riconsiderazione critica delle numerose incongruenze sviluppatesi nella prassi dei partiti comunisti europei e soprattutto nel "socialismo reale" [non tacendo, per di più, sul fatto che una simile concezione da decenni svolge ormai una sola funzione pratica: giustificare l’osceno opportunismo riformista dei partiti comunisti, tesi unicamente ad occupare quanti più posti di rilievo possibili, in realtà soltanto delle briciole, nell’ambito degli apparati politico-amministrativi locali, nazionali ed europei].

 

            La Grassa, dunque, invita marxianamente ad <<andare dietro la forma per attingere il significato reale dell’espressione proprietà…[ ] La prima mossa è quindi la precisazione che la proprietà – in quanto modo dell’appropriazione, con controllo d’uso, dei prodotti – deve essere sostanziata da un reale potere di disposizione da esercitare sui mezzi produttivi. Questo reale potere di disporre (dei mezzi) implica almeno due fattori cruciali. E’ innanzitutto necessario sapere come utilizzare detti mezzi…[ovvero, il ] sapere produttivo. […] L’altro elemento è legato all’esercizio – a volte pacifico a volte violento – del potere politico e ideologico (meglio ancora, culturale)  >> [Ibidem].

 

            Ci sembra che in questa lunga citazione risuoni decisamente l’eco delle analisi condotte tra gli anni ’60-’70 dall’economista marxista francese Charles Bettelheim, secondo cui, inteso che il possesso è la << capacità di mettere in opera i mezzi di produzione >>, mentre la proprietà << è costituita dal potere di adibire… in particolare i mezzi di produzione a date utilizzazioni e di disporre dei prodotti ottenuti>>, questa << funziona come potere in quanto è riconosciuta come tale, cioè fin quando non è messa in causa da un processo di lotta di classe ideologica >> [ Ch. Bettelheim, Calcolo economico e forme di proprietà, pp.70-72 ].

 La Grassa infatti sostiene: << deve esserci la capacità dei gruppi divenuti dominanti di far prevalere una precisa ideologia – diffondendola e radicandola nella società tutta, in modo da farla diventare una precisa ideologia – che affermi la validità sociale e la legittimità sostanziale dei principi regolanti la riproduzione dei rapporti sociali >> [Perché il conflitto strategico? 01/2005].

 

            Il dominio e la coesione tipici della società capitalistica, dunque, presumibilmente sono fondati sulla relazione ed interazione di diversi agenti dominanti che si muovono in più sfere sociali, le quali per approssimazione potrebbero essere definite e distinte come segue: 1) "economico-politica" [con le ulteriori ripartizioni industriale e finanziaria]; 2) politico-istituzionale; 3) ideologico-culturale.

 E’ a tutti noto il predominio che all’interno della tradizione marxista è stato accordato alla sfera economica rispetto alle altre, intese come sostanzialmente dipendenti – in ultima istanza – dalla prima. Questa concezione ha indubbiamente rappresentato il fulcro dell’analisi comunista della società capitalistica [presente tanto nei più contorti scritti di dottrina, quanto nei testi divulgativi in uso presso partito, partitini e gruppi vari], ma ci sembra giusto che almeno in sede teorica ci si ponga l’obiettivo di analizzare il suddetto "predominio dell’economico", evitando di assumerlo come un ready made e ridefinendone eventualmente il ruolo, non foss’ altro per verificarne l’operatività nella comprensione della struttura e delle dinamiche capitalistiche.

 

            Prima di procedere oltre, si noti, innanzi tutto, come abbiamo definito la prima sfera: "economico-politica". La terminologia rimanda a quanto si è in precedenza evidenziato, ossia l’intrinseca politicità dell’azione economica [da non confondere assolutamente con i legami sussistenti tra la politica partitica ed i potentati economico-finanziari], una concezione centrale nella odierna riflessione di La Grassa. Egli ritiene estremamente riduttivo pensare l’antagonismo capitale/lavoro – meglio, tra capitalisti e lavoratori, sottolineandone l’aspetto non metafisico – come il tratto tipico del capitalismo, considerandolo peraltro come motore di una transizione verso un differente modo di produzione sociale; per lo studioso l’elemento <<veramente caratterizzante, innervante l’intero tessuto della società capitalistica, è invece il conflitto di strategie tra gli agenti di tale forma di dominio…[conflitto in atto particolarmente, ma per nulla esclusivamente] nella sfera produttiva… provocandone la frammentazione e l’acuta dinamica interattiva>> [Discussione sugli agenti strategici, 10/2004]. Asserendo questo, non si deve ritenere che La Grassa disconosca la rilevanza del conflitto più o meno costantemente presente tra capitalisti e lavoratori salariati [figure e ruoli che per il momento non articoliamo], quanto piuttosto che egli la valuti come il mero <<punto di partenza di una considerazione relativa all’appropriazione di plusprodotto (in forma di valore)…se però da tale problema, e dalla sua risoluzione nella direzione indicata da Marx, si vuole immediatisticamente dedurre la rivoluzionarietà dei lavoratori salariati, il loro essere il perno attorno a cui ruoterebbe il processo di trasformazione del capitalismo in socialismo e comunismo, allora si va molto oltre ogni sensata conclusione […] Si deve ammettere che la convinzione, indubbiamente espressa da Marx e dal marxismo…della trasformazione per linee interne del modo di produzione capitalistico – ad opera di soggetti che sarebbero, in sé, già l’anticipazione di una futura società completamente diversa, e che dovrebbero solo esplicitare, realizzare, questa loro oggettiva funzione – deve ormai essere abbandonata senza più esitazioni>> [Ibidem].

 

            Da queste affermazioni si evince il peso che lo studioso attribuisce alla contraddizione in oggetto, la quale non potrà più essere assunta alla stregua di un vettore della rivoluzione; d’altronde, nel passato prossimo e remoto , al di là delle mistificazioni ideologiche e fideistiche, non ha mai ricoperto un simile ruolo, al punto che, fuori da ogni dogmatica, bisognerebbe ricordare quanto scritto da Lenin:<< …la classe operaia [leggi l’insieme dei lavoratori salariati] con le sue sole forze è in grado di elaborare soltanto [e comunque non sempre!] una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge…misure atte a rimediare ai mali che comporta la loro condizione, ma non…a sopprimere questa condizione, cioè a distruggere la sottomissione del lavoro al capitale>> [Lenin, Che fare].   

 Interponendoci nella citazione, abbiamo evidenziato che nemmeno la cosiddetta "coscienza tradunionista" si manifesta spontaneamente, tant’è che basta guardarsi attorno per rimanere impietriti dinanzi al grado e alla diffusione raggiunti dal dominio capitalistico nei luoghi di lavoro. La resistenza dei lavoratori è talmente minima da risultare insufficiente addirittura per la difesa delle predette condizioni di vita – in senso produttivo e riproduttivo, cioè durante e dopo l’esercizio dell’attività lavorativa -; figurarsi, quindi, come sia possibile pensare che la classe lavoratrice possa detenere la forza dirompente per decidere le sorti ed orientare il capitalismo!

 

            Fatte queste considerazioni, possiamo agevolmente immaginare lo stordimento accusato dagli eventuali interlocutori di fede comunista, anticipandone le probabili obiezioni [le imprecazioni le lasciamo perdere…]: "ma – ci potrebbe essere riferito -, senza il portatore soggettivo ed oggettivo della rivoluzione, cioè la classe dei lavoratori, il comunismo non sfumerebbe, perdendo la propria peculiarità di movimento politico saldamente ancorato allo sviluppo sociale? Inoltre, la differenza tra una generica condanna di impronta morale del capitalismo e quella di tipo scientifico, il comunismo, non si basa proprio sulla constatazione della contraddizione nella sfera economica tra forze produttive e rapporti di produzione?"

 

            Se questi ipotetici interrogativi possono considerarsi plausibili e rappresentativi delle posizioni marxiste in campo [tralasciando le opinioni cosiddette "crolliste"], ci si rende immediatamente conto che la discussione verte intorno agli snodi essenziali del pensiero marxiano e comunista.

 

            All’analisi di tali questioni La Grassa dedica una parte considerevole del suo lavoro critico, cercando di definire le ragioni strutturali per cui è necessario prendere atto della inesistenza di un soggetto collettivo in sé e per sé anticapitalistico, sgombrando il campo innanzi tutto dalle opinioni paranoiche secondo le quali le ipotesi prodotte da Marx sono senza dubbio valide nella loro interezza e la radicalità della massa dei lavoratori [ontologica?] è stata ed è ancora oggi puntualmente deviata e tradita dai vertici partitici. Eliminando preventivamente, dunque, questi atteggiamenti fideistici – che non hanno niente a che fare con un’analisi ragionata del capitalismo e che nulla di sensato possono dirci su di esso -, La Grassa indica nella non formazione del lavoratore collettivo cooperativo e/o del general intellect il reale corto circuito del discorso intrapreso da Marx e sviluppato da numerosi altri [fino ai pensatori post-operaisti italiani odierni].

 

            A tale riguardo, è indispensabile considerare che la concezione marxiana concernente la maturazione all’interno della formazione sociale capitalistica del lavoratore collettivo cooperativo – "dal dirigente all’ultimo manovale" –  era basata sulla constatazione, all’epoca per niente ovvia, dello sviluppo storico delle dinamiche capitalistiche nei termini di concentrazione e  centralizzazione dei capitali, in altre parole l’incremento delle forme delle imprese in senso sia strettamente tecnico-produttivo che mercantile e finanziario. Entrambi i fenomeni furono letti da Marx non solo in chiave prettamente economica, ma interpretati in tutta la loro ampia portata sociale, al punto che fu da lui prefigurata la tendenza capitalistica verso una crescente socializzazione delle forze produttive, la quale avrebbe comportato la scissione tra la mera proprietà ed il controllo delle imprese, sostanzialmente foriera di <<una trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici…capitalisti monetari>> [K. Marx, Il Capitale]. Questa situazione avrebbe dovuto condurre ad un differente modo di produzione sociale: <<La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati>> [K. Marx, Ibidem].

 

            La Grassa, richiamando e commentando questi importanti passi in un testo risalente alla metà degli anni ’90, riassumeva la previsione marxiana nel seguente modo: <<la centralizzazione e l’aumento dimensionale delle unità produttive riuniscono masse crescenti di lavoratori (produttori) e li spingono… a una cooperazione crescente nel processo di lavoro; processo che mette capo a valori d’uso, a ricchezza nella sua forma concreta, utile, cui si contrappone, secondo modalità sempre più antgonistiche, la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione…[la quale] diventa progressivamente estranea, parassitaria, e dunque antagonistica, rispetto agli interessi di questi individui realmente attivi>> [La Grassa, Per una teoria della società capitalistica, cap. 4, pp. 132-133].

 

            Indubbiamente, è innegabile che alcuni aspetti rilevati da Marx si siano storicamente diffusi nel corso del capitalismo – ad esempio, il processo centralizzante del capitale, il cosiddetto capitalismo mono/oligopolistico, ed anche la conseguente divisione funzionale tra proprietà giuridica e finanziaria, da una parte, e dall’altra, il controllo gestionale e produttivo delle imprese [punti sui quali, peraltro, ci concentreremo successivamente] – . Tuttavia, il punto debole della teoria marxiana [e della elaborazione della stragrande maggioranza degli epigoni] è rinvenibile all’interno della presunta socializzazione delle forze produttive, sulla cui analisi è bene soffermarsi, approfittando copiosamente delle osservazioni svolte da La Grassa in Saggi di critica dell’economia politica ed Il capitalismo lavorativo, entrambi dei libri estremamente interessanti, del medesimo periodo del testo indicato in precedenza, dunque risalenti ad una precedente fase di elaborazione teorica dello studioso, dalla quale si evincono molteplici indicazioni di ricerca e, a nostro parere, non pochi tratti in continuità con l’analisi odierna.

 

            Nel primo scritto egli invita a considerare la suddetta socializzazione <<sia in riferimento al lato oggettivo delle forze produttive sia con riguardo al loro lato soggettivo…

 

[ ] Dal punto di vista oggettivo, la socializzazione in questione dipende semplicemente dal fatto che i mezzi di produzione vengono impiegati sempre più come elementi fra loro combinati secondo dimensioni via via maggiori. Non è più possibile l’uso, e il controllo individuale, di semplici strumenti artigianali…[ ] Oggi, in presenza di grandi impianti ed attrezzature,…[di] tecnologia sempre più complessa e di ampie dimensioni [in cui] vengono incorporandosi la scienza e, più in generale, le "potenze mentali della produzione" (il general intellect)…[ ] la socializzazione della produzione implica l’universale interrelazione tra i prodotti [e gli atti] lavorativi umani… [ ] Nei sistemi socio-produttivi moderni, ogni produttore (collettivo) sussiste all’interno del generale processo di interscambio di attività produttive e di prodotti… Ogni produttore, insomma, dipende da tutti gli altri per la sua vita in società. Il riconoscimento della generale reciproca interdipendenza avrebbe dovuto condurre i vari produttori ad accordarsi per una produzione veramente collettiva, eliminando il carattere privato dell’appropriazione sia dei mezzi produttivi che dei prodotti. In realtà, questa conclusione…[del tutto interna all’opera marxiana, rimanda] a quello che abbiamo indicato come versante soggettivo della socializzazione crescente delle forze produttive>> [La Grassa, Saggi di critica dell’economia politica, pp. 36-38].

 

            E’ giusto quest’ultima tendenza richiamata nella divisione analitica appena citata, ovvero il raggrupparsi dell’insieme del "lavoro produttivo" sotto e contro il rapporto di produzione capitalistico, a non essersi però minimamente sviluppata, tanto che il capitalismo contemporaneo sembra, piuttosto, persistere nell’incrementare la divaricazione e la frammentazione del lavoro sociale complessivo, operando mediante il suo specifico carattere di dominio, con relativa subordinazione, esercitato nella sfera lavorativa.

 

            Per meglio comprendere, ricorriamo nuovamente a La Grassa:<<l’attività lavorativa complessiva sociale si suddivide in modo polifunzionale…e le diverse funzioni vengono esercitate da molti ruoli (occupati da soggetti empirici di volta in volta differenti) disposti in scala comunque gerarchica (per quanto flessibile essa sia). Tra di essi non è lecito supporre sempre la cooperazione, anzi semmai il contrario, poiché il principio del minimo mezzo [la cosiddetta razionalità strumentale, la quale, però, come vedremo, non è per nulla esclusiva nel definire la logica delle azioni tipiche delle imprese] spinge ogni strato di ruoli ad organizzare "razionalmente"…le prestazioni degli strati di ruoli subordinati>> [Ibidem, pp. 69-70].

 

            Seguendo quanto esposto dallo studioso, si deduce che l’insieme del lavoro socialmente combinato è riassumibile alla stregua di una struttura caratterizzata dalla presenza – nelle unità produttive denominate imprese tra di esse in concorrenza – di determinate funzioni, sostanzialmente definite dalle attività di direzione ed esecuzione [quella eventualmente tesa all’ideazione le interseca entrambe e non muta la tipicità della configurazione capitalistica; d’altra parte, oggi più che mai, è realmente fuorviante utilizzare la griglia concettuale basata sulla distinzione tra lavoro intellettuale e manuale!].         

 

            L’esercizio delle suddette funzioni conduce conseguentemente alla produzione di una elevata, ma al contempo elastica, gerarchizzazione dei ruoli lavorativi svolti da una mutevole molteplicità di lavoratori in carne ed ossa, attraversata da continui rivoluzionamenti che si verificano in ragione della combinazione di diversi elementi di notevole rilevanza, alcuni dei quali sono: le dinamiche di mercato ed i relativi riposizionamenti – ampliamenti e/o ristrutturazioni – aziendali; la diffusione del progresso tecnologico e lo sviluppo di innovativi comparti produttivi [per cui gli organici degli occupati subiscono variazioni a causa sia della divisione tecnica che sociale del lavoro]; il rinnovamento dell’assetto delle relazioni industriali [dalle rivendicazioni a carattere monetario fino agli interventi legislativi in ambito giuslavoristico]; la conflittualità tra frazioni della classe dominante [i cui effetti si propagano simultaneamente in più contesti, da quello finanziario e creditizio a quello istituzionale ed amministrativo].

 

            Mediante questa descrizione, probabilmente un pò macchinosa, non si vuole certo riprodurre l’andamento dell’esistente – che, quand’anche fosse possibile, risulterebbe tutto sommato inutile, considerate la dinamicità e quantità delle variabili da osservare – . L’intento, invece, è semplicemente quello di mostrare, seppur parzialmente, l’elevato grado di complessità prodotto dal capitalismo nella sfera lavorativa, la quale, contrariamente alle attese marxiane circa la formazione del lavoratore collettivo cooperativo – ed alla tanto agognata ed immaginata ricomposizione del soggetto rivoluzionario, data sempre per imminente dai post operaisti desideranti – risulta essere fondata su una parcellizzazione immancabilmente attraversata da istanze di verticalizzazione <<che comporta l’espropriazione soggettiva dei lavoratori, che non sono più in grado di comprendere…la via via più complessa organizzazione dei processi lavorativi, ormai coordinati [necessariamente] dalla direzione del capitale. La non conoscenza dell’insieme configura…la sottomissione reale del lavoro al capitale; subordinazione per ottenere la quale non vi è bisogno dell’esercizio di potere dispotico, poiché l’oggettività del processo, ormai diviso in tante operazioni parcellari, esige il coordinamento da parte di chi possiede la visione più complessiva>>[La Grassa, Saggi di critica dell’economia politica, p. 94].

 

            La realtà operativa in cui il lavoro si trova allora immerso – ricoprendo le posizioni più variegate: dai reparti di "trasformazione" più o meno manuale, ossia l’insieme della cosiddetta classe operaia e dei tecnici di fabbrica, fino alle divisioni amministrative e contabili, continuando fino a quelle di vendita e commercializzazione – non è per niente tesa verso l’omogeneizzazione dei differenti lavori concreti,  come si è invece pensato stesse accadendo durante l’epoca di forte utilizzo dei metodi organizzativi taylor-fordisti [osservando erroneamente solo alcuni settori produttivi o, ancora peggio, esclusivamente certe mansioni, in specie quelle operaie, all’opera nelle aziende dimensionalmente maggiori].

 

            Si deve dunque definitivamente riconoscere che nel mondo del lavoro non è rilevabile nessuna integrazione inerente a quello che precedentemente è stato qualificato come versante soggettivo, in quanto <<la cooperazione è un aspetto del tutto superficiale del lavoro, poiché esso è in realtà attraversato – sia orizzontalmente…, sia verticalmente – dal conflitto…[il quale, agendo nell’ambito  economico] spezza incessantemente la continuità del lavoro capitalistico e costituisce frammenti separati>> [La Grassa, Il capitalismo lavorativo, pp. 130, 146].

 

            In sintesi, quella che si osserva è una cooperazione di tipo conflittuale messa in atto dai vari segmenti di lavoro esecutivo, differenziati al loro interno dalla matrice dei ruoli gerarchici – mutevole in base alle esigenze tecniche,  organizzative e merceologiche delle unità produttive -, ed infine agiti e riconnessi tra di essi dalle direttive provenienti dagli agenti dominanti capitalistici [sui quali ci soffermeremo tra breve]. 

 

            La Grassa precisa che l’intero marxismo, finanche il migliore, non essendo stato capace di  analizzare appieno le implicazioni derivanti dalle complesse dinamiche di sviluppo della forma impresa, non ha sostanzialmente compreso che <<il coordinamento cooperativo esiste in una certa misura [sempre subordinata!] anche perché richiesto dalle direzioni capitalistiche che, nella disorganizzazione e disarmonia, vedono un attentato ai loro profitti>> [Perché il conflitto strategico? 01/2005]. Peraltro, secondo lo studioso, il pensiero marxista si è reso colpevole – ed è inconcepibile, a nostro avviso, che continui ad esserlo ancora oggi proprio la corrente che si ritiene "soggettivistica" – della sottovalutazione degli effetti prodotti dalla oggettiva moltiplicazione dei saperi produttivi specialistici, i quali, incessantemente scomposti e segmentati, implicano che tra le soggettività agenti <<nei diversi gruppi di lavoro ognuno cerca di dimostrare,…perché ne è spesso convinto, che il suo specialismo è più importante ed efficace (tecnicamente ed economicamente) degli altri, ha maggiori possibilità di sviluppo e più numerose occasioni di proficuo impiego>> [Ibidem].

 

            In conclusione, se si ritiene che quanto sostenuto illustri ragionevolmente gli effettivi orientamenti seguiti dal capitalismo, si dovrà pur convenire con La Grassa che dagli accennati <<processi discendono due conseguenze fondamentali. Innanzitutto, l’accentuazione della distanza quanto a condizioni sociali, e dunque dei contrasti, tra "dirigente ed ultimo manovale"; questi due soggetti, con numerosi altri gradini intermedi, non fanno parte di un unico lavoratore collettivo, presunto soggetto della rivoluzione contro i proprietari ormai assenteisti (rispetto alla produzione). Tra i possessori dei saperi e gli altri vi è accentuata differenza di potere di disposizione sui mezzi produttivi, e la contraddizione spinge ad una contrapposizione più che alla loro cooperazione reciproca. D’altra parte, i saperi sono sempre più frammentati specialisticamente, per cui anche i possessori di questi ultimi – tanto "approfonditi" nella loro unilateralità da far perdere completamente di vista l’insieme – non fanno parte, in linea generale, dei veri dominanti nella formazione sociale capitalistica>> [Ibidem].

 

            Quest’ultima osservazione, concernente i soggetti che esercitano o meno il reale dominio, riconduce l’analisi direttamente all’elemento che, all’inizio del discorso, si è affermato essere centrale nell’odierna teorizzazione di La Grassa: la ridefinizione della forma che assume la lotta intercorrente tra gli agenti dominanti capitalistici.

 

            Si è insistito fino ad ora sulla tendenza generale che  struttura e divarica i ruoli di potere nell’ambito dell’organizzazione capitalistica del lavoro – da intendersi sempre in senso lato – .

 

            Occorre a questo punto aggiungere che l’accennato processo di centralizzazione dei capitali, che si è detto realmente operante nel capitalismo [basti pensare alle conglomerate di settore], in combinazione con l’aumento dimensionale delle imprese [empiricamente, nel nostro paese, non contraddetto in termini "sistemici" dal verificarsi dell’esternalizzazione industriale, più che compensata da quanto accade nel terziario], ha fatto sì che <<il fulcro dell’attività capitalistica si sposta e si allontana dal mero processo tecnico [e dai soggetti in esso coinvolti] della produzione in senso stretto…[ ] Con l’affermarsi dell’oligopolio, il sistema (di ruoli verticalizzati) costituito dall’impresa assegna compiti strategici decisivi a suoi settori (dipartimenti o altro) decisamente staccati, esterni, rispetto al semplice processo trasformativo…[ ] Questo tipo di economia si afferma sempre meno in modo semplice ed immediato, poiché conosce invece complicati processi indiretti, in cui sono all’opera, seguendo certe regole, le decisioni strategiche prese dalle direzioni imprenditoriali con riferimento agli sbocchi mercantili, ai flussi finanziari, ecc. più ancora che non ai semplici processi tecnico-produttivi. Non è un caso che, negli staff manageriali di più alto livello, i tecnici (in senso stretto) sono in minoranza rispetto a coloro che prendono le decisioni strategiche nei campi appena indicati, oltre che in quelli relativi ai rapporti con il potere politico, con i mass media, ecc.[in altre parole, l’insieme delle sfere sociali di cui si è detto nel corso dell’esposizione]…Ciò che decide della dominanza di certi ruoli è l’attribuzione ad essi di funzioni strategiche complessive: possibilità di prendere decisioni vincolanti per tutte le parti del sistema, stabilire i suoi scopi generali, (che solo in una visione…fin troppo economicistica possono essere riassunti nel conseguimento del massimo profitto)>>[La Grassa, Saggi di critica dell’economia politica, pp. 100-101].

 

            Dalle considerazioni svolte dallo studioso, si evince, dunque, che l’elemento decisivo da analizzare per meglio comprendere la specificità delle dinamiche capitalistiche è quello dell’articolazione interna al raggruppamento degli agenti economici dominanti. Questi, lungi dall’essere un unico blocco monolitico – i cosiddetti manager – si suddividono essenzialmente in base all’esplicazione delle funzioni ad essi attribuite e alle posizioni occupate nella gerarchia aziendale.

 

            Tradizionalmente, il pensiero marxista novecentesco [analogamente ad altre correnti teoriche], sviluppando alcuni elementi rinvenibili in Marx e correlandoli con l’andamento storico dell’economia, ha interpretato il ruolo manageriale come quello di un dirigente della produzione, mero coordinatore dei fattori produttivi, fondamentalmente alieno dalle implicazioni proprietarie e teso principalmente ad organizzare l’erogazione di [plus]lavoro mediante l’introduzione di nuovi mezzi tecnici [i metodi di estorsione del plusvalore relativo].

 

            D’altra parte, in virtù della già detta estraneità nei confronti degli interessi strettamente proprietari, il manager è stato anche ritenuto un tendenziale collaboratore – se non proprio "alleato" – della massa dei lavoratori salariati via via più esecutivi; in altri termini, lo si è pensato alla stregua dell’apice del lavoratore collettivo cooperativo, interessato a sviluppare l’efficienza delle forze produttive, le quali – stando all’ipotesi marxiana – avrebbero prima o poi, per contraddizione, rotto l’involucro dei rapporti produttivi capitalistici, pensati per lo più in senso giuridico privatistico.

 

            Ovviamente, quella appena compiuta è una sintesi estrema di ben più complessi ragionamenti che hanno segnato per un non breve arco di tempo gli orientamenti delle ricerche marxiste; tuttavia, per quanto strumentale al nostro discorso, la si ritiene rappresentativa di alcune importanti incongruenze che hanno impedito al pensiero critico anticapitalistico di progredire.

 

            Sarebbe superfluo ritornare su delle questioni già affrontate, quali, ad esempio, l’assenza della costituzione del general intellect; piuttosto, è preferibile evidenziare che la debolezza del ragionamento esposto consiste nell’aver identificato la funzione direttiva economico-imprenditoriale  con il ruolo del manager, che si è visto essere incentrato  esclusivamente sulla dirigenza della produzione – intesa come trasformazione di inputs in outputs -, tralasciando del tutto la valutazione della sfera "circolatoria", ovvero la rete istituzionale ed economica preesistente, socialmente costitutiva, dove la forma impresa agisce ed in cui avviene la riconnessione mercantile capitalistica dei valori e delle merci.

 

            Puntualizziamo immediatamente, per evitare equivoci, che quanto ora rilevato non deve intendersi come un discorso che tende a contrapporre nuovamente il mercato alla produzione; ci risultano ben chiare, e del tutto condivisibili, le riflessioni sulla produzione svolte da Marx, ad esempio, all’inizio dei Grundrisse. E’ proprio per tale ragione, però, che ci appare eccessivamente riduttiva l’analisi che si limita ad osservare quanto accade all’interno dell’impresa, perché <<non esiste capitalismo senza competizione nel mercato, non esiste capitalismo se non si verifica quella che Marx indicò come socializzazione indiretta, mediata (dal mercato appunto) dei tanti "lavori eseguiti privatamente", cioè delle tante produzioni effettuate da varie imprese in concorrenza>>[La Grassa, Perché il conflitto strategico?, 01/2005].

 

            D’altronde, a nostro parere, non si può tacere sull’impasse – legata ai limiti evidenziati – raggiunta anche dal marxismo più acuto, in seguito alla connotazione del mercato come ormai non concorrenziale, bensì basato sulla competizione a carattere mono/oligopolistico. Di sicuro, la rilevazione dell’accentramento dei capitali – lo si è più volte ribadito – è un solido assunto, insostituibile per la comprensione della formazione a modo di produzione capitalistico; tuttavia, ci sembra che la ricerca in campo marxista denoti una notevole staticità, causata sostanzialmente dall’accettazione, più o meno implicita, della convinzione kautskiana circa l’inesorabile tendenza della centralizzazione dei capitali ad addensarsi sempre più, fino al definitivo raggiungimento di un unico trust mondiale.

 

            E’ evidente che quando è all’opera una simile concezione evoluzionistica, la teoria potrebbe anche smettere di indagare puntualmente ed approfondire ulteriormente i fenomeni. Secondo noi, è proprio quello che alla fine è avvenuto, lasciando tutt’al più a qualche economi[ci]sta il compito di una mera descrizione, senza alcun serio effetto politico.

 

            Siamo del parere che la riflessione di La Grassa vada in direzione del tutto opposta. Egli, conducendo l’analisi sul capitalismo e focalizzandola sulla composizione degli agenti economici dominanti, sostiene che quest’ultimi, in ragione delle funzioni svolte, possono considerarsi formati da <<due figure [funzionali, non necessariamente empiriche] ormai nettamente distinte…[quella] del possessore dei saperi, sempre più specialistici e frammentari, e [quella] del realizzatore delle strategie necessarie al conflitto per la preminenza entro la sfera economico-produttiva… Solo la prima figura va indicata come manager, come dirigente della produzione (sempre in senso lato…); alla seconda figura diamo la denominazione più appropriata di agente strategico del conflitto interimprenditoriale, conflitto che vede in stretto collegamento le contrapposte azioni dello scontro e dell’alleanza…[ ] Il conflitto in questione comporta la crescente frammentazione dei saperi che divengono via via più specialistici, allontanandosi continuamente da quel "general intellect" preconizzato da Marx. Tali saperi…sono il patrimonio dei manager, dei dirigenti delle imprese che agiscono prevalentemente all’interno delle stesse per coordinarne la produzione… E’ ovvia l’importanza di tale strato di agenti produttivi, poiché l’ottenimento e la crescita dei profitti – costituenti la parte fondamentale del plusvalore e che si presentano nel capitalismo in forma monetaria – hanno origine nella produzione; e i profitti sono un mezzo fondamentale per lo svolgimento delle funzioni espletate dagli agenti del conflitto interimprenditoriale. Sono comunque questi ultimi a interessarsi prevalentemente del più vasto orizzonte rappresentato dal mercato, dalla dislocazione degli investimenti (di cui consta l’accumulazione capitalistica)… I profitti (plusvalore) sono un fine per l’apparato manageriale preposto all’organizzazione d’impresa; in un contesto più vasto, invece, essi sono un mezzo, il conflitto è la spinta propulsiva, la conquista della supremazia (da parte di determinati gruppi capitalistici) è il fine più ampio cui si tende>> [Ibidem].

 

            Si è preferito produrre una così lunga citazione, perché nessun’altra esposizione avrebbe potuto rendere con altrettanta efficacia il senso del pensiero dell’autore.

 

            La Grassa, attraverso l’indicazione della rilevanza del conflitto interdominanti nella società capitalistica e della preminenza di questo sulla categoria del profitto, pone in essere una radicale innovazione nell’ambito della teoria marxista.

 

            Numerosi autori a quest’ultima appartenenti, seguendo le formulazioni rinvenibili nella critica dell’economia politica, hanno inteso la competizione svolgentesi tra le unità produttive come una sorta di pungolo concernente gli agenti imprenditoriali, sostanzialmente [pre]occupati a massimizzare i profitti.

 

            Certamente, nel capitalismo questo aspetto è di fondamentale importanza, da esso non è possibile prescindere in alcun modo, ed in precedenza, criticando il riduttivismo "produttivista",  lo si è evidenziato a chiare lettere: si è detto, per l’appunto, che la sottovalutazione della sfera "circolatoria" è un enorme errore. Tuttavia, <<il marxismo ha indagato il comportamento dei capitalisti in base al principio secondo cui essi tendono al conseguimento del massimo profitto, mediante i metodi del plusvalore in specie relativo (progresso tecnologico con aumento della produttività del lavoro)… In definitiva, la condotta razionale degli agenti dominanti sarebbe quella che conduce all’economizzazione delle risorse impiegate…[ma] in realtà, [si è notato che] questo tipo di razionalità caratterizza tutt’al più l’azione dei gruppi (manageriali) d’impresa… [mentre] la razionalità impiegata nella conduzione delle strategie conflittuali…non si attua mediante economia di risorse, bensì impiegando queste ultime con modalità adeguate al dispiegamento di forze indispensabile a piegare gli avversari>>[Ibidem].

 

            Dal ragionamento addotto, si evince che non è possibile pensare di poter leggere adeguatamente il complesso funzionamento dell’economia capitalistica, soffermandosi esclusivamente sull’analisi dei risultati conseguiti da alcuni agenti dominanti mediante l’uso della cosiddetta razionalità strumentale, ovvero la marxiana economia di tempo, coaudiuvata dalla "segnaletica informativa" proveniente dal  mercato. La loro considerazione, secondo La Grassa, deve essere necessariamente integrata da quella dell’atteggiamento strategico, che naturalmente è <<sempre una forma di razionalità, di adeguamento dei mezzi ai fini,…[non dando però] alcuna preminenza al minimo dispendio dei primi in vista dell’ottenimento di dati risultati [come invece avviene secondo la logica del minimo mezzo o del massimo risultato]>>[Ibidem; cfr. La Grassa, A partire da Marx, non seguendo Marx].

 

            Peraltro, sia detto per inciso, non è immaginabile volere orientare la pratica trasformativa comunista ed  anticapitalistica prestando un’attenzione ossessiva alla valutazione quantitativa dei saggi di profitto e/o degli appositi indicatori economici approntati dalla disciplina economica, maggioritaria o minoritaria poco interessa – gli indici spesso divengono veri e propri "totem", branditi tanto dagli accademici, quanto dai dotti di piccoli gruppetti, a mò di previsione profetica! – . Purtroppo, la lezione di Lenin non è stata per niente appresa e la sua remota  canonizzazione continua ancora oggi…eppure, ce ne sarebbero di cose da imparare.

 

            Ritornando al percorso tracciato da La Grassa: la premessa per la conduzione del conflitto interdominanti va ricercata, dunque, nella formazione di adeguati livelli di plusvalore/profitto, <<data la presentazione della ricchezza capitalistica in forma monetaria, [la quale è] l’alimento necessario a sostenere le varie strategie>>[Perché il conflitto strategico?, 01/2005].

 

            Il suddetto conflitto assume una centralità paradigmatica, in quanto <<è il sintomo più pregnante della…produzione capitalistica, della sua continua frammentazione che costantemente produce e riproduce, su scala allargantesi, le forme mercantili e di valore… L’essenzialità del conflitto strategico – ai fini della riproduzione, squilibrata e con alti e bassi congiunturali, del sistema produttivo capitalistico – spiega bene i motivi per cui è impossibile l’affermazione di tendenze ultraimperialistiche [kautskiane], di tendenze ad una centralizzazione che, se considerata invece nella sua mera veste proprietaria, porta all’errata conclusione dell’espulsione di detta proprietà dai processi produttivi, ove funzionerebbero solo corpi lavorativi integrati e prefiguranti, nei loro reciproci rapporti, l’intelaiatura della futura formazione sociale>>[La Grassa, Discussione sugli agenti strategici, 10/2004].

 

            L’evidenziazione dell’aspetto conflittuale, quindi, impedisce di pensare i suoi portatori quali <<semplici parassiti che si appropriano di quasi rendite. La loro competizione…[al contrario] dà innanzitutto [un] impulso insostituibile>>[La Grassa, Perché il conflitto strategico?, 01/2005], rappresentando una caratteristica precipua dello sviluppo delle forze produttive capitalistiche.   

 

            A questo punto, lo studioso asserisce che se l’analisi si dovesse limitare a considerare soltanto la sfera economica – ovviamente, secondo la nuova accezione -, ci si troverebbe dinanzi ad una "presa" teorica in grado di reimpostare realisticamente l’indagine sul capitalismo, ma, al contempo, pur sempre basata su una visione parziale, "settoriale", quindi sostanzialmente impossibilitata a cogliere la ben più vasta rete di legami sociali, il cui insieme assicura la riproduzione dei rapporti di dominio.

 

            <<Non è…tassativo [scrive La Grassa] che gli agenti… del conflitto interimprenditoriale siano i predominanti nell’insieme sociale; quanto meno essi condividono spesso il dominio con gli agenti posti al vertice delle attività svolgentisi nelle altre due sfere principali: politica e culturale (in particolare nella prima), proprio perché è solo l’insieme delle strategie ad assicurare la supremazia>>[Ibidem].

 

            Risulterebbe, allora, realmente fuorviante continuare a pensare di poter comprendere le dinamiche della società capitalistica, puntando lo sguardo solo sull’economia, magari letta con l’ausilio di qualche testo sacro. Sarebbe un vero spreco di energie, per non parlare del favore fatto agli agenti dominanti, che infatti approntano tranquillamente le loro strategie di dominio, non essendo disturbati in nessun modo.

 

            Ci si dovrebbe sforzare, invece, di capire la complessa trama di campi e funzioni operanti nel capitalismo, tenendo presente, <<con analogia di larga massima, [che] il conflitto nella produzione è il cervello, con i suoi processi fisico-chimici e in specie fisiologici, mentre la politica e la cultura sono la mente che "scopre" nuovi assetti (idee) e controlla e incanala i suddetti processi nel loro tumultuoso emergere al livello del pensiero>>[La Grassa, Discussione sugli agenti strategici, 10/2004].

 

            Possiamo concludere questa sintetica presentazione della riflessione di La Grassa, precisando che le ipotesi prodotte dall’autore non sono dirette a <<stabilire, in base ad una teoria generale del modo di produzione capitalistico, quali di questi differenti tipi di agenti strategici sono quelli che prevalgono pur nell’ambito di un’azione necessariamente congiunta. Sapere se, di volta in volta, hanno una funzione trainante e preminente quelli economici o quelli politici e/o culturali, è compito di una analisi delle differenti congiunture. La teoria generale serve solo ad indicare l’erroneità di posizioni come quelle del marxismo tradizionale – che sosteneva la centralità della funzione proprietaria (dei mezzi produttivi)>>[Ibidem].

 

            <<La potenzialità [comunista ed anticapitalistica] è in grado di venire ad esistenza reale solo mediante il complesso intreccio tra costruzione dell’oggetto teorico di riferimento e costruzione del movimento politico che organizza la critica rivoluzionaria dell’ineguaglianza nella sua forma e nella sua fondazione capitalistiche>> [La Grassa, Il capitalismo lavorativo, p. 76].

Gianluca A