IL MERCATO DELLE BANCHE (commento di G. La Grassa ad un articolo apparso ieri sul "Giornale")

Con questo articolo di Festa (leggere più giù, NDR) sono in netto disaccordo su alcuni punti non irrilevanti. Intanto sulle continue sviolinate circa la bravura di Iozzo come tecnico, nonché sulla “impeccabile” gestione delle Generali, ecc. Che si tratti di bravi contabili e/o amministratori, che “conoscano il loro mestiere”, che navighino agevolmente tra grafici e tabelle, che a furia di stare in quell’ambiente ne conoscano le metodologie (e i trucchi), e via dicendo, non è motivo sufficiente per ritenerli adatti a ruoli che esigerebbero pure capacità strategiche lungimiranti, di ampia portata. Altrimenti, ci troviamo sempre nella situazione di lodare i tecnici al Governo tipo Padoa-Schioppa – e, all’inizio, lo stesso Festa e altri, pur di diverso orientamento, si profusero in lodi di quest’ultimo – salvo poi restare sorpresi della sua pochezza, per non usare termini più duri e precisi nell’indicare i suoi meschini, gretti orientamenti, incapaci di vedere qualche cm. oltre il proprio naso. E’ ormai da ripristinare con urgenza, riferendosi a questi manager d’“alto livello”, la ben nota definizione: “idioti con alto quoziente di intelligenza”. Buoni per gli interessi di singoli gruppi di potere economico-finanziario, ma esiziali per le popolazioni dei paesi da essi governati.

Altro punto su cui dissento nettamente è sulla semplice “perplessità” circa il fatto che Iozzo diventi presidente di un istituto “pubblico” (Cdp), restando eventualmente vicepresidente della futura concentrazione finanziaria nata da Intesa e San Paolo. Non c’è alcuna perplessità possibile: la proposta di Grande Stevens rivela solo chiaramente che, come sostengo da sempre e affermo anche nel mio ultimo scritto (qui allegato), pubblico e privato sono soltanto pure differenze giuridiche di un potere capitalistico che si dispiega in tutta la sua ampiezza e nella conflittualità tra i suoi agenti portatori. Il fatto che – questo era il piano Rovati che in realtà, così si è letto da più parti, sembra promanasse dal duo Costamagna-Tononi, fino a pochi mesi fa uomini ai vertici della Goldman Sachs e il secondo attuale viceministro dell’economia – tramite la Cdp ci si volesse impadronire della Telecom, per poi aprire la strada alla SanIntesa e alle Fondazioni bancarie (si leggano gli attuali multiformi ruoli di Guzzetti), segnala con estrema chiarezza non la semplice “confusione” di pubblico e privato, ma la loro assoluta complementarietà e intercambiabilità. Basta con la presa in giro (pura ideologia manipolatoria) di questo osceno formalismo tipico di tutte le epoche del dominio capitalistico.

A parte tale dissenso, le notizie (esatte) riportate nell’articolo di Festa servono da rafforzamento e corroborazione di quanto scrivo nel saggetto (cliccare sul bottone "multimedia" del blog, NDR) sulla “fine storica” di destra e sinistra, questa duplice malattia dello spirito e del corpo della nostra società.  

 

IL MERCATO DELLE BANCHE ( Fonte "Il Giornale")

di Lodovico Festa

 

La scelta di Alfonso Iozzo come presidente della Cassa depositi e prestiti non manca di intelligenza strategica: si è individuato un banchiere di valore ed esperienza, molto utile all’istituzione che dovrà guidare. Semmai suscita perplessità la proposta fatta da Franzo Grande Stevens, grande vecchio della Fiat e presidente della Compagnia San Paolo (socio chiave della banca San Paolo), che il neopresidente della Cdp mantenga anche la carica di vicepresidente della futura banca Intesa-San Paolo. Nella «Cassa» già svolge di fatto un ruolo centrale Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, altro «grande socio» della futura Intesa-San Paolo, aggiungere altri «espliciti» legami tra un’istituzione semi pubblica e una banca privata, sarebbe imbarazzante. Peraltro la storia di questi ultimi sei mesi di nuovo prodismo sono tutti segnati dal protagonismo di Intesa (presto Intesa-San Paolo) e dei suoi uomini. Sia dal punto di vista degli affari: la fusione tra Intesa e San Paolo, subito seguita da quella tra Bpu e Banca Lombarda, grande protetta di Giovanni Bazoli. Sia dal punto di vista delle nomine: Corrado Faissola, presidente della Banca Lombarda, diventa presidente dell’Abi (l’associazione di rappresentanza delle banche italiane), Vittorio Conti, responsabile della direzione del risk management di Intesa, viene nominato commissario Consob, infine la scelta di Iozzo.

Bazoli ha spiegato in una chilometrica intervista sul Corriere della Sera del 15 ottobre che secondo lui le grandi «reti» dovrebbero tornare in mano pubblica: insomma un po’ la filosofia dell’appuntino di Angelo Rovati a Marco Tronchetti Provera. Mano pubblica significa di fatto, naturalmente, dilatazione dell’intervento della Cassa depositi e prestiti che magari potrebbe poi trovare utili convergenze con la «nuova banca per lo sviluppo» (definizione di Romano Prodi) che sarà Intesa-San Paolo: secondo il modello pubblico-privato inaugurato in Lombardia dove il presidente della controllata dalla provincia di Milano autostrada Serravalle è Giampio Bracchi, anche vicepresidente di Intesa, mentre alla Pedemontana c’è Marco Vitale, vecchio amico di Bazoli.

È anche notevole, poi, che tutti coloro che si oppongono un po’ troppo a questa neostrategia pubblico-privato finiscano nei guai e sempre per l’azione attiva del governo Prodi: prima il gruppo Autostrade dei Benetton a cui è stata ostacolata la fusione con gli spagnoli di Abertis, poi Telecom Italia di Tronchetti grazie al clamoroso attacco svolto dall’asse Rovati-Prodi. Per non parlare della Rcs, dove l’ottimo giornalista economico Massimo Mucchetti, grande amico di Bazoli, ha fatto brillare l’ultima mina sotto la peraltro dissestata direzione di Paolo Mieli, proponendo come soluzione per la proprietà del Corriere della Sera esattamente la stessa fondazione che Bazoli, in un altro chilometrico intervento ospitato questo autunno dalle pagine del quotidiano di via Solferino, aveva avanzato. Il modello sarebbe quello catto-progressista oggi in vigore al Monde. Se si considera, infine, che tutte le vicende bazolian-intesian-sanpaoline s’intrecciano anche con quelle del colosso finanziario Generali (della cui impeccabile gestione peraltro non si può che dire bene), socio fondamentale della nuova Intesa-San Paolo e insieme «controllata» via Mediobanca da Capitalia e Unicredit, si ha un’idea dell’accrocchio di potere che esiste in Italia e di come dentro questo accrocchio il prodismo cerchi con molta rozzezza e altrettanta determinazione di imprimere il suo segno. Il che spaventa non solo per la trama di potere ma anche per il destino di un gruppo così qualificato come quello Intesa-San Paolo. Quando nel 1996 Prodi si esercitò nei suoi soliti intrighi politico-affaristici a sostegno del gruppo Fiat (dalla inevitabile rottamazione al tentativo di regalare Telecom Italia a Ifi-Ifil, fino alla guerra alla Mediobanca di Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi), l’allora premier riuscì quasi a portare il gruppo torinese sull’orlo del fallimento. Perché alla fine la concorrenza fa bene a tutti: anche alle banche. Non solo ai tassisti, ai farmacisti e a tutti «i piccoli» con cui se la prendono i vari Pierluigi Bersani & co._