CONTRO IL NEOROMANTICISMO ECONOMICO (E SOCIALE)

di Gianfranco La Grassa

 

1. Sarebbe a mio avviso utile rimettere in lettura alcuni testi di Marx (a partire dal Manifesto del 1848) e lo scritto di Lenin contro il romanticismo economico. Il pensatore principale di tale corrente, obiettivo delle critiche (rivolte ancor più ai suoi seguaci; ad es. in Russia i populisti o “amici del popolo”), è Sismondi, di cui non va sottovalutata comunque l’importanza. Ci si potrebbe, per altri versi, riferire anche a Proudhon, autore tuttavia nettamente meno acuto e interessante. Non appartiene a questa schiera, invece, il notevole Saint-Simon, che è assai più moderno e potrebbe essere considerato quasi un precursore delle tesi intorno al potere manageriale in quanto carattere tipico del capitalismo (in tal senso è più avanti di tanti marxisti, perfino dei giorni nostri, che altro non vedono del capitalismo se non il suo aspetto proprietario e l’estrazione di plusvalore/pluslavoro).

E’ ovvio che rileggendo le critiche rivolte a Sismondi da Marx (che tacciò di reazionarietà quel tipo di pensiero) e di Lenin, è necessario non lasciarsi imbrigliare dalle loro specifiche argomentazioni, che risentono delle condizioni economico-sociali delle formazioni capitalistiche in cui i due rivoluzionari pensarono e agirono. Oggi, chiaramente, non esiste più l’artigiano in senso stretto, in quanto produttore di merci nella sua bottega con semplici strumenti e con il predominante lavoro personale, coadiuvato da pochi altri addetti, spesso gli stessi familiari. Egualmente dicasi per quanto riguarda la minuscola conduzione agricola su piccoli appezzamenti di terra propria e pur sempre con strumenti e lavoro in prevalenza personali e della famiglia. Non esiste più insomma quella produzione mercantile semplice che, secondo Marx, fiorì brevemente nel periodo di transizione tra feudalesimo e capitalismo, trasformandosi velocemente in quest’ultimo a causa dei processi di “espropriazione degli espropriatori”, cioè di centralizzazione del capitale susseguente alla concorrenza tra produttori di merci che condusse al successo di pochi e al fallimento di molti.

Eppure ha ancora oggi senso parlare di romanticismo economico (con l’aggiunta del termine sociale) perché – pur in completamente mutate condizioni storiche e dopo un paio di secoli di sviluppo capitalistico industriale che ha radicalmente trasformato il mondo, rendendolo del tutto irriconoscibile nei suoi connotati tecnici, nei modi di vita, e relativamente alle sue strutture sociali e politiche – le idee del “romanticismo” continuano a prodursi; certo anch’esse cambiate in profondità e difficilmente riconoscibili in base ad un approccio meramente “fenomenico” (“di superficie”). Anche la funzione di tali correnti di pensiero è trasformata. Un tempo, esse esprimevano la “nostalgia” del passato – e la paura, il timore, del futuro – di strati sociali travolti dallo sviluppo capitalistico. In questo senso, il “socialismo romantico” era reazionario, perché voleva frenare l’evoluzione storica, voleva arrestare la dinamica del capitale, protraendo all’infinito l’esistenza della piccola produzione mercantile. Ciò sarebbe stato intanto poco utile e anzi negativo, perché avrebbe bloccato la crescita (non solo quantitativa ma soprattutto qualitativa) delle forze produttive, avrebbe arrestato l’avanzamento scientifico e tecnico, impedito la rottura delle limitate e asfittiche comunità localistiche di quel tempo, protratto quello che Marx definiva “idiotismo rurale”, ostacolato quello che è invece stato l’esponenziale infittirsi dei viaggi e contatti – e la loro crescente velocità e frequenza – tra tutte le popolazioni del globo. Oltre a questo, era ormai del tutto impossibile, sulla base della produzione mercantile generalizzata, mantenere regolamentazioni corporative, proibendo la concorrenza che comportava la concentrazione della produzione e dei capitali, l’aumento delle dimensioni delle unità produttive con crescente introduzione di macchine e sistemi di macchine, ecc.

Oggi, quei tentativi di arrestare l’evoluzione dei sistemi capitalistici non avrebbero più senso, nessuno potrebbe mai pensarci; solo qualche storico è in grado di ricostruire il clima di quelle epoche lontane. I viaggi e i contatti tra le più distanti contrade e popolazioni sono la norma, il localismo è un fenomeno del tutto residuale e ultramarginale. L’avanzamento tecnologico è un dato di fatto e praticamente nessuno (qualche pazzo isolato lo si trova sempre in ogni epoca) intende porsi in un orizzonte che non contempli i computer e l’informatica, le telecomunicazioni; e fra poco la robotica e un po’ più avanti magari i viaggi interplanetari, e via dicendo. Il “romanticismo” odierno esprime ben altre paure – così ben evidenziate, in ogni successiva epoca dello sviluppo capitalistico (da quella meccanica a quella elettrica a quella informatica e robotica), dalla letteratura e poi dal cinema fantascientifico – e su queste fa leva per ottenere comunque vantaggi a favore delle classi dominanti; e non è un caso che perfino alcuni importanti personaggi, appartenenti agli strati più elevati di tali classi, partecipino a pieno titolo alla diffusione del “romanticismo” in questione, pagando pubblicazioni, film, spettacoli televisivi e schiere di intellettuali in giro a tenere seminari e conferenze, per paralizzare e deviare le possibili reazioni di massa contro il potere, distogliendo l’attenzione dalle strutture sociali della loro dominazione, vera causa delle sofferenze, dell’oppressione, dello sfruttamento, dei dominati.

Di conseguenza, nell’epoca attuale il romanticismo economico-sociale non è fondamentalmente reazionario, non rappresenta in realtà un freno allo sviluppo. Tutto avanza comunque velocemente; i costumi e le abitudini, la mentalità collettiva, la morale, ecc. subiscono continue e veloci trasformazioni (certamente non in meglio, a mio avviso), in concomitanza con l’esponenziale e inarrestabile progresso della tecno-scienza, che molti disprezzano, criticano, sostenendo – e, sempre secondo la mia opinione, talvolta a ragione – che essa è causa di imbarbarimento, ma di cui tutti (salvo marginali e lamentevoli eccezioni) sfruttano le occasioni e le nuove possibilità apertesi. Certe correnti di pensiero “romantiche” non esprimono più, come un tempo (nella fase tutto sommato ancora iniziale dello sviluppo capitalistico), la presenza di vasti strati sociali ereditati dalla passata formazione sociale, bensì sono indice della “falsificazione” delle previsioni marxiane relativamente ai risultati “finali” della dinamica del capitale.

Come ho fatto presente ormai molte volte, quest’ultima non ha condotto alla tendenzialmente netta scissione dicotomica della società: il piccolo gruppo di rentier ad un polo, e la gran massa dei lavoratori salariati (del braccio e della mente) all’altro polo. Abbiamo una società estremamente diversificata (segmentata e stratificata) e in continua complessificazione (e complicazione). La frammentazione e dispersione dei frammenti nello “spazio sociale” (idealmente formato da segmenti e strati) è una dinamica provocata da processi di differente intensità e durata; ci sono periodiche grandi ondate di innovazioni, tra le quali si situano periodicità più brevi caratterizzate da minori onde di “progresso”. Tutto questo movimento non è semplicemente impersonale e autopropulsivo come si vuol far credere, spesso con i riferimenti al “sistema” e alle sue “leggi”. Certo, esiste un sistema ed esiste qualcosa di (assai vagamente) simile a delle leggi (vere leggi non sussistono probabilmente nemmeno in natura; oggi molti ne sono convinti). Tuttavia, le ondate innovative di diversa periodicità, ampiezza e forza, trovano – o anche creano – i soggetti che le realizzano; e le modalità di questa realizzazione rinviano al conflitto per il predominio, conflitto in cui non sono affatto tutti eguali, ma una minoranza è quella che veramente cavalca il cambiamento e ne gode i maggiori vantaggi in termini di conquista della preminenza.

In questo convulso “progredire” – che fa del capitalismo una società particolarmente “calda” – ci sono parti sociali che regrediscono e decadono e altre che avanzano e prendono il davanti della scena in ogni nuova grande epoca dello sviluppo (ondata innovativa) della società. Per evitare che in questi periodici, ma continui, “strappi in avanti” si producano gravi lacerazioni e disgregazioni del tessuto sociale, occorre la presenza di una ideologia a duplice faccia, e i cui due suoi aspetti siano in reciproca simbiosi (siano le due facce della stessa medaglia): il lato del successo e della crescita di peso sociale in quanto merito (presunto) delle proprie (pretese) superiori capacità intellettive e di veloce adattamento alle nuove condizioni; e il lato del relativo arretramento e diminuzione di rilevanza dei propri ruoli, processi attribuiti (per “consolarsi”) alla maledizione e fatalità legate al “mostruoso automa” del progresso tecnico-scientifico.

L’importante è che tale ideologia renda impossibile la visibilità, l’individuazione, dello strato sociale (minoritario) costituito da quei “soggetti” che di fatto, tramite il loro conflitto per la supremazia (e le modalità “perverse” dello stesso), sono i portatori delle funzioni che danno impulso alle suddette ondate innovative. In questo modo, viene di fatto sterilizzata ogni volontà di reale trasformazione della struttura sociale che vede il dominio di gruppi (ristretti) costituiti dagli agenti strategici del suddetto conflitto. La “lotta di classe” – che, nel marxismo, era considerata sempre più netta e irriducibile, di carattere rivoluzionario, poiché si supponeva la chiara scissione della società in due raggruppamenti (uno sempre meno numeroso, l’altro in continuo allargamento), con crescente visibilità dell’uno agli “occhi” dell’altro – diventa in realtà molto meno perspicua, nient’affatto rivoluzionaria, quand’anche raggiunga alti livelli di acutezza. In realtà, non si tratta mai di lotta di classe – che presupporrebbe appunto lo scontro tra due classi decisive – ma di conflitto tra varie parti della società (segmenti e strati) per conquistare migliori posizioni nell’ambito della stessa che, nella sua evoluzione, è comunque sempre caratterizzata in senso capitalistico.

E’ in quest’ambito, sommariamente delineato, che acquista significato il “neoromanticismo”. Non più semplicemente economico, bensì più generalmente sociale; ed esso rappresenta uno dei lati dell’ideologia di cui sopra: il lato della “consolazione” per coloro che si trovano in relativo arretramento – o che comunque conseguono un assai minor successo – nell’ambito delle periodiche (e di diversa periodicità) ondate innovative connesse all’acuirsi (in specie nelle epoche che definisco policentriche) del conflitto tra agenti dominanti per la supremazia.[…]

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