PUNTI DA EVIDENZIARE

di Gianfranco La Grassa

 

Non vorrei apparire maniacale, ma intendo tornare brevemente sullo scritto da poco consegnato al sito, quello sul(i) “(neo)romanticismo(i). Credo che quest’ultimo sia abbastanza chiaro; in esso ho però voluto, pur in sintesi, accoppiare considerazioni teoriche e riferimenti alla situazione attuale (talvolta persino soltanto italiana). Vorrei qui evidenziare alcuni punti – non nuovi per carità – su cui mi piacerebbe insistere nella discussione anche in futuro.

 

1) Innanzitutto, come ho ormai sostenuto innumerevoli volte e tuttavia credo sia utile ricordarlo spesso, la dinamica capitalistica – non quella più recente, ma proprio in generale, cioè relativa al modo di produzione capitalistico, in quanto oggetto teorico che tenta di cogliere gli aspetti cruciali della formazione sociale secondo l’analisi iniziata da Marx e continuata in base alla sua prospettiva – non conduce, nemmeno tendenzialmente, alla scissione della società in due classi fondamentali e nettamente antagoniste fra loro, con tutto quello che ne consegue com’è ben noto ai marxisti e non solo a loro. Man mano che tale formazione sociale si sviluppa, si produce una incessante frammentazione in tanti raggruppamenti che possono, per semplicità teorica, essere trattati quali segmenti (movimento di divisione “in orizzontale”) e strati (divisione “in verticale”).

Tale dinamica è incessante, ma si condensa in periodici “salti” (o “scatti” o “gradini”) dovuti ad ondate innovative susseguenti all’intensa competizione che caratterizza le varie sfere sociali: economica in primo luogo (essendo la “concorrenza” carattere precipuo del capitalismo), politica e ideologico-culturale (il conflitto in tali sfere era quello tipico delle formazioni sociali che precedono la capitalistica). Quando si parla di ondate innovative, non ci si riferisce dunque solo alla prima sfera, non si intende parlare di tali processi così come ne parlò ad es. Schumpeter. Le ondate in oggetto sono inoltre di differente intensità e ampiezza, e si susseguono con diverse periodicità; ovviamente, almeno in linea generale, le maggiori ondate sono fra loro più distanziate nel tempo (pensiamo alle varie, almeno tre-quattro, “rivoluzioni industriali”) e, nel periodo fra l’una e l’altra, si verificano via via le minori (la cui puntuale specificazione non è per nulla semplice ed univoca; sto parlando in termini assai generali).

Essendo data (come ipotesi teorica) tale dinamica del capitale, ne consegue l’importanza decisiva, ai fini del “dominio di classe”, di quel fattore denominato egemonia (in un significato vicino, ma non eguale, a quello di Gramsci), che è strettamente legato alla formazione di “blocchi sociali”, ognuno costituito da più segmenti e (particolarmente rilevanti per il dominio in questione) strati, fra loro “compattati” mediante storicamente specifiche ideologie (o formazioni ideologico-culturali). Se tuttavia il movimento del capitale non è quello pensato da Marx e da tutti i marxisti (quello tendenzialmente dicotomico), bensì conduce alla, sempre tendenziale, dispersione – per salti o scatti in base alle ondate innovative – di vari raggruppamenti sociali (appunto i segmenti e gli strati), il concetto di egemonia dovrà essere meglio studiato e articolato rispetto a quello gramsciano. Nello scritto sul “neoromanticismo” ho intanto, velocemente, accennato a due lati dell’ideologia di aggregazione egemonica dei segmenti e strati in blocchi sociali:

quello che si riferisce ai (e serve a compattare i) segmenti e strati che nascono, o si rafforzano, a causa delle successive ondate innovative (in specie quelle di maggior momento e che si susseguono con più ampi intervalli temporali fra loro) con le conseguenti periodiche, e più o meno radicali, trasformazioni della struttura dei rapporti sociali;

quello che investe i segmenti e strati che, nell’ambito dei periodi in cui si “sollevano” tali nuove ondate, si indeboliscono (talvolta entrano addirittura in fase di scomparsa), arretrano o tengono con difficoltà le posizioni, ecc.

Il primo lato dell’ideologia egemonica è di stampo “positivistico” (in senso lato), esprime la fiducia nel futuro e l’entusiasmo per le novità. Soprattutto, però, deve comportare la convinzione degli appartenenti ai segmenti e strati interessati di non essere semplicemente portatori di (“soggetti” per) tali novità, ma di esserne i veri propulsori, anzi gli artefici primi; insomma, di essere gli autentici innovatori (come certi gruppi di imprenditori nel modello schumpeteriano relativo alla sfera economica). Il secondo lato dell’egemonia serve invece a “consolare” i perdenti o comunque quelli che arrancano, che tengono con fatica il “passo con i tempi”. Questi “soggetti” debbono essere aiutati a sfuggire alla depressione, alla sensazione di sconfitta, all’autoincolparsi di essere i responsabili della propria disfatta o quanto meno delle difficoltà crescenti cui si va incontro, in ogni caso della diminuzione del proprio peso sociale. L’ideologia assolve il suo compito di mantenere questi segmenti e strati sotto l’egemonia dei dominanti soltanto se li aiuta a gettare le colpe sul “fato cinico e baro”, su di un progresso “mostruoso” trattato da mero regresso (in tutti i sensi e proprio pensato quale arretramento generale della “civiltà”), ecc. ecc. Ed è qui che si innesta la funzione dei “neoromanticismi” e dei ceti intellettuali, ben remunerati dai dominanti, per diffonderli.

 

2) Un punto decisivo – per l’Europa in generale, ma in modo particolare per il nostro paese – mi sembra la constatazione di una ormai forse irreversibile carenza di capacità egemonica da parte delle nostre classi dominanti (ma non più veramente dirigenti), inette in fatto di strategia e dedite solo a tattiche miserevoli di mera sopravvivenza, con la ben nota mentalità così ben espressa dal Principe di Salina nel Gattopardo: per classi dominanti, ormai finite “storicamente” (degli zombies), tirare avanti per un cinquantennio (ma oggi credo assai meno) equivale all’eternità.

Malgrado noi ci siamo opposti – e non rinnego nulla, nella forma e nella sostanza, di quella opposizione – ai dominanti nel dopoguerra italiano, non si può disconoscere che essi, fino alla svolta del 1992-93, hanno in realtà esercitato una funzione egemonica, pur se via via più squallida e illanguidita. I punti forti di tale egemonia, a livello dei mutamenti strutturali che sostenevano una certa ideologia, furono lo sviluppo dell’industria fordista ma, ancor più, il formarsi di una gran massa costituita dal cosiddetto lavoro autonomo (spesso solo formalmente tale), quello poi denominato anche “delle partite IVA”. Naturalmente, solo un attento studio storico, che non spetta a me fare, metterebbe bene in luce i molteplici aspetti di simili cambiamenti strutturali, la politica seguita per realizzarli, l’ideologia(e) che ne costituì il supporto ma anche il risultato, ecc.  

A me sembra chiaro – e anche qui sarebbe necessaria una seria indagine storica, retta ovviamente da opportune ipotesi teoriche, intorno al “crollo” del “socialismo” (che cosa questo fosse e il perché del suo fallimento), alla situazione geopolitica globale venutasi a creare in seguito ad esso, alle sue conseguenze particolari nel nostro paese (“mani pulite”, fine della prima Repubblica, ecc. ecc.) – che si è progressivamente logorata (almeno in grandissima parte) l’attitudine egemonica dei dominanti italiani in particolare, e di quelli europei in generale (anche se in misura minore, soprattutto per quanto concerne i principali paesi dell’area). L’autonomia, già scarsa, dei nostri dominanti (cui premetto da tempo, non a caso, il “sub”) è praticamente azzerata rispetto ai predominanti statunitensi; al di là dei contorcimenti della sinistra che tenta di dimostrare una sostanziale (ma invece solo formale) maggiore indipendenza nazionale rispetto alla destra (quella ufficiale, quella “istituzionale”).

La caduta di capacità egemonica si esprime nel profondo degrado culturale e politico della presente epoca, parallelo allo stradominio del capitale finanziario e di quella che ho per semplicità indicato come industria decotta (in sintesi: GFeID). L’analisi della cultura odierna, del suo imbarbarimento, dell’appiattimento da essa prodotto a livello di massa – un appiattimento in perfetta simbiosi con la “produzione” di una crescente animosità e conflittualita tra gli spezzoni e strati dei dominati (base di quel divide et impera che facilita i compiti dei dominanti) – va condotta a partire dalla consapevolezza che tale “effetto” ha come “causa”, appunto, il venir meno dell’esercizio di egemonia da parte dei gruppi dominanti (ma non più dirigenti); un esaurirsi che si presenta nella doppia veste della pochezza di tali dominanti nella sfera economica, dove non si ha vero sviluppo (che non è mera crescita, del resto anch’essa carente), e dell’inettitudine di quelli attivi nella sfera politica, affatto disinteressati alla costituzione di “sfere di influenza” nel mondo. Tutti i (sub)dominanti di questo tipo sono ormai concentrati solo sul piccolo cabotaggio nell’ambito della (pre)dominanza del paese centrale e della sua sfera di influenza (globale).

Se non vi è più abilità egemonica – la quale, quando esisteva, era perciò tesa ad esercitare una effettiva direzione che non può prescindere da un sistema di valori (politici e culturali) di una certa ampiezza – questi (sub)dominanti operano soltanto con l’intento di sbriciolare vieppiù la società, di coadiuvare la dinamica di frammentazione (e dispersione dei frammenti) tipica della formazione sociale capitalistica. A questo punto, nessuno dei due lati dell’egemonia (ideologica) sopraindicati funziona più “a dovere”. La pretesa middle class (più alta che media), composta di manager e “specialisti”, ecc., si “internazionalizza” in misura crescente, ma nel senso di cadere progressivamente sotto l’ombrello culturale (a partire da quello linguistico per finire al “politicamente corretto”) dei (pre)dominanti centrali. La “gran massa” degli altri strati e segmenti viene consegnata al “non pensiero”, all’assenza di problematicità, al conformismo, al piattume più basso e volgare. Poiché sussistono però sempre, in ogni epoca storica, almeno piccole schiere di non consenzienti, di “ribelli”, di quelli che insistono a voler pensare con la propria testa, ecc., si cerca di fornire loro – utilizzando un ceto intellettuale per la massima parte corrotto e venduto (o comprato, a seconda dell’angolo di visuale), con una minoranza di “onest’uomini”, però “troppo colti” e “rarefatti” per non essere addetti alla “aristocrazia del pensiero” – strumenti ideali che li sviino dalla modernità, dai continui scatti o gradini di una dinamica capitalistica che procede per ondate innovative.

In definitiva, i (sub)dominanti non esercitano più egemonia (a duplice faccia), ma più semplicemente spargono veleni politico-ideologici per impedire il formarsi di autentiche opposizioni ai loro progetti di accrescimento del potere (subordinato ai predominanti), provocando così il disfacimento dell’intero tessuto sociale. Alcuni di loro (pochi) sanno che si tratta di un “tirare avanti”, che non potrà durare indefinitamente, poiché anche nella società (e nella politica) esiste l’horror vacui; e prima o poi “qualcosa” (e “qualcuno”) verrà a riempire il vuoto. Tuttavia, i (sub)potenti odierni ripetono il già surricordato ragionamento del Principe di Salina.

Non è mia intenzione sostenere – e, se sono stato frainteso, si tenga conto adesso di quanto dico – che chi, come noi, ha intenzione di svolgere un’autentica critica, possibilmente “in avanti”, dei nostri (sub)dominanti dovrebbe dedicare la parte principale del suo tempo a confutare le tesi dei “ritardatari”, di coloro che deviano i dominati (quelli che almeno vogliono pensare e ribellarsi) verso i vicoli ciechi dell’antimodernismo. Ci mancherebbe altro; non sono questi gli ideologi di maggior impatto negativo, attivi nel tentativo di sbriciolare i raggruppamenti sociali e di attutire le eventuali spinte ribellistiche. Il nostro più alto impegno deve essere impiegato ad analizzare la strutturazione del potere dei dominanti sia in “casa nostra”, sia nella sua articolazione geopolitica mondiale. Semplicemente, non dimentichiamo l’esistenza di questi settori antimodernisti. In una situazione in cui i (sub)dominanti non sono più atti a produrre vera egemonia, ma semplicemente lavorano in negativo per impedire il costituirsi di nuclei d’“avanguardia” in conflitto con il loro (sub)dominio, non bisogna nemmeno dimenticare – senza affatto farne l’obiettivo principale della critica – i settori che ho sinteticamente definito “neoromantici”. Tutto lì. Si tratta di un semplice piccolo complemento rispetto all’impegno da dedicare alla confutazione dei “postmodernisti”, di quelli “tanto all’avanguardia” da voler costituire uno spesso scudo protettivo dei nostri (sub)dominanti affinché questi si dedichino, il più tranquillamente possibile, alle loro attività di servizio nell’ambito della sfera di influenza imperiale statunitense.

 

3) Nel mio intervento sull’intervista di Preve al blog, ho citato due lunghi ed inequivocabili passi di Marx (dal Capitolo VI inedito e dal Libro III de Il  Capitale), da cui si evince con nettezza che, per il fondatore della teoria “scientifica” (che tale almeno pretendeva di essere) del comunismo, la classe operaia è il lavoratore collettivo “dall’ingegnere all’ultimo giornaliero”. E’ stato successivamente Kautsky, il reale fondatore del marxismo in quanto formazione ideologica, a ridurre la classe in questione al solo insieme degli operai di fabbrica (i lavoratori salariati di tipo esecutivo impiegati nell’industria). Dal 1968 in poi, si è cercato di spiegare via via, con l’onnicomprensiva e dunque generica e inutilizzabile categoria della “proletarizzazione crescente”, l’assimilazione di ogni spezzone del lavoro salariato esecutivo (nel commercio e servizi in genere), e perfino degli specialisti e tecnici vari, alla classe operaia in senso proprio. Si è fatto un enorme calderone; il “proletariato” è cresciuto enormemente di dimensioni (alla guisa della “Cosa” nell’omonimo film di Carpenter), ma solo nella testa, ormai “scoppiata”, di gruppetti di “marxisti” sempre più scemi e sempre più isolati e inconsistenti (se sono così animoso verso questi mentecatti o imbroglioni, è perché anch’io, nella mia giovane età, ho pensato simili idiozie; pur se solo in parte, e per fortuna me ne sono allontanato ancora in tempo per non rimbecillire in modo irreversibile come gli avanzi “marxisti” odierni; consiglio a tutti i giovani, con idee anticapitalistiche, di “gettarli subito nel cesso e di tirare l’acqua”. Marx non ha comunque molto a che vedere con la maggior parte di quelli che ne parlano a vanvera da ormai parecchi anni).

La cosiddetta classe operaia ha avuto una sua radicale funzione nelle prime fasi della “accumulazione capitalistica”, poiché quest’ultima non era semplice reinvestimento di plusvalore, bensì essenzialmente trasformazione della struttura dei rapporti sociali, passaggio dalla condizione del contadino o dell’artigiano (o anche dell’operaio manifatturiero, ancora in possesso parziale dei saperi relativi alle varie produzioni dell’epoca) all’operaio della grande industria basata su sistemi di macchine; un operaio che, ben prima del taylorismo-fordismo, era stato spogliato di ogni savoir faire relativo a questo o quel mestiere. Tale trasformazione è innanzitutto avvenuta in una situazione di miseria e di sofferenze inenarrabili per milioni e milioni di individui, con l’effettiva creazione di un “esercito industriale”, ecc. Si tratta di una trasformazione che è avvenuta con scarti temporali notevoli da paese a paese, iniziando dall’Inghilterra; oggi ad es. sta avvenendo, pur se in forme del tutto diverse che andrebbero assai meglio studiate di quanto al momento non si faccia, in Cina e India, e in altri paesi minori (dove si stanno svolgendo processi sociali non molto assimilabili a quelli della prima accumulazione in Europa e negli USA).

Man mano che si è passati da questa prima accumulazione capitalistica (con la trasformazione sociale appena considerata) alla riproduzione, in qualche modo “stabilizzata”, del cosiddetto modo di produzione specificamente capitalistico, la classe operaia in senso stretto (quella pensata da Kautsky, e dal marxismo, quale reale soggetto della trasformazione del capitalismo in comunismo) è diventata un semplice spezzone della società di forma capitalistica: inizialmente, quello maggioritario, poi nemmeno più questo. In ogni caso, tale pretesa classe, come ogni altro ambito della società in questione, è stata investita dalla dinamica di frammentazione e dispersione dei frammenti, che anche in tal caso è stata a lungo contrastata da una specifica ideologia – inizialmente “comunistica” e magari “marxistica”, poi via via, sempre a partire dal primo paese capitalistico (l’Inghilterra), di tipo sindacale e di “riformismo” politico – in grado di darle un senso di “comune appartenenza”. Quest’ultimo è però ormai in via di crescente sbriciolamento, con la netta evidenziazione di come questa parte della società non sia una classe, bensì un insieme di spezzoni di lavoro salariato del tipo più dipendente ed esecutivo sempre meno omogenei fra loro.

Pensiamo, per fare degli esempi, al tipico lavoratore edile addetto alle più semplici mansioni; o a quello che cura gli “scambi” in ferrovia; o a qualcuno che svolge compiti elementari nei reparti di selleria dell’industria automobilistica; e via dicendo. Non semplicemente si tratta di lavori in continua diminuzione numerica, ormai ridotti all’osso, ma non hanno nemmeno omogeneità fra loro, non creano “oggettivamente” alcuna mentalità (tanto meno una “coscienza di classe”) comune fra i loro portatori. All’inizio dell’accumulazione capitalistica (formazione della primissima “classe” operaia; classe in senso improprio), collettive condizioni di miseria, di bassi salari, di abitazione (urbana), ecc. – unite però all’ideologia “amministrata” da specifiche organizzazioni “di classe” quali sindacati e poi partiti detti “operai”, gradualmente divenuti pezzi decisivi degli apparati politico-ideologici dei gruppi dominanti – hanno creato il collante di questa presunta classe (nel suo significato marxista). Tutto questo si è però perso da tempo; e anche dove si sono attualmente create condizioni solo apparentemente simili – come già detto, ad es., in Cina e India – la situazione è invece del tutto diversa, in particolare quella relativa alla funzione “coagulante” dell’ideologia; per cui, alla fine della fase attuale di intensa accumulazione (trasformazione della struttura dei rapporti sociali), avremo in quei paesi delle formazioni sociali, magari dette ancora capitalistiche (in specie per l’importanza decisiva delle imprese e del mercato nella loro struttura), ma assai differenti da quelle che così denominiamo nel nostro “occidente capitalistico”.

 

4) Quanto appena detto apre alle considerazioni conclusive (per il momento, cioè solo di questo breve scritto). O noi siamo in grado di porci nell’ottica del ripensamento dell’analisi sociale – ma prima ancora (un prima logico, non cronologico) delle categorie da utilizzare in quest’ultima – oppure non riusciremo mai ad individuare quali potrebbero essere gli eventuali “soggetti” di una trasformazione del capitalismo in “qualcosa d’altro”; francamente, voler predire fin d’ora che si tratterà di una società comunista – quando ormai il vecchio paradigma di tale trasformazione, fondato sulla classe operaia è andato a farsi benedire, e il comportamento umano, sia interindividuale che tra gruppi sociali (di varia ampiezza), non lascia presagire affatto una solidarietà e cooperazione collettive – è da semplici dementi. Possiamo desiderare il comunismo, possiamo cercare di immaginare quale organizzazione dovrebbe avere per essere tale, possiamo predicarlo come “salvezza del genere umano”; se però sosteniamo (per rassicurare qualche debole di mente) che il comunismo verrà certamente, e magari è anche prossimo, allora o siamo mascalzoni o deficienti.

Qualcuno continua a ritenere che il sottoscritto veda la trasformazione della società soltanto come portato della conflittualità tra dominanti. Da cosa nasca un simile fraintendimento, non lo so. Quel tipo di conflittualità modifica semplicemente la società capitalistica nell’ambito di se stessa, e ha quale conseguenza precipua il ben noto sviluppo ineguale dei vari capitalismi (dei diversi gruppi capitalistici all’interno di un dato sistema e dei differenti sistemi capitalistici su scala mondiale), con l’alternarsi di quelle epoche che ho denominato mono e policentriche. Secondo il mio punto di vista, in queste ultime (dette anche imperialistiche) la lotta intercapitalistica (interdominanti) è talmente acuta da aprire, nei leniniani “anelli deboli” (cioè in determinati punti delle rete costituita dai rapporti tra vari gruppi e tra sistemi capitalistici), fratture, strappi, lacerazioni gravi che si estendono al tessuto sociale d’insieme (ivi compresi, dunque, i rapporti tra dominanti e dominati), aprendo così la strada ad attività rivoluzionarie, cioè di radicale mutamento di quella data totalità sociale. Il risultato di tali attività, però, non solo non è tassativamente la transizione al comunismo, ma spesso nemmeno è il mero tentativo di uscire dal capitalismo in una “qualche direzione”; più semplicemente, quest’ultimo viene modificato in profondità e con radicalità, attribuendo la direzione della società (e l’eventuale egemonia complessiva) a nuovi gruppi pur sempre capitalistici e tuttavia nettamente diversi – anzi acerrimi nemici – dei precedenti. In tal senso, ho avanzato la tesi delle rivoluzioni dentro il capitale (che non sono comunque né modesti cambiamenti della struttura né semplici “rivoluzioni passive”).

In definitiva, il conflitto interdominanti, nell’ambito di una data fase o epoca della formazione capitalistica, non è l’unica, né la principale molla del cambiamento; crea solo, quando si acutizza, le condizioni di un “passaggio”, spesso assai stretto, attraverso cui si mettono in ogni caso in movimento anche i dominati, ed è solo allora che si verificano le modificazioni più radicali; non sempre però effettivamente contro il capitale, perché non è affatto deciso in anticipo, e con matematica certezza (tipica dei dogmatici del marxismo), quali gruppi dirigenti egemonizzeranno i movimenti (che, da soli, non decidono nulla, come invece pensano altri “deboli pensatori” pur sempre esistenti “a sinistra”, che è oggi il vero “buco nero” del pensiero razionale) e quali sbocchi ne risulteranno. Mi auguro di aver scritto in italiano decente e dunque di non essere ulteriormente frainteso.

C’è magari un altro punto che meriterebbe di essere accennato, ma per oggi basta e avanza. In qualche prossimo intervento nel blog, riprenderemo semmai il discorso. Tuttavia, i punti qui sunteggiati mi sembrano da discutere se si vuole dare un minimo contributo all’avanzamento di una teoria sociale che si riprenda dallo choc della batosta subita – mi dispiace dirlo: meritatamente – dal sedicente comunismo del XX secolo. Quanto ai marxisti – parlo di quelli che sono partiti da Marx, perché i punti di arrivo sono oggi pari ad n elevato all’ennesima potenza – hanno negli ultimi anni accumulato una tale serie di scemenze (o, forse, di mascalzonate ben pagate dalle vecchie classi dominanti ormai in crisi di egemonia) di cui non è nemmeno pensabile fare l’elenco.