SULLA VIOLENZA RIVOLUZIONARIA

Vi proponiamo un intervento di Gianfranco La Grassa (“Spigolature” www.ripensaremarx.it) che spiega, in quattro pagine molto intense,  l’importanza e la decisività della violenza rivoluzionaria (nella sua puntualità spazio-temporale) quando questa si fa matrice di una spinta sociale soverchiante, volta al sovvertimento generalizzato delle strutture della vecchia società.

La violenza, quando assume i caratteri della propulsione trasformatrice, dice La Grassa, è energia che travolge, con la sua onda d’urto (se opportunamente direzionata) il sistema (capitalistico)  facendone deflagrare le basi sociali, politiche, culturali; la violenza è la fiamma che alimenta la distruzione creatrice, il ground zero dell’ordine “nuovo” che celebra la sua vittoria sulle macerie di quello appena crollato.

Qui sta la differenza fondamentale tra rivoluzione dentro il capitale (laddove la puntualità energetica, ugualmente definibile come rivoluzionaria, è finalizzata a “rivitalizzare” il sistema attraverso salti “ri-modulanti” e rotture “riordinatrici”, messe in atto dai settori più avanzati della “conservazione sistemica”, quindi da quei gruppi dominanti capitalistici pur sempre interni al sistema ma che si fanno portatori di superiori e differenziati rapporti di forza; insomma ciò che con un ossimoro potremmo definire le forze del cambiamento-non-cambiamento che vogliono rinnovare le forme del dominio e non abolirle) e rivoluzione contro il capitale (laddove, invece, l’energia rivoluzionaria investe, sopprimendole, tutte le strutture e le sovrastrutture della formazione sociale sulle quali si era fondato, sino a quel momento, l’esercizio del potere da parte di tali gruppi dominanti). La Grassa apre il suo intervento con una frase di Lenin, tratta da Stato e Rivoluzione, che fa l’epitome esatta di quello che accade oggi al pensiero dei grandi rivoluzionari quando questi vengono “neutralizzati” dalle forze del potere ideologico costituito: “accade oggi alla dottrina di Marx quello che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con il più selvaggio furore […] Ma dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così dire di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a “consolazione” e mistificazione delle classi oppresse, mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria […]”.

Più chiaro di così Lenin non poteva essere e la manovra odierna per “servire” Marx in salsa “movimentista”, in quanto teorico anticipatore della globalizzazione, o, peggio ancora, come messia delle moltitudini desideranti post-moderne che hanno la pretesa di abolire il valore di scambio semplicemente aggirando le casse delle grandi catene commerciali, testimoniano dei numerosi tentativi per svuotare di senso il pensiero rivoluzionario e renderlo così inoffensivo. Del resto, dato che oggi la dittatura del capitale ha potuto indossare le candide vesti della “Repubblica democratica”, dato che il suo involucro politico copre perfettamente la sua natura dispotica, si può bene concedere ai dominati un po’ di messianesimo celebrativo e magari anche qualche spadone con la guaina ben incollata alla lama, che dà il senso (ma solo il senso) di una possibile reazione. Ma  nella violenza, intesa come forza che tenta la trasformazione sociale, non può esserci “vergogna”, anzi! In essa sbocciano finalmente i fiori di un superiore “slancio morale e intellettuale” da parte delle classi subalterne le quali, attraverso l’esercizio della violenza rivoluzionaria, dimostrano a sè stesse la non inevitabilità del “mondo-così-com’è” e la possibilità di poter incidere nello spazio-tempo del cambiamento storico. Questo è il nostro auspicio, questa la volontà politica che anima il nostro lavoro di anticapitalisti. 

G.P.