UNA SEMPLICE “SCIOCCHEZZUOLA” di G. La Grassa

 

Leggo su Indipendenza la recensione di Bontempelli ad un libro di Latouche sulla decrescita. Lungi da me mettermi a fare le pulci alla recensione su argomenti che mi interessano così relativamente. A mo’ di vacanza, mi fisso su un solo punto che mi sembra abbastanza indicativo di un modo di pensare. Scrive il recensore, su stimolo evidente di Latouche, che decrescita non significa la scelta di diminuire il nostro tenore di vita. Come esempio, tira fuori quello di uno che desidera mangiare ciliegie. Le può mangiare egualmente; basta che, invece di consumare quelle turche importate, si fornisca dagli agricoltori del proprio distretto agricolo. Si risparmiano, così facendo, i costi di trasporto dalla Turchia (costi comprensivi di quelli del combustibile a ciò necessario, che Bontempelli considera invece aggiuntivi a quelli di trasporto); in questo modo, il Pil decresce, ma il consumatore è egualmente soddisfatto.

Un esempio è un esempio, e naturalmente è sempre semplificatore di una situazione. Qui, però, non c’è solo semplificazione (ammessa), ma alterazione del problema secondo un’ottica deformante. Coltivare e produrre ciliegie nell’adiacente distretto agricolo comporta dei costi (in materie prime, compreso il concime, e lavoro) che, anch’essi, incrementano il valore calcolato del reddito nazionale. Bisogna inoltre valutare se il terreno, il clima ecc. sono adatti all’uopo o se invece il costo di trasporto (sopra citato) non sia, in definitiva, inferiore al locale costo di produzione. Come esempio estremo si pensi a Lyssenko che voleva produrre arance in Siberia (per rendere “autosufficiente” l’URSS a tal riguardo). In definitiva, non è per nulla certo che, producendo le merci in loco, si soddisfi lo stesso consumo e nel contempo si verifichi una decrescita (che, nell’esempio fatto, mi sembra in definitiva identificata con una riduzione di costi). Si tenga ancora conto che eventuali forzature in termini di produzione in proprio potrebbero condurre ad esaurimento dei terreni, inquinamento di corsi d’acqua per via di concimi e altro, dell’atmosfera a causa dei combustibili usati dalle macchine per lavorare i campi e raccogliere i prodotti, ecc. Dove va a finire l’ambientalismo? Si deve dunque fare tutto a mano? Allora i consumatori, con la stessa spesa, potrebbero procurarsi forse un decimo delle ciliegie (turche) importate. 

Mi sembra sarebbe meglio ragionare in termini di profitti ottenuti nei vari casi, nonché del potere e dell’influenza politica dei gruppi importatori rispetto ai semplici agricoltori (quasi sempre anch’essi dei piccoli o medi capitalisti). Si può arrivare egualmente ad una critica di certe politiche di importazione invece che di coltivazione nelle vicinanze, ma senza bisogno di invocare le “bellezze” della decrescita. Poi, mi si consenta di dire che si trascurano una serie di altri fattori non direttamente economici: per esempio l’inserimento in una Comunità come quella europea, che attua certe politiche e non solo in campo strettamente produttivo (ed economico in genere). Ci sono poi i rapporti bilaterali tra uno Stato e l’altro, che talvolta comportano tutta una serie di ulteriori “adattamenti” di convenienza reciproca, o magari di necessario cedimento dell’uno di fronte a più forti pressioni dell’altro, a sue “offerte che non si possono rifiutare”.

Ed è qui che, in modo particolare, “casca il palco” delle tesi della decrescita. Proprio l’esempio scelto (le ciliegie), nonché il ragionamento svolto, sono indicativi della loro ottica, che è quella del consumo. Esse si pongono “dal lato della domanda”, vorrebbero portare acqua alla critica del consumismo, della cultura che rende “atomizzati” gli individui nel capitalismo. Viene persa la grande lezione “classica” – ed in questo senso, solo in questo, Marx era un loro seguace – della produzione, del “punto di vista” di chi pone in essere le merci. Il difetto di tale impostazione stava nel suo economicismo, nell’avere affidato le sorti delle nostre decisioni – considerate strettamente dipendenti da quelle effettuate in campo economico – alle virtù dello “spontaneo” meccanismo che muove la “libera” concorrenza nel mercato. Dobbiamo certamente andare oltre l’economicismo, ma sempre con l’ottica della produzione. Tutti i blandi critici riformisti della nostra società – che pure talvolta fingono una terribile radicalità, proprio come gli ambientalisti e i “decrescenti” – pensano che, per andare oltre l’economicismo e contrastare il potere dei produttori (in genere monopolisti), sia sufficiente denunciare la loro capacità di condizionare e indirizzare i “poveri” consumatori (con la pubblicità, dunque i mass media, e via dicendo); una simile “contestazione” non va oltre quella già condotta da Joan Robinson e altri (keynesiani) ben oltre mezzo secolo fa.

E’ invece indispensabile puntare i riflettori sulla potenza intrinseca ad un conflitto di strategie per la supremazia (non soltanto economica, ma che ricomprende in definitiva anche quest’ultima); un conflitto che vede dunque in campo un complesso intreccio di agenti dominanti economici e politico-ideologici, da cui si deve iniziare a districarsi. Si obietterà che si tratta di potenza e conflitto intrinseci al sistema capitalistico, al sistema dei rapporti di dominio/subordinazione in questa società, ecc. Certamente; di grazia, in quale altro sistema crediamo di operare? E crediamo di uscire dal gioco tramite la semplice decrescita? O convincendo gli individui che dobbiamo battere il capitalismo perché le estati (o inverni) non sono mai stati così caldi da cent’anni (taluni sparano anche da 200 anni) a questa parte, perché si sciolgono i ghiacciai e dovremo infine ritirarci quanto meno in collina dato che le pianure saranno conquistate dal mare? Ecc. ecc. Cerchiamo di tornare alla vecchia “analisi di classe”, magari un po’ (molto) meno semplificata di quella di un tempo.

In un famoso convegno di scrittori all’inizio degli anni ’30, dopo essere stato zitto per ore ad ascoltare il loro inconcludente chiacchiericcio, Brecht andò sul palco e disse: “adesso cominciamo a parlare di rapporti di produzione”. Fu naturalmente guardato con smarrimento dai suoi ignari colleghi. Aggiorniamo pure la sua frase: parliamo dei rapporti di forza, dei conflitti tra capitalismi, delle possibilità di rinsaldare alcuni fronti di opposizione a tale forma di società. Non battendoci certamente per la mera distribuzione – come fanno i rancidi residuati “comunisti” e “marxisti” d’oggidì, con in testa il solo conflitto capitale/lavoro – bensì per la trasformazione, appunto, dei “rapporti di produzione”. Senza continui escamotages e giravolte nell’ambito della sfera della “domanda”. La critica anticapitalistica la smetta di cincischiare con il preteso “consumismo”, con il potere dei produttori (le multinazionali) di condizionare gli individui atomizzati; riaffronti invece i grandi problemi dell’uso della potenza, insiti negli scontri strategici interdominanti che cominciano a palesarsi con sempre maggior chiarezza, con molta più evidenza che nell’epoca della “guerra fredda” tra i “due campi”.