Con questi ultimi tre pezzi il blog riposerà fino a lunedì prossimo…

LA PENISOLA DEI TESORETTI

 

“All’ordine facite ammuina, chi sta a prua vada a poppa e chi sta a poppa vada a prua; chi sta a destra vada a sinistra e chi sta a sinistra vada a destra; chi sta sottocoperta salga, e chi sta sul ponte scenda, passando tutti per la stessa scala; chi non ha niente da fare, si dia da fare qua e là.”

Ecco come descrivere al meglio il bailamme inscenato dalla destra e dalla sinistra istituzionali ogni qual volta si tratta di mettere a punto un’iniziativa politica o economica degna di tale nome. Appena scattano i rimbrotti dell’UE o del FMI tutti s’affrettano, sudaticci, ad affollare il ponte della nave, a dimostrare che loro lavorano per riportare l’Italia nel solco tracciato dagli organismi internazionali, i quali dicono sempre la stessa cosa: tagliare! Tagliare! Tagliare! E il coro degli asini di casa nostra ripete all’unisono che taglieranno tutto pur di restare fedeli alle leggi imperiture dell’economia mondiale. Ma da questi due schieramenti, che si fanno acerrimi nemici solo quando devono accaparrarsi  le cadreghe e i benefici che derivano dall’occupazione delle cariche pubbliche, non potrà mai venire nulla di buono.

Per questi loschi avvoltoi lo stesso sostantivo “politica” ha da tempo smesso il suo originario riferimento etimologico al buon governo della polis per indossare le stanche vesti dell’azzuffata quotidiana attraverso la quale viene dissimulata una diversità di obiettivi che non esiste affatto. Questi due schieramenti continuano a farsi portatori di istanze ideologiche diverse (neoliberismo a destra e neokeynesismo a sinistra, con sfumature pseudostatalistiche nella cosiddetta ala estrema), efficacemente descritte da Gianfranco la Grassa nell’articolo di oggi e anche in saggi precedenti, ma entrambi si affidano a pratiche clientelari della peggior specie (similmafiose, come le definisce appunto La Grassa) per allargarsi come piovre nella vita sociale del paese, instaurando notabilati di ogni ordine e grado (basti guardare come si sono moltiplicati gli enti parastatali in questi anni) con i quali continuano a spartirsi il bottino sottratto agli italiani.

Naturalmente lo scenario di oggi è molto diverso da quello del Regno di Napoli (che non arrivò mai a tali livelli di putrescenza) e gli “ammuinamenti” non hanno più la natura di quelli richiesti dalla Real Marina del Regno delle Due Sicilie alla ciurmaglia pelandrona che si affaccendava solo durante le ispezioni ordinate dalle Alte Autorità del Regno.

Abbiamo più volte detto chi comanda oggi nel “pauvre pays” e cioè quel connubio nefasto che vede legate Grande Finanza e Industria Decotta, le quali grazie all’incapacità delle nostre classi politiche possono permettersi di fare il cattivo e il cattivissimo tempo in tutte le italiche questioni. Oggi questi gruppi dominanti si servono della sinistra per concretare il loro saccheggio ai danni del paese, ma non hanno ancora abbandonato il sogno di un grande calderone moderato dove potersi muovere con più maestria limitando quella rissosità  (derivante dalla eterogeneità delle coalizioni che sino ad oggi si sono alternate al governo) che spesso fa venire a galla i loro turpi piani.

Così ogni occasione è buona per inscenare un movimento di superficie che non smuove di un acca la palude di problemi nella quale l’Italia si trova invischiata, anzi c’è un peggioramento costante che sfaglia le basi d’argilla sulle quali il paese è costretto a vacillare da più di un quindicennio.

Dalla riforma elettorale, ai pacs-dico, all’immigrazione, sino alla riforma del sistema previdenziale è tutto un correre alla rinfusa per dare la sensazione del movimento mentre la barca affonda implacabilmente.

Adesso si ritorna a parlare dell’extragettito fiscale e di altri 4 mld di euro che il governo avrebbe a disposizione per fare “qualcosa”, ma già i cani da guardia degli organismi monetari e bancari che siedono nell’esecutivo di Centro-Sinistra, mettono le mani avanti sostenendo che non dovranno esserci rincari nella spesa pubblica.

Tutto questo nonostante il capo del governo, a giugno, aveva sostenuto che i conti pubblici erano finalmente indirizzati sulla strada che porta all’appianamento, tanto da lasciar credere agli allocchi della sinistra radicale che l’agognata apertura del portafoglio a favore dei settori sociali più deboli fosse questione di pochi mesi. Ora, invece, si torna a parlare di una spesa sociale che cresce e di una evasione che “azzanna” lo Stato. In realtà, fa tutto parte di quel gioco al massacro, ordito dai nostri governanti, per fomentare la solita guerra tra poveri. Infatti, se la spesa cresce, come dicono lorsignori, i settori svantaggiati possono mettersi l’anima in pace perché non potranno avere nulla di più dello zero che hanno fin qui ricevuto. Nel frattempo continuerà la stretta sul mondo delle partite IVA e delle piccole imprese, responsabili di non contribuire abbastanza alle spese della casta e dei suoi padroni della GF e ID.

Come si può ben comprendere, anche quest’ultima caccia al “tesoretto” l’hanno già vinta Montezemolo e soci, con buona pace della ditta Bertinotti & Figli.

IRAQ: FALLIMENTO DEL GOVERNO MALIKI, BALCANIZZAZIONE GARANTITA…( di Günther Deschner fonte voxnr.) Trad. G.P.

Già quando il Presidente americano George W. Bush, nel gennaio 2007, ha annunciato la sua "nuova strategia irachena", che permetterebbe, infine, di far progredire le cose laggiù, la maggior parte degli osservatori era sicura che i punti essenziali di questa strategia non avevano affatto basi concrete ma, come quando si danno i numeri vincenti di una lotteria, si trattava di azzardo puro: "da qui a settembre", annunciava la casa bianca, "un’offensiva di sicurezza" pacificherà definitivamente il calderone iracheno in ebollizione, l’esercito e la polizia del nuovo Iraq sarebbero infine in grado di fare fronte alla situazione e garantire la sicurezza interna del paese contando soltanto sulle loro forze; in seguito, l’industria petrolifera irachena ridiventerebbe il motore economico del paese distrutto perché una nuova legge che regolamenta lo sfruttamento dei campi petroliferi garantirebbe una base sicura alla riapertura. Infine, il governo iracheno ne sorgerebbe rafforzato e dimostrerebbe le sue capacità di imporsi. Restano dunque ad oggi, i primi di agosto 2007, circa quattro settimane per realizzare questo programma… Ma ecco che il governo del primo ministro iracheno Nouri al-Maliki non si è mai trovato in una posizione così scomoda. Le parti sunnite hanno lasciato la coalizione governativa; i loro i sei ministri hanno abbandonato i loro gabinetti. I sei altri ministri, parenti del capo religioso sciita Moktada al-Sadr, avevano già lasciato il governo al-Maliki in aprile scorso, perché il primo ministro aveva rifiutato di stabilire un calendario per la partenza delle truppe americane.

 

La metà del gabinetto iracheno è in dissenso.

 

Il 7 agosto 2007, i cinque ministri del movimento secolare "alleanza per il Iraq", dell’ex primo ministro di transizione Ayad Allawi, hanno annunciato, a loro volta, che non parteciperanno più alle sessioni del gabinetto. Questa decisione ha effetto immediato.

Con questo nuovo dissenso, sono attualmente diciassette i ministri, ossia la metà del gabinetto, che hanno lasciato definitivamente o parzialmente il "governo d’unione nazionale". Nessuno non può negare, ormai, che il governo al-Maliki va verso il baratro, e ad alta velocità. Anche in Parlamento, non si trova più nessuno slancio: solo un quarto dei parlamentari autoproclamati si è affaticato a preparare le leggi ritenute più necessarie al paese ma ecco che a tutti i deputati si è appena assegnato un congedo a lungo termine, non previsto. Non si riuniranno più entro il 4 settembre. Nulla permette di prevedere che la "legge sul petrolio", molto contestata, passerà dinanzi a questo Parlamento. Affinché non si rimproveri loro "di vendere all’asta le ricchezze nazionali" a potenze straniere, il governo, nel suo progetto di legge, ha escluso effetti potenziali dalla nuova legge sui ventisette campi pétroliferi ancora in sfruttamento. Il diritto di sfruttare gli altri sessantacinque, che sono nuovi e non sono stati ancora messi in opera, sarà venduto a consorzi internazionali. Al di fuori della "zona verde", il paese è sottosopra. Attentati dinamitardi, attentati suicidi si moltiplicano: la spirale di morte non cessa di abbracciare il paese. La situazione generale in materia di sicurezza si è un po’ modificata, ma non è certamente migliorata. Un ufficiale superiore dell’esercito americano in Iraq, il Tenente-generale Raymond Odierno, ha appena dichiarato che, in quest’ultime settimane, gli sciiti sono stati responsabili di quasi i tre quarti di tutti gli attentati commessi contro le truppe americane. Certamente, un buono numero di insorti sunniti è stato cacciato da Bagdad dall’ "offensiva di sicurezza" ed ha ripiegato in altre regioni, ma il loro posto è stato preso, ormai, dai combattenti sciiti. L’efficacia delle forze di sicurezza irachene lascia a desiderare, mentre la loro costituzione è una condizione imperativa affinchè gli Stati Uniti acconsentano ad evacuare le loro truppe. Gli Stati Uniti avevano fornito a queste forze irachene circa 200.000 cannoni d’attacco e pistole. Queste armi sono scomparse senza lasciare alcuna traccia. Le autorità americane temono che siano nelle mani degli insorti o di bande criminali. Le realtà dell’ Iraq di oggi, al quale deve applicarsi la "nuova strategia" di Bush, risulta di giorno in giorno più violenta e caotica. Il fallimento del governo al-Maliki mostra, ancora una volta, che L’ Iraq, de facto, si è frammentato in molti centri regionali di potere. Il potere politico, poliziesco ed economico, infatti, è passato dal centro alle periferie regionali o locali, secondo fenditure etniche, religiose e tribali. Il governo di Bagdad non è che un attore politico fra molti altri. I kurdi al Nord, gli sciiti al Sud non cessano di consolidare le loro autonomie. Il frazionamento della società e del mondo politico iracheni ha per effetto che non c’è una sola guerra civile che fa rabbia, ma tutta una gamma di guerre civili. Insurrezioni e lotte per la divisione del potere si svolgono secondo divisioni mutevoli, che comportano coinvolgono tutte le forze vive della società. Questo crollo generale ha anche per risultato che la sensazione di un’appartenenza comune ad un Iraq unitario, sensazione già molto debole d’altra parte, sta scomparendo completamente.

 

L’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia agiscono di testa propria

 

Altri fattori di destabilizzazione dell’ Iraq si manifesteranno certamente entro la fine del 2007: il federalismo appare ormai come la sola uscita possibile per i kurdi e per un numero crescente di sciiti. Il dibattito in corso sulla divisione ed il controllo delle risorse petrolifere e gazifere, la questione dello statuto di Kirkuk ("Kerkûk" in lingua kurda), che, secondo la costituzione, deve essere regolato alla fine del 2007 da un referendum popolare, è altrettante questioni esplosive in sé, sintomi di crolli futuri." In tale contesto, i più potenti vicini dell’ Iraq, come l’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia, aggiungeranno, per loro conto e per ragioni diverse e divergenti, maggiore destabilizzazione; ciascuno di loro tenterà di modificare il corso delle cose in Iraq a suo profitto. L’istituto di studi strategici britannico, Chatham House, ha abbozzato queste realtà in tutti i dettagli nello scorso giugno. Le sue conclusioni sono sempre valide, visto i pochi cambiamenti verificatisi nell’equilibrio dei poteri iracheni e dall’offensiva di "sicurezza" lanciata dagli americani: La realtà, eccetto se nuove strategie permettono di trovare un’altra soluzione politica, non ci lascia altra via che di dialogare con le organizzazioni sostenute dalla volontà del popolo, anche se non condividono gli interessi degli americani nella regione ".

STATALISMO VERSUS CLIENTELISMO di G. La Grassa

 

Ho sostenuto più volte che il “comunismo” (quello che si pretendeva tale nel ‘900) è stato statalista (in qualche modo, dunque, lassalliano) più che marxista. Statalista sia nella sua versione hard, stalinista, con l’industrializzazione a tappe forzate e la pianificazione rigorosamente centralizzata che assegnava un ruolo del tutto subordinato al management dei grandi Kombinat, un grigio apparato burocratico esecutore di ordini, lontano mille miglia da quell’atteggiamento innovativo degli imprenditori che ha dato il là all’impetuoso sviluppo delle forze produttive nel capitalismo “occidentale”; sia nella versione soft, togliattiana, della “via italiana al socialismo”, che sembrava più adatta ad un paese ormai avviato verso i gradini medio-alti dello sviluppo industriale, in cui largo posto veniva assegnato alla piccola-media attività produttiva, subordinata però all’orientamento impresso dalla grande impresa “pubblica” dell’IRI (istituto creato dal fascismo) in funzione (presunta) antimonopolio “privato”, con cui non si intendeva tuttavia entrare in urto aperto e irriducibile, poiché si cercava di attuare una politica bifronte di scontro a volte acuto, ma anche di sotterranea composizione dello stesso, con vasti ambienti sociali cattolici che – mediante il controllo dei settori economici (industrie e praticamente tutte le grandi banche) di tipo “pubblico” – “ricamavano” un morbido conflitto (condito di continui aiuti statali) con i grandi monopoli privati, nel mentre praticavano il loro finto solidarismo mediante concreto sostegno fornito ad un fitto reticolo di attività “medio-piccole” (in specie agricolo-industriali e commerciali), base essenziale di un maggioritario consenso elettorale.

Sarebbe tutta da riscrivere la storia del comunismo novecentesco, smascherando infine la duplice finzione – cui crederono però milioni e milioni di subordinati – della “costruzione del socialismo” dall’alto o della graduale presa del potere da parte delle masse (quindi dal basso) per via elettorale e pacifica. Da quelle finzioni – perseguite però in buona fede anche da molti dirigenti  – sono derivati sia il crollo del “socialismo reale” che la “grande abiura” del piciismo italiano e la sua subitanea trasformazione in apparato politico di servizio del più arretrato capitalismo finanziario e industriale nostrano (operazione “mani pulite” e seguenti), salvando quei pezzi di democristianeria che hanno accettato una funzione subordinata di “supplemento d’anima” di stampo solidaristico-religioso, ormai marcio e corrotto, coltivato dunque senza più un briciolo di onestà. Non è qui il luogo di fare questa storia, che ha avuto – ma molti decenni fa – una sua grandezza, pur se non aveva nulla a che fare né con il socialismo e tanto meno con il comunismo, né con lo spirito “caritatevole” cristiano. Qui mi interessa soltanto rilevare che il processo ha ormai creato quelle che l’ex piciista Macaluso – già “migliorista” e riformista, della corrente del PCI detta “amendoliana”, ma personaggio che merita comunque stima e rispetto insieme a pochi altri della “vecchia guardia” (sia pure di vario orientamento) – ha ben individuato come “due oligarchie” (di derivazione piciista e diccista) ormai in panne e vicine al fallimento.

 

Oggi, negli ambienti che fecero parte del PCI (e magari sostengono adesso di non essere mai stati comunisti, alla guisa del fatuo farfallone a nome Veltroni) o anche del PSI (si pensi al “tristo” personaggio che è Bertinotti, altro vanesio alla ricerca di notorietà “istituzionale”), non esiste più lo statalismo di un tempo. Quest’ultimo, lo ribadisco, non aveva nulla a che fare con la costruzione del socialismo né con una possibile via pacifica e parlamentare allo stesso obiettivo; era invece il prodromo dell’involuzione e del totale fallimento dell’idea di Marx e poi di Lenin di una possibile rivoluzione operaia o proletaria in grado di mettere fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tuttavia, quello statalismo ha comunque cambiato il mondo, consentendo la creazione di una forte potenza opposta al capitalismo “occidentale” (da me denominato formazione dei funzionari del capitale) e favorendo così il grande movimento di “decolonizzazione” e le intense e vaste lotte di liberazione nazionale, con il completo sconvolgimento della carta geopolitica globale. La fase attuale di “impero” statunitense, con tuttavia il manifestarsi di precisi sintomi di passaggio ad una nuova fase “imperialistica” (policentrica), è figlia dei grandi sconvolgimenti del XX secolo che è stato quello detto del “comunismo”, e che andrebbe invece definito, magari con un minimo di esagerazione, dello statalismo. Quest’ultimo è in rotta dappertutto, perfino nei tanto sopravvalutati “paesi nordici” (europei). Sembra che le sue ultime, ormai logore, vestigia sussistano in Italia; tanto è vero che gli ignoranti del centro-destra – in particolare il loro leader – sostengono che oggi in Italia predominano i comunisti.

Se Berlusconi non capisce gran che, è però necessario ricordare che questa sua incomprensione è il “duplicato” di quella di coloro che hanno compiuto la “grande abiura”. Anch’essi hanno preso per comunismo una esasperata forma di statalismo (tipo URSS); partendo da tale svarione, blaterano sulla sempre esistita differenza del PCI rispetto a tale forma, e sul fatto che l’hanno oggi completamente abbandonata, salvo alcuni residui che ancora si dedicano alla mistificazione conservando la mera denominazione di “comunisti”. Se gli eredi (pur traditori) e i fintoni del “comunismo” fanno confusione tra questo e lo statalismo, perché pretendono che l’avversario ci capisca qualcosa?

 

 In realtà, oggi non esiste più nemmeno in Italia un vero statalismo; esiste il clientelismo attraverso lo Stato, che è cosa ben diversa. Tutti gli ideologi imbroglioni del capitalismo, di destra o di sinistra che siano, pretendono che quest’organo “supremo” sia al servizio della collettività, al di sopra delle varie parti in eventuale conflitto, di cui esso si fa mediatore contemperando gli interessi di tutti. In realtà, ognuna di queste parti in conflitto (per nulla eventuale, ma sempre attuale, anche se più o meno acuto) cerca di influenzare lo Stato affinché agisca secondo le sue interessate preferenze. Le varie organizzazioni (partiti, sindacati, lobbies, ecc.), che agiscono nella sfera politica, mirano ad accaparrarsi il consenso di determinati strati e comparti sociali al fine di usare “in proprio” i vari apparati “pubblici”. Neoliberismo e neostatalismo (che tende a paludarsi, teoricamente, da  keynesismo) sono una “commedia delle parti” in conflitto per orientare quest’ultimo al proprio successo.

Tuttavia, il degrado politico è ormai tale che i gruppi dirigenti delle varie organizzazioni, che si battono fra loro nella sfera politica, nemmeno tentano di rappresentare gli interessi complessivi di dati raggruppamenti sociali – molto spesso interrelati trasversalmente tra loro – tipo quelli grande-imprenditoriali (finanziari e industriali); o il lavoro detto autonomo e quello dipendente (salariato) o le varie fasce interne sia all’uno che all’altro; o i “risparmiatori” e i “consumatori”; e via elencando. In realtà, salvo che per quel che riguarda i più potenti, ma più arretrati, grandi gruppi finanziari e industriali – che impongono, sia pure da dietro le quinte, le loro direttive – i gruppi dirigenti dei vari organismi (partiti) attivi in politica si tengono in stretto contatto solo con i loro sodali alla testa delle associazioni di rappresentanza (“sindacale”) dei vari raggruppamenti sociali. La politica non ha quindi più alcun orientamento di base; non dico ideologico, riguardante i valori comuni a vasti insiemi di questi raggruppamenti, ma nemmeno di difesa di interessi caratterizzati in senso corporativo. Al di sotto dei grandi gruppi finanziari e industriali, effettivi dominanti, esistono solo svariati gruppetti di personaggi corrotti, legati ai “rappresentati” da rapporti di “clientela”, che assomigliano molto a quelli mafiosi che pur tutti dicono di voler sconfiggere (ma non possono farlo perché sono dello stesso genere e natura).

 

Il preteso neoliberismo finge di appoggiare la libera iniziativa dei “soggetti” produttivi. Questi non hanno però nulla a che vedere con il “macellaio di Smith”, al cui “egoismo” i consumatori avrebbero dovuto affidarsi per essere riforniti della carne migliore. Il mercato è dominato dalle grandi concentrazioni economiche. Al loro interno, i gruppi più arretrati e parassitari – che hanno bisogno, come del resto da sempre nel nostro paese, di attingere alle “casse dello Stato” – hanno deciso di far rappresentare i loro interessi nella sfera “pubblica” allo schieramento detto di centrosinistra (anche questa è pratica in uso da decenni). Il neoliberismo della destra ha quindi solo lo scopo di contrastare tale scelta, cercando di sobillare – ma senza mai il coraggio di guidare uno scontro aperto – i settori più sensibili alle prevaricazioni degli apparati pubblici, settori che sono quelli del lavoro sedicente autonomo. L’agitazione antifiscale è uno dei mezzi in primo piano in questo momento, anche perché appare “giusta” nell’attuale fase di ulteriore disfacimento di tutti i (carenti da sempre) settori che dovrebbero fornire servizi adeguati: sanità, poste, ferrovie e rete di trasporti in genere, uffici dell’amministrazione pubblica (sia centrale che locale), ecc. In effetti, diventa sempre meno comprensibile perché si debbano pagare sempre più “oboli” allo Stato, quando questo non fornisce alcunché di “pregiato” e utile.

La recita delle parti in commedia è tuttavia molto più comica (e irritante) “a sinistra”. Se il giorno di Capodanno venissero registrate le diverse dichiarazioni delle sue innumerevoli componenti, si risparmierebbe poi tempo (e denaro per annunciatori, corrispondenti e giornalisti vari), trasmettendole di tanto in tanto durante l’anno. La parte “moderata e riformista” dello schieramento afferma che è ora di finirla con i ricatti delle “estreme”, che bisogna riconquistare i settori “produttivi” piccolo-imprenditoriali (e le partite IVA) con riduzioni fiscali e altro, tuttavia liberalizzando tali settori per favorire i consumatori. Le “estreme” minacciano a loro volta “la crisi” se non si rispetta il programma (quello delle “non so quante centinaia” di pagine, tirato da tutte le parti), rilanciando inoltre il “pubblico” (quindi il neostatalismo, a volte appunto mascherato da neokeynesismo) e facendo pressoché esclusivamente gli interessi “dei lavoratori” (che sembrano essere solo quelli dipendenti e salariati, e del più basso livello; tutti gli altri non lavorano). 

Poiché si tratta di opportunisti e menefreghisti, solo dediti a piccoli interessi personali, alle loro roboanti dichiarazioni non segue null’altro; “tutti insieme appassionatamente” sono abbarbicati ai loro seggi governativi e parlamentari e si “divertono” a spartirsi ogni posticino di qualche potere negli apparati della sfera “pubblica”, usando però la nobilitante espressione inglese (americana): spoil system. Quando occorre, intervengono poi l’ineffabile “Monty” (degno figlio, “spirituale”, di suo padre) e altri dirigenti di associazioni di categoria, dalla parte dei centrosinistri moderati; mentre a favore delle altre componenti di tale schieramento intervengono i dirigenti sindacali, ma con largo ventaglio di posizioni: cislini e uillini un po’ più “centristi”, cigiellini più “radicali”, metalmeccanici del tutto “estremisti”.

 

Questa ormai tediosa commedia, cui partecipa in posizione attualmente nettamente subordinata (e “di rimessa”) anche il centrodestra, è appunto ammantata dalle grandi opzioni liberiste o invece stataliste (dette keynesiane), ma si tratta invece di semplice clientelismo, di politica spicciola e miserabile, che lascia imperversare gli interessi parassitari, succhiatori di ogni linfa vitale della società, che fanno capo a quella che ho spesso denominata GFeID (grande finanza e industria decotta), guidata (non completamente ma in parte non indifferente) dal “Trio Infernale”; formato, lasciando da parte i nomi delle persone e andando a quello delle società, da Fiat, Intesa e Unicredit. Non certo unite fra loro, tutto il contrario; ma che recitano anch’esse bene la commedia delle parti, per cui gli interessi dell’intero paese sono per il momento scambiati con i (sostituiti dai) loro.

Come si possa uscire da un situazione così pericolosa e disastrata non lo so. Oggi è di moda sostenere che le grandi democrazie occidentali sono spesso nate da rivoluzioni innescate dalla lotta antifiscale. A parte l’azzardo del paragone tra l’Inghilterra del ‘600 e la Francia del ‘700 con quel “pauvre pays” che è l’Italia (e in questi ultimi anni lo è mille volte di più che in ogni altro periodo della sua non brillante storia), è bene ricordare che quelle rivolte finirono con il taglio della testa di Carlo I (1649) e di Luigi XVI (1793). Qui, Bossi propone 5-6 mosse che, a suo avviso, metteranno in difficoltà il governo rispettando la legalità. Veramente tutto da ridere. A differenza che nella poesia, qui è a sinistra che s’ode lo squillo di tromba dei cialtroni, e a destra risponde lo squillo dei buffoni. Si resta sempre in attesa di qualcosa di serio; non certo come le rivoluzioni inglese e francese – inutile sperare tanto – ma almeno con l’abbandono di questa farsa!

Per intanto, esercitiamoci nel famoso “pernacchio” eduardesco all’indirizzo di tutti i cantori del neoliberismo e del neostatalismo: il primo sta al liberismo autentico come il secondo sta allo statalismo del “comunismo” novecentesco.