RISPOSTA DI GIANFRANCO LA GRASSA A FRANCO D’ATTANASIO (PROCESSO OGGETTIVO E CONOSCENZA OGGETTIVA)

Caro Franco,

poni molti problemi nel tuo intervento, ma non li analizzerò punto per punto. In genere, le mie risposte consistono nel lavoro che continuo, passin passino, a svolgere. In molti pensano che questo mio sia un modo d´agire troppo autoreferente; io sono invece convinto di tener conto delle obiezioni altrui. Più semplicemente, mi disperderei se mi limitassi a ribattere a quanto mi scrivono gli altri; mentre, seguendo con coerenza un certo percorso di ricerca, di fatto rispondo anche alle obiezioni o almeno alle questioni fondamentali da esse poste.

Di conseguenza, mi limiterò qui a poche considerazioni. Innanzitutto, però, vorrei chiedere a tutti, e quindi anche a te, di non strausare il termine dialettico (o dialettica), ecc. Anche perché si nota facilmente che la maggior parte di quelli che lo usano intende riferirsi alla semplice interazione tra oggetti o processi o fenomeni, ecc. Questo è l´uso invalso tra i marxisti – mi ricordo le polemiche con il mio Maestro Pesenti – in seguito alla cattiva lettura che fece Lenin della hegeliana Scienza della logica; ma lui era scusato, perché non ebbe il tempo di leggere il terzo libro di quest´opera. In ogni caso, non sono un esperto di Hegel, e tuttavia credo di aver almeno capito che dialettica non significa semplice interazione. Allora, per il principio del rasoio di Occam, semplifichiamo i nostri discorsi e parliamo direttamente di interazione. Alcuni possono voler riferirsi a quella "universale", al fatto che ogni oggetto o processo o fenomeno è in una qualche relazione con ogni altro esistente nel Cosmo intero. Se pensiamo così, facciamo solo pasticci; per fare scienza è necessario afferrare ciò che – dell´universale – ci sembra più importante onde stabilire, via ipotesi e con semplice approssimazione (molto ampia), certe connessioni ed effettuare eventualmente certe previsioni.

Credo che ogni pensatore abbia criticato il dualismo tra oggetto e soggetto; in moltissimi hanno pensato di risolvere il problema, e poi, sempre, un successivo studioso ha criticato le soluzioni dei precedenti. Io, nemmeno mi sogno di risolverlo, così sto più tranquillo. Inviterei soltanto a prendere in considerazione il dualismo tra razionalità strumentale e razionalità strategica. La seconda non può fare a meno della prima; e non può quindi fare a meno di una valutazione, in qualche modo oggettivistica (anche se sempre in base a ipotesi poste dal ricercatore scientifico, che è un "soggetto"), dei dati che caratterizzano un certo campo in cui si svolge l´azione strategica, ivi compresa la valutazione delle "forze in campo", ecc. Dopo, però, la strategia va oltre la semplice datità appurata e fissata (ovviamente anche in senso quantitativo); si può descrivere con mille frasi, e indicare con mille "segnali", che cosa connota l´attività strategica, ma non la si stringerà mai in una definizione esaustiva e pienamente soddisfacente. Così come il critico d´arte, letterario, cinematografico, ecc. spenderà (e non inutilmente, sia chiaro) fiumi di parole per illustrare il perché una certa opera è un capolavoro, un´altra è un fallimento, un´altra il risultato di "onesto artigianato", ma non riuscirà mai a fissare per generalizzazione – come nei settori della scientificità – che cosa precisamente fa di un´opera un capolavoro o un aborto.

Quindi, il soggettivismo che impregna parte della mia teorizzazione non desta in me molte preoccupazioni. Meno ancora il tema della circolarità, che è poi strettamente connesso a quello del rapporto soggetto/oggetto. Siamo alla solita domanda: "che cosa è nato prima: l´uovo o la gallina?". Domanda di difficile risposta; meno difficile è forse rispondere a quest´altra domanda: "se ti portano un uovo e una gallina e ti dicono di scegliere uno dei due doni, quale scegli?". Se hai una fame che non ci vedi, ben si sa che scegli l´uovo, ma con una fretta che ti preclude l´ottima probabilità di avere un uovo anche domani e dopodomani, ecc. Il problema della scelta è in ogni caso legato a date contingenze. Lo vedrai illustrato anche nel saggetto che sto preparando a partire "da Friedrich List". Ogni scienziato pretende di realizzare i suoi obiettivi di ricerca con generalizzazioni teoriche che valgano per sempre; ed è convinto che le successive teorie, che correggono le precedenti, siano soltanto progressive approssimazioni alla "verità definitiva" (magari mai raggiungibile concretamente, ma sempre raggiungibile "in linea di principio"). Talvolta, però, uno sceglie consapevolmente ciò che è "utile" in quella data "contingenza", che può essere una intera epoca storica o perfino una lunga era geologica o astronomica. Oppure, in dati casi, ha come scopo "l´analisi concreta della situazione concreta".

Il tema forze produttive/rapporti di produzione non fa eccezione. Intanto lascerei perdere, come già detto, lo stucchevole aggettivo "dialettico" per denotare la loro relazione, che è una interazione. E per di più di perfetta circolarità, come si vede dal "meccanicismo deterministico" di cui è stata accusata, ad es., la marxiana Prefazione del ´59 (a Per la critica dell´economia politica) o, per converso, da certe teorizzazioni althusseriane che rovesciano, simmetricamente, la relazione rapporti/forze. Si può per la verità essere un po´ più raffinati, pensando i rapporti come strutturanti le forze dall´interno stesso di queste ultime, ma in definitiva si sostiene la predominanza dei primi rispetto alle seconde. La funzione "utile" (politica) delle due diverse impostazioni teoriche apparve in chiara luce nel dibattito tenuto in Critica marxista nel 1972-73 (cui partecipai anch´io come althusseriano); aperto da un articolo dello storicista Sereni e proseguito con la risposta di Luporini (nel suo periodo di maggior vicinanza ad Althusser) e poi da molti altri di opposte tendenze.

Sostenere il primato delle forze produttive – naturalmente ponendo avanti il problema della scienza, quindi della certezza quantitativa conseguibile nella dimostrazione di certi assunti – significava di fatto appoggiare la linea gradualista e opportunista del PCI, che si affidava appunto allo sviluppo delle forze produttive, reprimendo (e anche espellendo) chi voleva anticipare i tempi con "rivoluzioni affrettate"; il cavallo di battaglia dei gradualisti era la ben nota frase di Gramsci secondo cui una formazione sociale non perisce (e trapassa in altra) fino a quando non sviluppa tutte le forze produttive che è in grado di sviluppare (affermazione assai poco passibile di quantificazione, perché ogni volta che una formazione sociale, ad es. il capitalismo, non ristagna ma riprende invece slancio, allora vuol dire che non è ancora giunto il momento di superarla, è meglio adattarvisi per ottenere migliori condizioni di vita per "i lavoratori", cioè, in realtà, per i tuoi elettori che ti fanno occupare tanti bei posti di potere).

Affermare il primato dei rapporti di produzione implicava un´aspra critica della concezione precedente e la volontà di "rivoluzionare" – anche con la forzatura della "violenza" se necessario – i rapporti in questione. Naturalmente una simile concezione, contrariamente a quanto certi superficiali hanno pensato, non significava d´emblée trascurare il problema dello sviluppo delle forze produttive, non significava avere predisposizione all´antimodernismo, al rifiuto del progresso tecnico-scientifico, alla decrescita e ad altre amenità odierne dei (finti) critici del capitalismo. Semplicemente si voleva mettere in luce come ogni gradualismo fosse complicità con il capitalismo, che non è affatto condannato alla stagnazione secondo quanto pensava l´ortodosso; in realtà l´opportunista. E qui permettimi una digressione.

Per troppo tempo, e per motivi spiegabilissimi in termini storici, si è creduto che Lenin fosse l´ortodosso e Kautsky il revisionista; tale termine è inoltre divenuto sinonimo di opportunista, di traditore, di connivente con i capitalisti. In realtà, era vero il contrario: il revisionista fu proprio Lenin (in quanto creativo come deve esserlo ogni vero "rivoluzionario", poiché la rivoluzione è novità, è originalità) mentre Kautsky rimase un "grigio" ortodosso; e l´ortodossia, quando il tempo trascorre e le condizioni storico-economico-politiche mutano, conduce all´opportunismo e all´autentico tradimento, all´accoccolarsi tra le braccia dell´avversario per goderne tutti i privilegi possibili, quelli che le classi dominanti riservano ai loro fedeli "sudditi". Non è un caso che oggi i peggiori opportunisti e veri "venduti" siano i post e gli ancora "comunisti".

Ritornando al primato dei rapporti di produzione, nel tentativo di evitare la circolarità della relazione rapporti/forze ("l´uovo e la gallina") si è voluto sostenere che i primi erano proprio intrinseci alle seconde, le informavano di sé, le strutturavano. In questo modo, si è criticata l´impostazione di Marx secondo cui era da combattere solo l´uso delle macchine e non queste ultime in se stesse considerate. Per molti, invece, la tecnologia diventò, intrinsecamente, portatrice dei rapporti capitalistici. Ad es., i ritrovati tecnici americani ed europei, esportati in Cina, potevano minare la "rivoluzione culturale proletaria" che laggiù si stava svolgendo. In questo modo, si è creato un bel disastro, si è "ingrippata" la Cina con fallimento di quella rivoluzione, e si è alla fine favorita l´ascesa di Teng con quello che ne è seguito; probabilmente inevitabile, ma comunque il tutto è stato facilitato da "cattive concezioni" rivoluzionarie. Le teorie – nella battaglia che si svolge fra loro – sono perciò portatrici di politiche contrapposte, cercano di conseguire obiettivi fra loro contrastanti, sono espressione di interessi antagonistici. Nel conflitto, che il teorico vive come costruzione di "corrette" generalizzazioni scientifiche tali da "riprodurre il concreto nel cammino del pensiero" (Marx), le teorie diventano in realtà veicolo di ideologie che supportano precise politiche atte a far prevalere gli interessi di gruppi sociali diversi; e chi vince, non vince solo teoricamente! E non vince per soli meriti "scientifici", bensì per i rapporti di forza esistenti in quella fase storica.

Beh, mi accorgo di avere scritto anche troppo. Per adesso sospendo e riprendo l´altro lavoretto. Comunque, complimenti per lo scritto e un fraterno abbraccio (mi rifiuto di dire paterno, malgrado la differenza d´età). Ciao

glg 

L’INFORMAZIONE DI QUALE REGIME? 

Visto che qualcuno ironizza sulla nostre letture, sul fatto che spesso riportiamo articoli apparsi sul Giornale, di proprietà del fratello di Berlusconi, o su Libero (quotidiano che oltre ad essere una cooperativa e prendere i soldi dallo Stato riceve "forse"  anche qualche compenso dalla CIA) oggi riproduciamo un articolo che non è mai apparso su Liberazione, quotidiano dei "comunistardi" di Rifondazione Comunista. Vedete, questi signori preferiscono la censura preventiva, pubblicano solo ciò che non offende la casta mandarina bertinottiana (quella dei Migliore-fratelloscemodicapezzone e dei Giordano, l’uomo che nella testa ha una centrifiga che gli spiaccica i concetti  sulla parete del cervello). E non è la prima volta che accade una cosa del genere, chiedetelo a Roberto Massari della Erremme che si è visto bloccare un libro da Liberazione perchè raccontava alcune verità scomode sul Bertinotti sindacalista. Liberazione e Manifesto stanno dando prova del loro atavico servilismo, ieri come oggi, senza un minimo di pudore. Di rospi ne abbiamo baciati troppi, negli ultimi anni, per poter dare ancora credito a queste testate giornalistiche che dopo ogni sacrificio annunciano le magnifiche sorti e progressive del "regno sinistroide" a venire. Dobbiamo davvero credere di essere al sicuro perchè i guardiani della Rivoluzione, asserragliati intorno a Rifondazione, sorvegliano sulla purezza dell’ideologia? Del resto, anche il linguaggio, o meglio, la neolingua di questo socing da strapazzo ci rende davvero difficile continuare a tollerarli: sinistra di lotta e di governo, equivicinanza, socialismo del XXI secolo, nonviolenza (armata a sostegno di sionisti e USA) ecc. ecc. Per non parlare delle frequentazioni finanziarie di questa sinistra. Si spennella di ideologia statalizzatrice qualsiasi provvedimento a sostegno dei gruppi finanziari-industriali (GF-ID) che appoggiano Prodi, per celare a migliaia di militanti idioti-identitari la natura pienamente capitalistica di certe operazioni (vedi il ruolo svolto dal fondo per le infrastrutture F21 o dalla CdP). Una volta si credeva che lo Stato fosse il Comitato d’affari della Borghesia, quest’idea, per quanto errata, rendeva almeno vana qualsiasi illusione sul ruolo dello stesso Stato così com’era strutturato nell’ambito della società divisa in classi, difatti, era solo con la fase transeunte della dittatura del proletariato che questo diveniva proletario, in quanto completamente sovvertito nella sua natura capitalistica. Oggi questi lassalliani rifondaroli sono giunti alla conclusione che lo Stato sia davvero un organo super partes contemperante gli interessi di tutta la società. Hanno ucciso Marx e Lenin per resuscitare Ferdinand Lassalle. E come quest’ultimo perorava agli operai di prendere le parti della monarchia contro la borghesia, insieme con Bismarck, così questi infami eredi piccìisti spingono al sostegno di Prodi (appoggiato dai poteri forti) per dividere il "ceto medio" dai lavoratori salariati, a tutto vantaggio della Grande Finanza e dell’Industria Decotta. Credo che sia proprio ora di finirla, Tafazi deve smetterla di fustigarsi sui coglioni…

 

Può il gramsciano censurare (e accettare la censura)?

L’articolo che segue era stato commissionato all’Autore per il Supplemento di “Liberazione”/”Quer” dedicato a Gramsci e intitolato “Può il subalterno parlare?”, a cura di Giorgio Baratta (29/04/07).  Essendosi l’Autore rifiutato di tagliare, cioè autocensurare, una frase di critica a Bertinotti (come gli era stato chiesto) il curatore Giorgio Baratta e “Liberazione” hanno deciso di censurare l’intero articolo, che infatti non è stato pubblicato. Facciamo pervenire il testo ai compagni e alle compagne (con la frase proibita in carattere grassetto). Invitiamo a diffonderlo e, soprattutto, a meditare insieme su come è ridotta la sinistra (che pure si dice comunista, libertaria, antiautoritaria e quant’altro).

 

 

 

Raul Mordenti

 

Per una dialettica gramsciana del subalterno

 

1. La domanda se il subalterno possa parlare costituisce (a rigori) una tautologia, che nasconde però un problema (e forse il problema). Il subalterno, finché rimane subalterno e in quanto subalterno, non può evidentemente parlare, perché l’essere subalterno si definisce appunto come una radicale mancanza di autonomia, che significa mancanza di un proprio punto di vista, mancanza di un discorso auto-centrato e posizionato a partire da sé, dunque mancanza anzitutto di parola. Dove “parola” significa evidentemente sia lessico che linguaggio i quali (il pensiero femminista ce l’ha insegnato) sono intrisi di dominio: usare la parola di chi ci usa non è parlare. Credo anzi che potrebbe essere questa la vera definizione di “subalterno”: è subalterno chi non possiede una propria capacità di parola (qui Spivak è ìmpari a se stessa, quando definisce “subalterno” come “essere rimosso/a/i da ogni linea di mobilità sociale”: il contrario è vero, anche la “mobilità sociale”, perseguìta individualmente o corporativamente dentro la gerarchia delle classi assunta come immodificabile, è fattore e segno di subalternità).

2. Se “subalterno” è mancanza di parola, allora “potere” è anche potere di parola, il potere egemonico di articolare un discorso auto-legittimante, di istituire un senso, di dare senso alle cose (o meglio: di imporglielo), rendendo il proprio punto di vista “senso comune”. E Gramsci ci insegna che appunto attorno al “senso comune” si svolge la lotta egemonica fra le classi: è egemone chi incontra, controlla, gestisce il senso comune.

Da questo punto di vista non solo le nazioni ma anche i poteri sono racconto o, per meglio dire, le “grandi narrazioni” condivise dai subalterni sono necessarie ai poteri non meno di quanto gli siano le polizie e gli eserciti (non foss’altro perché – come già Gramsci vide lucidamente – anche nella più esclusiva, costrittiva e “dominante” delle dittature almeno le polizie, gli eserciti e i membri degli apparati repressivi debbono, in qualche modo, essere “egemonicamente” persuasi dal potere che servono, cioè debbono condividere il racconto del mondo proposto/imposto da quel potere). Per questo le dittature hanno bisogno di eroi.

3. È giunto il momento che i rivoluzionari assumano il problema della costruzione del senso come il più decisivo dei problemi. Se non nei termini della produzione di un racconto opposto e speculare rispetto a quello del potere almeno nei termini della capacità di criticare il racconto del potere al fine di sottrarvisi. Questo gesto è la condizione necessaria della lotta per l’autonomia, cioè per la fuoruscita dalla subalternità. È il gesto (se ci riflettiamo: meraviglioso) da cui origina ogni liberazione collettiva: è il movimento operaio che nasce nel momento stesso in cui rifiuta di credere al racconto del capitale (cioè che la liberazione passi per lo sfruttamento); è il gesto dei popoli colonizzati che comprendono come il “fardello dell’uomo bianco” sia solo un racconto che serve per caricare ogni fardello sulle spalle dell’uomo nero e della donna nera; è il gesto di Lenin e di Malcom X, del femminismo e dei movimenti di rivolta giovanili, etc.

Quando i rapporti di forza sono particolarmente sfavorevoli o addirittura disperati (come nei tempi nostri) forse potrebbe bastare il gesto degli ebrei costretti ad assistere alle prediche della Controriforma: turarsi le orecchie con invisibili tappi di cera. Forse è proprio questo che fanno i ventenni di oggi, forse è una forma di primitivo, ma sensato e radicale, rifiuto il loro malinconico e anoressico silenzio, forse è l’unica forma di opposizione che sia oggi loro possibile.

4. Chi rifiutasse ancora l’urgenza del problema che qui poniamo (magari perché lo ritiene, con formuletta lorianesca, “sovrastrutturale”) dovrebbe riflettere sull’accanimento e la cura che il potere capitalistico impiega nella distruzione sistematica dei racconti di liberazione che minacciano di mettere in questione la passività dei subalterni. Cos’altro sono la campagna sistematica della pagina culturale del “Corriere della sera” contro la Resistenza o di “Repubblica” contro Cuba se non lo sforzo di persuadere che nulla di diverso dal potere dai suoi orrori è stato mai possibile (e, dunque, oggi neppure pensabile)? Anche molta parte della gestione neo-brescianesca di Gramsci (Gramsci liberale, Gramsci trotzkista, Gramsci socialdemocratico, Gramsci tradìto da Togliatti, etc.) ci parla di questa esigenza del potere di rendere impensabile ogni alternativa.

Questa è la secolare lotta culturale (e politica) fra le classi: da una parte i subalterni tentano sempre in ogni modo (compreso il sogno e la religione) di affermare che un altro mondo sarebbe nonostante tutto possibile; dall’altra parte il potere ribadisce invece che non c’è nulla da fare, che un altro mondo è assolutamente impossibile, che “tanto, signora mia, una volta al potere sono tutti uguali”. Da questo punto di vista l’esito dell’esperienza di Rifondazione (simboleggiato dalle reazioni di Bertinotti agli studenti che lo avevano contestato alla “Sapienza”) rappresenta una grande vittoria culturale, cioè politica, del potere capitalistico italiano, e costituisce un formidabile fattore di disillusione e rassegnazione dei subalterni (che si tramuta in passività politica).

5. Qui il pensiero di Gramsci ci aiuta. In Gramsci il soggetto (il soggetto della storia, e della rivoluzione) non è affatto dato, esso si deve continuamente costruire, dunque auto-costruire.

A ben vedere deriva proprio da qui una insopprimibile istanza democratica presente in Gramsci: la necessità di costruire il soggetto rivoluzionario (costruire, non solo dirigere) attraverso un processo reale storicamente determinato, cioè politico e conflittuale, che presenta contraddizioni anche al suo interno (fra dirigenti e masse, fra partito e movimento, fra “direzione consapevole” e “spontaneità” etc.). E il fondamento teorico della democrazia comunista è l’inaudita risposta che Gramsci fornisce alla più inaudita delle domande che un dirigente comunista si sia mai posto, una domanda ai limiti dell’assurdo nella concezione leninista del Partito e che Gramsci definisce invece “quistione teorica fondamentale”: “Si presenta una quistione teorica fondamentale (…): la teoria moderna [il marxismo, n.d.r.] può essere in opposizione con i movimenti ‘spontanei’ delle masse?” (Q 3, pp. 330-331). La risposta che Gramsci si dà (e nessun altro comunista dopo di lui si darà) è tanto risoluta quanto gravida di conseguenze fondamentali per la teoria del Partito e per la stessa idea di rivoluzione: “Non può essere in opposizione: tra di essi c’è una differenza ‘quantitativa’, di grado, non di qualità; deve essere sempre possibile una ‘riduzione’, per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni agli altri e viceversa”(Ibidem).

6. “Siamo indios, ma non solo…” dicono gli zapatisti. I subalterni gramsciani, gli operai che egli ha ascoltato negli anni dell’”Ordine Nuovo”, i quadri popolari con cui ha cercato di costruire il suo Partito, perfino i delinquenti meridionali che ha incontrato in carcere non sono mai tabula rasa, non sono mai mera passività e assenza di soggettività, non sono mai solo il “concio” della storia: sono sempre anche qualcos’altro. È questo il motivo per cui: “il punto di partenza deve sempre essere il senso comune, che spontaneamente è la filosofia delle moltitudini che si tratta di rendere omogenee filosoficamente.” (Q 11, pp. 1397-1398). Esiste infatti “lo spirito popolare creativo”, che Gramsci afferma essere la vera base della sua ricerca, la comune origine dei quattro strani temi che egli si assegna nella lettera a Tania del 19 marzo 1929 in cui annuncia per la prima volta il progetto dei Quaderni. Per questo: “Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe (…) essere di valore inestimabile per lo storico integrale” (Q 25, pp.2283-2284).

R.M.                                                                                                                                      19/4/2007