LA NEFASTA IDEOLOGIA STATALISTA DEL "NEOCATTOCOMUNISMO" di G. La Grassa

 

L’ineffabile governo che ci ritroviamo, dopo che da anni erano stati introdotti i cosiddetti “studi di settore” – il fatturato e il guadagno minimo stabilito dall’alto per ogni dimensione d’intrapresa – vorrebbe adesso per legge stabilire anche il numero minimo di dipendenti per ogni impresa in base sempre alle sue dimensioni, fatturato, ecc. I rappresentanti degli “artigiani” (piccoli imprenditori) hanno cominciato a mugugnare; quasi assente invece la Confindustria, in mano alle grandi imprese, alcune decine delle quali (al primo posto l’azienda del presidente) hanno avuto concessa dal governo la “mobilità lunga”, cioè il prepensionamento, e alcune, fra cui sempre la Fiat, anche la rottamazione per auto, frigoriferi, ecc.

Il presidente di Confartigianato, Guerrini, ha definito la misura – per adottare la quale premono quegli apparati burocratici di Stato che sono ormai i sindacati dei “lavoratori” (che votano in gran parte, al nord in massima parte, per la destra, come messo in luce da un recente studio dell’Ires-Cgil) – con il termine “sovietica”. Purtroppo, ormai è di “buon senso comune” che il soviettismo sia il portato del comunismo, che a sua volta è il portato del marxismo, ecc. ecc. Non pretendo qui, in due righe, di fare chiarezza in merito; sto lavorando in una direzione tesa a demistificare questo “buon senso comune”. Per il momento vorrei però ricordare “due cosette da niente”. Che i comunisti del ‘900, che le ultime propaggini attuali (disgustose caricature di qualcosa che ebbe una sua autentica grandezza, comunque), propagandino un comunismo fondato sul più assoluto statalismo, è senz’altro vero; così com’è vero che il povero marxismo, da decenni ormai trasformato in una ideologia statalista, è servito ad occultare l’autentico tradimento del pensiero di Marx. Questi non era per nulla statalista e non lo fu nemmeno Lenin (ma qualcuno ha letto ultimamente Stato e rivoluzione?). Lo stesso Stalin, per giustificare la degenerazione dello Stato in un Moloch autoritario e repressivo, formulò, onde adattare il marxismo alla bisogna, l’ipotesi ad hoc dell’accerchiamento capitalistico ai danni dell’unico paese in cui era iniziata la “costruzione del socialismo”.

L’alfiere del socialismo di Stato fu Lassalle, contro cui (non solo contro di lui, ma in gran parte si) Marx scrisse il pamphlet noto come Critica del programma di Gotha, in cui quello che dice di “socialisti” alla Lassalle fu dovuto nascondere (in specie per intercessione di Engels) per alcuni anni onde non nuocere, con le solite scissioni, all’ancora informe movimento operaio tedesco. Perché Lassalle, nel suo statalismo, si schierava di fatto (e successivamente lo fece anche apertamente) con la politica à la Bismarck; una politica assai favorevole alla nobiltà terriera e contraria alla nascente borghesia industriale tedesca. In definitiva, il “socialismo” lassalliano, che pretendeva di schierarsi con la, anch’essa nascente, classe operaia, poneva in realtà quest’ultima sotto l’egemonia delle classi più reazionarie che volevano servirsi dell’influenza ancora massiccia sullo Stato per reprimere la “rivoluzione capitalistica”. Lenin si sarebbe comportato come Lassalle se, nel 1917, avesse preteso di alleare la debole classe operaia di Pietroburgo e Mosca con il morente zarismo pur di battere la Duma borghese di Kerensky. Anche Lenin saltò il gradino della “rivoluzione capitalistica”, come propugnava perfino la minoranza bolscevica ancorata al marxismo con spirito dottrinario (come i nostri “rimasugli marxisti” odierni!); non lo fece però rivolgendosi alla “reazionaria” nobiltà, ma alleandosi con le masse contadine, ivi comprese quelle delle sterminate zone ampiamente “arretrate” (oggi diremmo del “terzo mondo” di quell’immenso paese).

Engels e Kautsky probabilmente sbagliarono a centrare tutta la lotta di classe in Germania sullo scontro capitale-lavoro (borghesia-classe operaia), ma su questo occorrerebbe compiere più accurate indagini storiche. In ogni caso, è sicuro che Lassalle rappresentava la conservazione, più ancora la reazione; e voleva appunto far egemonizzare la classe operaia dai ceti nobiliari reazionari. In mancanza di meglio, negli anni ’70 del ‘900, la scuola althusseriana (e anche il sottoscritto al seguito) interpretò la formazione capitalistica affermatasi in URSS come capitalismo di Stato, vera contraddizione in termini. D’altra parte, le spiegazioni alternative – ad es. quella di un modo di produzione asiatico o quella di Sweezy, che diceva solo ciò che l’Urss non era, rimanendo ancorato ad una concezione del capitalismo basata solo sul suo carattere mercantile e di proprietà privata, e “aggirando” la discussione, per lui ostica, intorno ai rapporti sociali di produzione – non erano per nulla soddisfacenti, anche se non posso qui dilungarmi in merito.

Una cosa appare chiara oggi: che l’Urss era, ma detto approssimativamente in attesa di studi assai più accurati, un “socialismo di Stato”; e che quindi Lassalle ebbe la sua implicita rivincita, addirittura per colpa di marxisti “degenerati” che, all’inizio, videro nello Stato l’innesco della transizione al socialismo; e poi identificarono – a partire da Krusciov con la sua “bestialità” (in termini marxisti) dello “Stato di tutto il popolo” (prima o poi bisognerà chiarire questa bestialità che è sempre nell’aria, talvolta anche in chi ha le “migliori intenzioni”) – statalismo e socialismo tout court. Ovviamente, poiché in Urss non esistevano più le classi nobiliari (gli juncker della Germania bismarckiana), il blocco sociale su cui si basava questo statalismo (e falso socialismo) era del tutto diverso, ma sempre con la “classe operaia” in funzione subordinata perché egemonizzata – tramite l’ideologia “pseudomarxista” appena considerata – dai “nuovi signori” al vertice dell’apparato partito-Stato. In questo senso dico che il “socialismo reale” è stato lassallismo; fatte però le opportune modifiche legate al trascorrere del “tempo storico” con i mutamenti sociali intervenuti nel corso del XX secolo.

Se vogliamo capire qualcosa del fallimento del “socialismo reale” e della scia nefasta che sta lasciando ancor oggi, dobbiamo ripartire dalla comprensione del problema qui appena, e a malapena, posto. Una cosa è però urgente: attaccare a fondo ogni ideologia statalista, ogni tentativo di far credere che lo Stato possa rappresentare gli interessi o generali o, come fanno gruppetti di finti comunisti e marxisti, delle classi lavoratrici. Lo statalismo è l’ideologia di legittimazione del potere di immonde “burocrazie” statalizzate, che si fanno appoggiare dai lavoratori per mettere “sotto sequestro” l’intera società. E dobbiamo anche capire come il blocco tra post e ancora-“comunisti” (falsi perché in realtà solo statalisti) e settori post-democristiani, anch’essi ancorati ad una ideologicamente falsa rappresentazione del solidarismo cattolico, sia un’alleanza forse eterogenea ma dotata di una sua coerenza nell’adesione ad una visione di padronanza totalitaria dell’intera società a partire da un organo centrale e oppressivo. Se poi questa padronanza, oltre che dello Stato, si può servire anche della grande finanza, con il supporto di alcune grandi imprese industriali “assistite”, “tutto fa brodo”. Ecco perché, oggi, il grande pericolo di involuzione autoritaria, di presa totale della società da parte di un gruppo di “nuovi signori” (i nuovi juncker, mutatis mutandis), proviene da sinistra, dal “neocattocomunismo”, che non è né cattolicesimo né comunismo, bensì un mostruoso impasto ideologico che fa da supporto a mostruosi poteri reali: quelli della GFeID (grande finanza e industria decotta). Stiamo in campana! Perché ci fottono, e per di più con l’appoggio di masse popolari (sempre meno popolari in verità) ormai sbandate da una ideologia supportata dal più verminoso ceto intellettuale, pagato per intorbidare le acque e far apparire bianco il nero e nero il bianco. Addosso a questi mascalzoni!

 

18 maggio