Le elezioni, il cosiddetto “pericolo autoritario”, la scomparsa della “sinistra radicale”, la Repubblica di Weimar e l’antirazionalismo (di P. Pagliani)

 

E così il rito elettorale è andato come si poteva prevedere. Non ho intenzione adesso di approfondire più di tanto ipotesi politologiche post-elettorali ma intendo invece sottolineare ancora una volta la pericolosa limitatezza di analisi di un certo elettorato di sinistra.

Anche questa volta gente stimabile e in buona fede ma con la testa irrimediabilmente martellata dai politologi e dagli opinionisti di uno schieramento che va dal Financial Times ai quotidiani storici dei salotti buoni e della sinistra italiana, hanno votato in funzione antiberlusconiana, al fine – di per sé nobile – di evitare una supposta inversione autoritaria o addirittura un “ritorno del fascismo” in forma moderna.

E’ un dato di fatto che la destra italiana non sia una destra gaullista e si gingilli di tanto in tanto anche con vecchi arnesi armati di labari e fasci littori. Ma è anche un dato di fatto che questi residuati coi loro simboli odiosi – e chi se li porta dietro come alleati o possibili alleati – non siano loro a costituire il “pericolo autoritario” prossimo venturo.

Su questo blog da tempo si sta invece cercando di far capire che se una svolta autoritaria non è da escludersi, ciò è dovuto alla politica di cui sono compartecipi a pieno titolo sia la destra sia la sinistra.

Diverse volte sono state sottolineate le analogie dell’Italia odierna con la Repubblica di Weimar (in estrema sintesi: infeudamento della politica all’economia e dell’economia ai gruppi di potere finanziari statunitensi), analogie che nel quadro dell’odierna crisi mondiale stanno diventando vieppiù preoccupanti.

Rimando i lettori agli interventi su questo tema reperibili sul blog. Con questo contributo intendo porre l’attenzione su come lo stato di degrado della Repubblica di Weimar abbia trovato un’interpretazione nel filone di pensiero antilluminista e antirazionalista, interpretazione che, al di là anche delle intenzioni soggettive dei suoi protagonisti, ha preparato il terreno al successo del nazismo. Nella conclusione sottolineerò alcune analogie con l’Italia che esce dalle elezioni, pur rimarcando la doverosa distanza tra la tragedia e la farsa.

Farò ciò basandomi su un vasto studio di Zeev Sternhell intitolato “Contro l’Illuminismo” (Feltrinelli, 2008), che segue la storia di questo “modernismo antirazionalista”, cioè non pura reazione e nostalgia premoderna, ma vera e propria rivoluzione in chiave antirazionalista, a partire da Herder fino ad arrivare ai neocons statunitensi.

Ecco come Sternhell compendia il pensiero di Oswald Spengler, il massimo teorico antirazionalista operante in Germania nei primi decenni del XX secolo[1]:

 

“[Per Spengler] il passaggio dalla cultura (Kultur) alla civilizzazione (Zivilisation) si è compiuto nell’antichità, nel IV secolo, e poi nel XIX secolo, sotto la spinta della grande città, “la metropoli” secondo il linguaggio di Spengler. La metropoli «significa il cosmopolitismo in luogo della "patria", il freddo senso pratico in luogo del rispetto per ciò che è tradizionale e innato, l’irreligiosità scientista che inaridisce come dissoluzione del precedente fervore religioso, la "società" in luogo dello Stato, i diritti naturali in luogo di quelli acquisit. Già i romani avevano sui greci il vantaggio del denaro e il denaro domina anche nel XX secolo. La metropoli non ha un popolo ma una massa, mostra incomprensione per ciò che è tradizionale e naturalismo in un senso del tutto nuovo, riappare in lei «il panem et circenses»: alla cultura appartengono la ginnastica e il torneo, alla civilizzazione lo sport. Nel mondo del XIX secolo l’economia prende il sopravvento, così come furono i romani che insegnarono al mondo il luccichio del denaro. L’immagine spengleriana della decadenza non differisce da quella di Herder. Anche per l’autore del Tramonto l’imperialismo è il «simbolo tipico di una fine. Ora, proprio tale forma è l’ineluttabile destino dell’Occidente».

 

Quando il Tramonto viene dato alle stampe è il 1918. Il mondo tedesco ha subito l’umiliazione della sconfitta e ora dovrà far fronte alle imposizioni del trattato di pace. Imposizioni tremende che portarono John Maynard Keynes a dare le dimissioni da rappresentante della Tesoreria britannica alla Conferenza di Pace di Versailles, poiché riteneva che le pesantissime riparazioni imposte alla Germania dai paesi vincitori avrebbero portato l’economia tedesca alla rovina e determinato inevitabilmente lo scoppio di un nuovo conflitto mondiale.

E così fu. Come più volte spiegato in diversi interventi di questo blog, l’economia tedesca fu quasi totalmente subordinata agli interessi finanziari statunitensi e britannici, subordinazione gestita dalle forze politiche liberali e socialdemocratiche che ressero la Repubblica di Weimar tra il 1919 e il 1933, ovvero fino a quando il nazismo decise di ribellarsi a questo vassallaggio (e iniziò così il progressivo avverarsi della fosca profezia di Keynes).

Nella sfera ideologica il nazismo trovò il terreno preparato da Spengler, dal suo antirazionalismo e dal suo socialismo nazionale basato sulle nozioni di “cultura”, “sangue”, “suolo”, “mito” e “tradizione”. Questo socialismo prussiano (o socialismo etico) dava quindi voce alla reazione antimarxista (o non-marxista) nei confronti dell’imperialismo anglo-americano in una nazione provatissima economicamente e che percepiva il rischio di una dissoluzione del tessuto sociale e culturale:

 

“[Secondo Splenger] la borghesia, per la via traversa della democrazia cerca di sottomettere il potere a norme giuridiche e morali: nulla è più in contrasto con la natura stessa del potere. Sotto l’influenza dei sistemi astratti che, dopo il trionfo del razionalismo, occupano il primo posto, la borghesia mette in pericolo la nazione […]. Ma non si tratta solo di idee o di spirito critico poiché, «a lato dei concetti astratti appare il danaro astratto, disgiunto dai valori originari della campagna; a lato dello studio del pensatore appare la banca come potenza politica. L’una e l’altra cosa sono intimamente apparentate e inseparabili». Per cui, «se per democrazia s’intende la forma che il Terzo Stato come tale vuol dare a tutta la vita pubblica, si deve dire che democrazia e plutocrazia sono sinonimi».”

 

E ancora:

 

“Come Maurras, come Barrès e come Sorel, Spengler associa liberalismo e socialismo marxista nella stessa rampogna. Al socialismo di origine marxiana, che ha imboccato la strada della democrazia, Spengler oppone nel periodo tra i due volumi del Tramonto il socialismo prussiano, nazionale, ciò che lui chiama anche socialismo etico. E’ quello stesso socialismo che Hendrick de Man stava innalzando a sistema in Au-delà du marxisme, ma è a Sorel che spetta la palma di pioniere della critica a un socialismo presentato come infeudato nella borghesia per via del denaro, del parlamentarismo e dei principi illuministi. In una nota a pie di pagina Spengler prende quasi parola per parola una classica idea di Sorel, senza che Sorel sia mai nominato in tutto il corso dell’opera: «Il grande movimento che si serve delle parole d’ordine di Marx ha provocato un dipendere non degli imprenditori dai lavoratori ma di essi e degli stessi lavoratori dalla Borsa».”

 

Credo che da queste poche note si possa già avere un quadro delle difficoltà materiali, delle contraddizioni e delle trasformazioni politiche – sia del liberalismo che della socialdemocrazia – e degli interessi che quelle forze politiche servivano nella sventurata Repubblica di Weimar, assieme ai leitmotiv delle critiche ideologiche e teoriche che spianarono la strada alla “rivoluzione” nazionalsocialista.  E credo che con un minimo sforzo di immaginazione e facendo i debiti cambiamenti, le debite traduzioni e le debite traslazioni, si possano intravedere anche le analogie con la situazione italiana odierna, tenendo anche conto, ad esempio, che in Spengler la critica al “regno del denaro” è preceduta da quella al potere politico:

 

“La democrazia – qui Spengler riproduce Michels senza ricordare l’esistenza dell’autore de La sociologia del partito politico – è in realtà una dittatura degli apparati di partito. «E’ così che ogni democrazia è fatalmente sospinta su di una via ove essa finisce per negarsi da se stessa». Spengler può quindi annunciare la morte imminente di un parlamentarismo «in piena decadenza» e il passaggio al cesarismo: la strada verso la fine della Repubblica di Weimar è ormai ampiamente aperta.”

 

Passiamo ora alla scomparsa della cosiddetta “sinistra radicale” dal Parlamento italiano. Di per sé la sparizione di questa sottocasta rossa, che predicava in modo demenzial-confusionario e razzolava in modo anche peggiore (rimando anch’io, come esempio, al recente contributo di Berlendis sulle guerre della sinistra), non è un male, perché era una degli ostacoli maggiori alla chiarezza.

E’ evidente che la "sinistra radicale" si è prosciugata in maggior misura a favore della Lega e in parte minore grazie all’astensione. E qui c’è da rilevare che è da un bel pezzo che la mitica classe operaia sta passando dalla sinistra ai padani. Se i governi liberali e socialdemocratici di Weimar sono stati spazzati via dal nazismo, anche qui assistiamo, nella solita versione italica e farsesca, ai salariati che votano i cultori della comunità, del suolo, del sangue e dei miti, cioè i classici ingredienti dei socialismi comunitaristici e nazionalistici.

Solo che essendo cambiati i tempi, oltre la farsa c’è anche la confusione, così che questi padani (e il loro più serio teorico, che è il forzista Tremonti, non certo il leghista Bossi) non si propongono di fare una "rivoluzione dentro il capitale," come i nazisti, ma si confondono con liberisti di vario grado, con filoatlantici e filoamericani e quindi, con la crisi economica che si dispiegherà, verosimilmente saranno prima o poi destinati a fare casino nel prossimo governo, e ad essere costretti a decidere se perdere consensi – come la "sinistra radicale" – oppure se rompere il fronte di centrodestra (come spera Veltroni).

Finché le cose arriveranno a un punto tale che si apriranno le porte a un vero cesarismo (altro che il trio lescano Fini-Berlusconi-Bossi).

 

Ovvio che le cose non sono destinate ad andare obbligatoriamente in questa direzione. 
Ad esempio l’attuale crisi potrebbe addirittura rilanciare la supremazia statunitense invece di deprimerla ancora di più, magari con una Cina che si associa a un rinnovato coordinamento statunitense dei processi di accumulazione mondiali e un’Italia irrimediabilmente al seguito, obbligandoci così a rivedere tutto il quadro delle nostre ipotesi. Non credo che questo sia lo scenario più probabile, ma non è nemmeno da escludere.

 

Concludo dicendo che quanto descritto sopra riguardo l’antirazionalismo è un discorso che merita di essere approfondito in futuro anche da un altro punto di vista. La critica-superamento del marxismo deve essere fatta seguendo il metodo di Marx. In altri termini deve essere una “critica marxista al marxismo”. E in questo metodo il midollo spinale è razionalista. Se non si riconosce ciò, molte insidie sono in agguato.

Mi sembra che chi contribuisce a questo blog lo sappia bene. Questo è il motivo per cui a volte il bastone viene torto in modo volutamente esagerato nel senso dell’analisi scientifica e del razionalismo. Il pericolo opposto è molto più grave.

 

Piero Pagliani

 

 





[1] Le citazioni sono tratte da Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale”, traduzione di Julius Evola, Longanesi, 1957. Per Spengler col termine “civilizzazione” si intende l’apice di una “civiltà” o “cultura”, quindi l’inizio della fase di decadenza in una visione biologico-organicista dei cicli delle civiltà (per altro incomunicanti e incomunicabili l’una con l’altra). Ad ogni modo Spengler rifiutò il nazismo, per via della sua “volgarità” (il razzismo e l’antisemitismo di Spengler erano intellettuali e non biologici) e a sua volta fu rifiutato dal nazismo per via del suo pessimismo.