MANIFESTO SULLA TERZA FORZA

(interventi di Franco D’Attanasio e Gianfranco La Grassa)

 

FRANCO: E’ necessario tentare di uscire da questa situazione politicamente bloccata, che vede l’Italia essere il vero cavallo di troia “piazzato” dagli USA in seno all’Europa, in funzione delle strategie di dominio della stessa potenza nordamericana. Concordo perfettamente con il fatto che bisogna sempre e comunque tendere al massimo sviluppo, che il problema, in tal senso, non sono le macchine ma il sistema delle relazioni sociali che ne ingabbiano l’uso e che finalizza la produzione al reperimento dei mezzi per le strategie di dominio. Bisogna, detto in altri termini, essere materialisti fino in fondo; non a caso quel che si proponeva il comunismo era di superare l’organizzazione sociale capitalista al fine di dispiegare lo sviluppo delle forze produttive al massimo grado, per liberare l’uomo dai bisogni materiali. Ora per Marx tutto sarebbe avvenuto grazie al fatto che il modo di produzione capitalistico avrebbe indotto una crescente proletarizzazione della popolazione e quindi una configurazione sociale fondamentalmente dicotomica (in questi aspetti La Grassa ci ha illuminato parecchie volte e quindi inutile aggiungere altro). Dato che queste condizioni di possibilità del rivoluzionamento del capitalismo (il che indusse Marx a dire che la rivoluzione è la levatrice di un parto già maturo in seno al modo di produzione capitalistico) non si sono verificate e non c’è nessun “indizio” che si possano verificare in un futuro non troppo lontano, allora chiaramente c’è necessita di arretrare (nel senso della pratica teorica ma anche politica) rispetto alle conclusioni di Marx e concentrarsi fondamentalmente sull’antiegemonismo. Ma gli strumenti che attualmente abbiamo per espletare, diciamo, questa funzione economica ma anche socio-politica sono di natura capitalistica con tutte le problematiche e le contraddizioni del caso. Ma come si suol dire “la lingua batte dove il dente duole”, e quindi, da anticapitalisti non possiamo non tornare sulla solita questione, vale a dire quella della trasformazione sociale nella direzione della piena cooperazione tramite la libera associazione di tutti i produttori, finalizzata al controllo pienamente cosciente, da parte degli stessi, delle proprie condizioni di esistenza, oltre che alla liberazione dalla schiavitù dei bisogni. Per La Grassa questa contraddizione è tutta insita nello sviluppo ineguale dei vari capitalismi a livello mondiale,  da ciò quindi discende la necessità di sviluppare una teoria adeguata a tal proposito. Concordo con questa posizione però io aggiungerei un altro aspetto (di cui mi sembra  avesse parlato Althusser) che forse potrebbe essere considerato alla base di questa contraddizione, vale a dire la mancanza di una teoria generale della transizione. Non a caso in Marx esistono due concezioni del modo di produzione capitalistico: una storico-aleatorio, l’altra essenzialista e filosofica (“Materialismo aleatorio” di  Dinucci). La prima “è presente in tutti quei passi del Capitale nei quali la nascita del modo di produzione capitalistico non è presentata come lo sviluppo necessario del modo di produzione feudale, ma come l’effetto di un incontro casuale tra il possessore di danaro e il proletariato spogliato di tutto, salvo che della propria forza lavoro.” Quindi “secondo questa prima concezione, un modo di produzione è un collegamento specifico che si istituisce tra elementi differenti, in seguito ad una serie di eventi aleatori”. La seconda concezione invece pone l’accento sulle dinamiche sociali (impersonali, oggettive) di continua riproduzione di quel rapporto originario, venutosi a stabilizzare ad un certo punto dello sviluppo storico. Il fatto è che Marx ha fondato la maggior parte delle sue analisi su quest’ultima concezione, il proletariato è rivoluzionario in base a delle leggi storiche oggettive (individuate dallo stesso pensatore), le contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico sono tali da produrre esse stesse le condizioni del suo superamento, in particolare il soggetto rivoluzionario; in definitiva si può dire che in Marx non c’è una teoria soddisfacente della classe e del suo ruolo nella transizione tra due modi di produzione. Questa debolezza perdura ancora oggi, non a caso per La Grassa la transizione verso un nuovo modo di produzione può prendere l’avvio solo quando lo scontro tra le varie frazioni della classe dominante raggiunge l’apice e si arriva alla resa dei conti finale per la vittoria definitiva di una di esse: una concezione che ha molti punti in comune con quella di Lenin. Ora ciò, sinceramente, non so se rappresenti più un bene o piuttosto un male, voglio dire, se forse non sia il caso di lavorare anche per il superamento di questa concezione, anche perché la storia ci ha insegnato (penso in particolare alle due guerre mondiali) che non è affatto sufficiente che i dominanti arrivino alla resa dei conti per dare la spallata definitiva al capitalismo, ma c’è necessità di un substrato socio-politico di una certo spessore su cui possa attecchire una nuova forma di società caratterizzata da rapporti di piena cooperazione a tutti i livelli. In questa ottica quindi, forse si potrebbe definire meglio l’antiegemonismo (con tutte le sue implicazioni teoriche e politiche) come una sorta di transizione alla transizione al comunismo. Questo anche per una maggiore chiarezza in merito a quelli che sono i nostri fini ultimi, che non sono appunto quelli di favorire lo sviluppo di una potenza imperialista in grado di efficacemente fronteggiare gli USA, ed eventualmente sostituirsi ad essi, ma appunto quelli della trasformazione dei rapporti sociali capitalistici.

 

RISPOSTA DI G. LA GRASSA

 

Caro Franco,

rispondo non al tuo pezzo sui “tartassati”, ma alle tue osservazioni sulla TF (terza forza). Prima però lasciami dire qualcosa sulla lamentevole situazione in cui ci troviamo. Ho ricevuto un certo numero di telefonate che mi hanno dato atto di aver previsto cosa sarebbe diventato questo centrosinistra, così come altre volte (almeno 3-4), nella mia ormai lunga “carriera”, ho previsto alcuni eventi non marginali in sede internazionale e nazionale. Tuttavia, tutti mi hanno “rimproverato” per essere stato preveggente, si, ma “per difetto”. E’ quello che mi è successo anche le altre volte in cui ho anticipato alcuni andamenti generali. Non ho una mentalità mostruosa e non posso arrivare a capire l’intero arco delle degenerazioni che si producono. In questo particolare caso, ho tenuto conto di avere a che fare con forze di sinistra (ivi comprese le più “estreme”) corrotte, vendute, rinnegate, serve dei vari centri economici e finanziari (anche stranieri). Che però si trattasse di una banda di criminali, non arrivavo a pensarlo. Ho usato spesso gli esempi della banda Al Capone o Frank Costello, ma in senso metaforico. Invece, in senso letterale, perfino Totò Riina o Provenzano non sono tanto peggiori di tutti questi bestioni di sinistra; non li nomino uno per uno per non incorrere in motivi di querela. Del resto se dico tutti, significa tutti (magari qualche eccezione ci sarà; ma attendo però che si renda manifesta). E sia chiaro che, in termini di degrado morale e intellettuale, i bestioni di cui sopra sono più pericolosi di qualsiasi delinquente comune.  

Quindi mi rassegno e passo volentieri alla parte teorica dove mi sento nettamente più a mio agio, e dove generalmente do il meglio di me, perché mettere le mani nella merda, e rimestarla, non è il mio forte. Tuttavia, confesso che non avrò oggi la stessa tensione teorica di altre volte, pensando in quale pozzo di liquame siamo caduti con questa sinistra. Come è solitamente mia abitudine, parto da una tua sola considerazione contenuta alla fine del testo; tu scrivi che l’antiegemonismo può essere considerato una sorta di “transizione alla transizione” (al comunismo). E’ bene essere precisi sul punto che ne coinvolge molti altri (da te toccati in parte nel tuo commento).

Antiegemonismo è espressione generale, che indica un certo atteggiamento di opposizione a chi è in quel momento al centro del dominio mondiale. In quest’epoca, tale posizione centrale è occupata dagli USA, e quindi l’antiegemonismo si identifica (ma rischia anche di confondersi) con l’antiamericanismo. E’ del tutto probabile che la preminenza del paese in questione duri a lungo, per cui potrebbe sembrare superfluo fare tanti discorsi in merito a simile problema; per molti decenni, con alta probabilità, dovremo essere antiamericani. Tuttavia, non è “innocente” dimenticare che, per quanto lunga sarà la congiuntura (un’intera epoca) di predominio statunitense, l’antiegemonismo non va identificato con l’antiamericanismo. Dobbiamo consegnare a generazioni anche decisamente future una teoria che consenta, quando sarà necessario, di passare ad un atteggiamento, che so, anticinese o antirusso o altro, a seconda di chi eventualmente assumesse il predominio dopo il possibile, e credo probabile, declino degli USA. Per di più, non si passa in genere da una centralità ad un’altra senza una intera epoca di contrasti tra la potenza già predominante, ormai declassata e contestata, e altre emergenti, tutte più o meno di pari forza. E’ quello che accadde per una settantina (all’ingrosso) d’anni, tra la fine ottocento e la seconda guerra mondiale, con declino dell’Inghilterra e passaggio della supremazia agli Stati Uniti. Anzi, nemmeno questo è esatto, poiché dopo il 1945 il mondo fu diviso in due (“imperialismo” e “socialimperialismo”, come si diceva allora con linguaggio assai impreciso); dunque, in realtà, la transizione dal policentrismo (imperialistico) al (sostanziale) monocentrismo statunitense si è prodotta in un buon secolo e più.

Oggi è difficile non notare che ci stiamo inoltrando verso un nuovo policentrismo, anche se questo passaggio è incerto, confuso, instabile, ecc. In ogni caso, quanto più ci avvieremo ad esso, e in modo probabilmente irreversibile (oggi non siamo a questo punto), una eventuale TF (come quella di cui parlo) non potrà essere così compattamente e in modo monocorde antiamericana; dovrà invece giostrare di nuovo – come fece il leninismo – all’interno delle diverse contraddizioni intercapitalistiche, divenute interimperialistiche. E’ necessario capire questo punto, altrimenti si abituano gli anticapitalisti a restare fermamente anti-USA in linea di principio, diventando poi degli ottusi servitori di altri “padroni” così come le destre-sinistre odierne lo sono del paese attualmente centrale. Poiché secondo quanto la storia ci ha insegnato – e anche la teoria – una possibile nuova “rottura” radicalmente rivoluzionaria avverrà in una fase policentrica (o almeno più vicina a questa configurazione geopolitica), nei famosi “anelli deboli” (nei punti di “catastrofe”, nel senso di Thom), quella che tu chiami “transizione alla transizione” (e che è, in ultima analisi, la rottura in oggetto) si verificherà più probabilmente in una fase storica in cui non ci sarà un preciso e univoco atteggiamento antiegemonico, poiché sarà invece necessario “navigare” entro le sempre più articolate contraddizioni (chiamiamole ancora interimperialistiche, cioè policentriche), approfittando delle situazioni in cui sono più favorevoli le condizioni della “catastrofe”. Un bel guaio se, in una contingenza simile, la cosiddetta TF si incaponisse contro gli USA, magari appoggiando la potenza più debole, in piena crisi e disfacimento (tipo Russia del 1917), “perdendo così l’autobus”.

A me fa specie che certuni parlino dell’Uomo, del Genere Umano, con discorsi lanciati in quell’Universale che riguarda i “secoli dei secoli”, e poi si limitino a predicare l’antiamericanismo in nome del fatto che almeno per alcuni decenni è probabile il predominio statunitense. Fra l’altro dimenticando che tale politica “anti” dovrà essere molto più polivalente e “ambigua” ben prima della fine del predominio in questione, quando già diventasse evidente l’inizio della fase policentrica. Non parlerei quindi, in senso stretto, dell’antiegemonismo come “transizione”; ne tratterei come di una politica (transitoria, dell’epoca monocentrica), che mira ad indebolire il centro dominante per accelerare l’affermarsi della diversa fase di scontro multilaterale, da cui possono (teniamoci sull’aleatorio, non sul deterministico) generarsi fenomeni di rottura. E anche dopo quest’ultima, dopo l’affermarsi provvisorio di una forza anticapitalistica, è solo possibile (non necessitato) l’inizio della transizione ad altra formazione sociale. Solo con tutte queste precisazioni, diventa accettabile la formula secondo cui l’antiegemonismo indicherebbe una “transizione alla transizione” ad un possibile “comunismo”; quest’ultimo essendo ancora tutto da definire e immaginare nei suoi tratti non più derivati, deterministicamente, dalla tradizionale analisi marxiana della dinamica del modo di produzione capitalistico; con il suo preciso “soggetto rivoluzionario” e le altre varie “cosette” che tu, e spero altri, conoscerete già in base alle mie critiche della suddetta analisi.

Quanto detto fin qui coinvolge però questioni più ampie e che non tratterò in questa sede: prima fra tutte quella teoria sociale dello sviluppo ineguale dei capitalismi, che dovrà sostituire, spiegando anche teoricamente, quella “legge” marxiana dello sviluppo del modo di produzione capitalistico –  che malgrado tutto è ancora nella testa di tanti anticapitalisti, magari già in fase di netta evoluzione – secondo la quale il capitalismo tende all’omogeneizzazione progressiva del mondo e il capitale forma oggettivamente, contro di sé, le masse preparate al suo affossamento. C’è un punto cruciale su cui sono stato pesantemente frainteso; non da te ma sicuramente da altri (sentiti generalmente a voce). Sembra quasi che io abbia soltanto voluto indicare, come obiettivo di una TF, la creazione di un nuovo polo imperialistico (cioè, in primo luogo, capitalistico). A me sembra di essere stato chiaro, soprattutto nella parte finale del testo, ma voglio dare per scontato di non essermi spiegato bene. Lo farò con calma, e continuando a tornarci sopra, in futuro; qui pochi cenni.

Se qualcuno crede ancora alle masse con “naturali” sentimenti di rivolta – non generica e di insofferenza, bensì indirizzata in senso anticapitalistico – è ovvio che non posso discutere con costui; sarebbe il solito dialogo tra sordi, del tutto sterile perché, a mio avviso, ancorato ad una visione populistica della “rivoluzione sociale”. Se qualcuno crede che Chavez sia il modello del nuovo dirigente che affosserà il capitalismo, è inutile che ci confrontiamo; si tenga la sua credenza e vada al macello come sono sempre andati tutti gli “amanti del popolo”, ivi compreso quella degnissima persona che fu il Che; senza dubbio di grandissima statura morale, ma non “rivoluzionariamente efficiente” come Lenin e Mao, assai poco “eroi” ma molto “tosti”. Ricordiamoci il grande Brecht: “sfortunati quei popoli che hanno bisogno di eroi”; ecco uno che capiva le cose. Oppure, scendendo un po’ di livello, ricordo anche quel film (da cui ho tratto il “Popolo, buona notte” con cui termino il mio ultimo libretto), in cui Manfredi-Pasquino ha, ad un certo punto, la folgorazione: “ecco perché il popolo le abbusca sempre, perché c’ha er core”. Sarà bene mettere in moto qualche volta il cervello; con Woody Allen ripeterò che è “il nostro secondo organo preferito”, ma sta comunque un posto avanti “ar core”.

Parto dal principio, dal quale non credo recederò mai più, che la dinamica del modo di produzione capitalistico, lasciata alla sua spontaneità, crea oggettivamente la frantumazione della società in tante parti, in interazione conflittuale, a volte poco marcata e sorda, altre volte più acuta anche se, per certi periodi (storici, quindi non brevi), soffocata e “repressa” da determinate configurazioni ideologico-culturali che favoriscono l’egemonia di dati gruppi dominanti. Tale frantumazione si verifica sia in orizzontale (con creazione di tanti “separatismi corporatistici” anche negli strati della popolazione allo stesso livello nella “piramide sociale”) sia in verticale, dove non è netta la separazione tra dominanti e dominati, così come avveniva nel modello marxiano della tendenza ad un “punto finale” costituito dalla netta divisione tra “corpo lavorativo collettivo” (la stragrande maggioranza) e ristretto gruppo di rentier, di tagliatori di cedole, nuova classe signorile avulsa dalla produzione e puramente parassitaria come le vecchie classi feudali (proprietà di azioni al posto di quella della terra).

Esistono, con lo sviluppo del capitalismo, masse crescenti di quello che viene definito “ceto medio”, concetto-ripostiglio che tutto nasconde. E’ molto imperfetta anche la definizione di “lavoratori autonomi” (poiché obnubila un intero mondo di stratificazioni); eppure è migliore (o meno peggiore) di quella di ceto medio, che fa pensare, anche al suo più basso livello, a gente comunque benestante (magari modestamente), mentre invece intere fasce del lavoro autonomo stanno sotto alcuni livelli (tecnici, certe specializzazioni operaie, ecc.) del lavoro dipendente, salariato. La dinamica del modo di produzione capitalistico fa però di più; malgrado le onde cicliche, essa ha sempre condotto, secolarmente, ad un trend di accrescimento della ricchezza tale da consentire – pur nella divaricazione dei vari livelli di reddito – un miglioramento del tenore di vita anche per i più “diseredati”. Chi parlasse ancora di miseria crescente ad un polo (sempre più vasto) della società, è un perfetto imbecille. Anche in Cina e India, paesi in impetuoso sviluppo per nulla affatto “socialistico”, le tensioni nascono per il troppo diverso ritmo con cui cresce il tenore di vita nelle città (o in certe regioni) rispetto alle campagne (o altre regioni); ma tale tenore, con ritmi del tutto diversificati, è comunque in mutamento quasi ovunque. E’ in atto una autentica trasformazione sociale in quei paesi; e non saprei cosa pensare di chi mi venisse a raccontare che si tratta di una transizione al socialismo o comunismo.

Una TF che voglia porsi entro le varie contraddizioni interdominanti (intercapitalistiche) non può porsi il compito della “rivoluzione sociale” senza pensare alla dinamica capitalistica, così diversa da quella pensata dal vecchio marxismo, ancora contrabbandata da ristrettissimi gruppi di intellettuali (dalla bella vita, piena delle comodità capitalistiche) in combutta con piccole schiere di “schiuma” sociale, di disadattati, sempre presenti in ogni processo di sviluppo (soprattutto se veloce e in accelerazione com’è nel mondo attuale). La TF deve dunque porsi il problema della potenza con cui affrontare le contraddizioni, e il rischio di fare la fine del “vaso di coccio”, nel mondo tumultuoso dello sviluppo ineguale dei capitalismi; e tanto più quanto più ci avvieremo all’entrata nella fase di policentrismo. Si acuirà quindi quel contrasto, che pensavo di aver posto in perfetta evidenza, tra questa esigenza di potenza e quella della trasformazione sociale, per la quale, certamente, bisognerà fare appello alle “masse” (dei dominati), ma frammentate sia in orizzontale (corporatismi, autonomi e dipendenti, ecc.) che in verticale.

Per fare un esempio per cenni, l’URSS di Stalin adempì brillantemente ai compiti di potenza, ma credette (non in “mala fede”, solo per le fumisterie ideologiche incombenti sulla teoria marxista tradizionale) che questo fosse sufficiente a garantire anche la transizione (addirittura mondiale) al socialismo, partendo dalla sua “costruzione in un paese solo”. Non avesse però adempiuto ai compiti di potenza, sarebbe stata sfracellata. Tuttavia, bisogna ripensare tutto l’altro corno del dilemma, la trasformazione sociale; ma senza nasconderci – magari dietro la bella formuletta della “dialettica”  – che tra potenza e rivoluzione c’è netta e irriducibile contraddizione, da tenere sempre presente allo “spirito” nel mentre si opera per la “transizione” (quella vera). Per il momento qui mi fermerei, perché qui si apre la “questione vera”, quella che non risolveremo con intellettuali salmodianti e “masse” di spostati. Benissimo “er core”, ma orientato dal cervello.

Cari saluti e diamoci da fare

glg