Agamben all’aria

Karl-Marx

 

«Il capitalismo è una religione il cui Dio è il denaro». Così Giorgio Agamben nella sua ultima fatica (sprecata) filosofica. Avevamo qualche certezza sul capitalismo, targata Marx, forse datata ma non così campata metafisicamente in aria. Dopo Agamben non abbiamo più nulla, se non il nulla. Se il capitalismo è davvero religione lasciamo allora che se ne occupino i preti o i filosofi che si credono tali. Solo una teodicea ci potrà salvare? Con qualche millennio di pazienza si potrebbe sapere. Crepare per credere. Non per niente, anche per gli improvvisati profeti marxisti (ai quali Agamben non appartiene se non per una certa simpatia collaterale), il comunismo, da parto ormai maturo nelle viscere del Capitale, Marx dixit, è divenuto, esso stesso, un credo apostolico dell’avvenire. Resta però difficile stabilire quale idolatria preferire (volendo accettare l’infimo livello della discussione), se quella del Dio denaro, che millanta benessere e prosperità generalizzati, o quella del comunismo che verrà, il quale promette, invece, da un po’ di tempo a questa parte, scarso consumo e decrescita per tutti. Diciamo la verità, è persino meglio il paradiso di Allah, con i suoi ettolitri di vino e le sue tonnellate di vergini, di simile prospettiva pauperistica dell’aldiquà socialistico proiettatosi aldilà della Storia. Ecco perché, come si dice, chi vuol credere creda ma almeno si rivolga alle confessioni “vere” che consolano l’anima senza devastare il cervello. Ha ragione La Grassa quando afferma (la citazione è dal prossimo testo in pubblicazione): “Vi sono purtroppo, soprattutto di questi tempi, tanti pasticcioni che trasferiscono d’emblée i “grandi pensieri” nel campo della teoria, sostituendola con affabulazioni perniciose. Purtroppo influenzano ambiti intellettuali assai degradati soprattutto nei periodi di decadenza di una formazione sociale. Vengono così provocati danni incalcolabili, ritardando il superamento della crisi epocale di detta formazione. E’ indispensabile denunciare e criticare aspramente personaggi altamente deleteri, che pronunciano frasi insensate di possibile effetto su cervelli deboli e quasi inermi; essi annientano ogni rigore di vera ricerca di una via di uscita con discorsi evanescenti, di speranza in mondi di cui non sussiste il minimo accenno di avvento, ecc. Un conto è pensare all’“altro mondo” – un pensiero da definirsi inevitabile per l’essere umano, un pensiero che dipende proprio dall’inanità dello sforzo di conoscere progressivamente, per approssimazioni successive, la realtà per quello che essa è; e soprattutto inevitabile quando un essere pensante è in grado di riflettere sulla sua morte e sulla speranza di non finire nel nulla, ma di conoscere invece un’“altra vita”, ecc. – un altro produrre fantasie sul mondo in cui ci troviamo realmente e temporaneamente, arrabattandoci alla bell’e meglio per (soprav)vivere”. Il caso Agamben è emblematico della triste situazione di commistione di piani in cui ci troviamo.
Ma torniamo alle affermazioni di Agamben riportate su Il Giornale: “Il capitalismo «crede nel puro fatto di credere, nel puro credito, ossia nel denaro ». E le banche, dal momento che non sono altro che macchine «per fabbricare e gestire il credito», ne sono le chiese. Ecco perché, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro ha rappresentato un atto di «chiarificazione del proprio contenuto teologico » paragonabile «alla fissazione di un dogma conciliare». Il capitalismo, stando ad Agamben, non è rapporto sociale storicamente affermatosi, come sostiene Marx, ma cosa o meglio entità che “crede nel puro fatto di credere…nel denaro”.
Il filosofo sembra non aver ben compreso né il concetto di Capitale né quello di denaro. Dette categorie gli sono così oscure – come lo erano i fenomeni naturali agli uomini agli albori della vita – che per spiegarsele, al pari dei primitivi, deve ricorrere alla deificazione del misconosciuto. Ecco quel che accade quando si rinuncia alla scienza per “conoscere” affidandosi all’estemporaneità filosofica. Ma Marx, lo scienziato, qualcosa ci aveva insegnato sul capitalismo. Anziché far tesoro di quegli addestramenti, che in quanto scientifici dovrebbero valere per tutti, indipendentemente dall’approccio ideologico (infatti Marx e gli economisti classici, per esempio, avevano molte vedute in comune nonostante le distanze abissali sugli esiti sociali dei processi capitalistici) i sacerdoti dell’idiozia si lanciano in anatemi contro il mondo per qualche riga in più sui giornali. Il denaro è, nel mo(n)do capitalistico di produrre, mezzo di accumulazione di valore e misura del valore (delle merci), mezzo di pagamento, mezzo di circolazione e di scambio dei prodotti. La società capitalistica si presenta, infatti, come un grande aggregato di individui in cui ognuno, al contrario delle società precedenti basate sull’autoconsumo, produce beni per gli altri, e viceversa gli altri per lui. Ogni soggetto si specializza pertanto nella produzione di un dato bene, aumentando l’efficienza produttiva dello stesso. Essendo questo un habitus sociale generalizzato, imposto dal rapporto sociale dominante, si verifica un immane aumento della produzione, cioè della ricchezza in quanto somma di valori d’uso, dell’insieme societario. L’interscambio derivante dalla creazione di questo turbinio di prodotti richiede l’uso di un mezzo universale di scambio (che è in fondo la migliore tecnologia sociale a disposizione per favorirlo) che è il denaro, il quale si articola in varie figure monetarie. Dunque, è innanzitutto l’architettura di legami sociali, imposta dal capitalismo (che si manifesta, in primo luogo, con la forma dominante di merce dei prodotti e della stessa forza-lavoro), ad implicare l’uso generalizzato del denaro e la sua duplicazione (i suoi derivati immateriali). Questo aspetto sistemico (arcano per chi non vuol fare nessuno sforzo analitico) contribuisce a far emergere un settore specializzato, quello appunto finanziario, che tratta il denaro quasi “in purezza”, ossia considerandolo apparentemente slegato dalla “base produttiva” e fonte di auto-accrescimento. Agamben riesce a capovolgere persino la natura derivata del denaro, dai rapporti sociali capitalistici, trasformandolo nel Dio di una religione che gli preesiste. Un vero miracolo di sciocchezze. Questa inversione gli serve per suffragare la sua teoresi che ormai sia la finanza a dominare il tutto sociale. Il Dio denaro era in attesa del capitalismo per assumere definitivamente la sua veste onnipotente, mentre per secoli era rimasto un dio minore in aspettativa di miglior sorte. L’assunzione “in terra” di questa famigerata divinità coincide però con “l’inizio della fine” del capitalismo, sua religione anteriore. E qui ritorna l’eterno ritornello del finanziarismo quale stadio terminale del capitalismo, al quale Agamben non si sottrae perché nessuno evita le facili scorciatoie dopo aver imboccato ogni strada sbagliata. Idee passate e smentite dai fatti che diventano nuovi pregiudizi (acclamati, a caro prezzo) nell’epoca nostra.