ALCUNE OSSERVAZIONI SULLA SITUAZIONE DELLE NOSTRE UTILITY IN ITALIA E ALL’ESTERO

La situazione attuale, in Italia, delle liberalizzazioni e privatizzazioni dei mercati delle utility nei settori dell’energia, idrico e dei rifiuti dopo i picchi del 2004 e del 2006 vede un rallentamento delle operazioni di aggregazione e di M&A (1). Sul Sole 24 ore del 06.06.2011 il professor Gilardoni scrive che nell’ultimo decennio

<<si sono consolidati alcuni grandi poli tendenzialmente multi utility di dimensioni sovraregionali: A2A e LGH per la Lombardia; Iren per una vasta area che abbraccia Piemonte, Liguria e Emilia; Hera per la Romagna e alcuni territori limitrofi; Acea per il Lazio e la Toscana. L’area del Nord-Est vede la presenza di utility di medie dimensioni (Dolomiti Energia, Veritas, AGSM Verona, Acegas Aps e Ascopiave), ma nessuna ha una posizione veramente di leadership rispetto alle altre.>>

Alcune di queste utility che potremmo definire di “minore dimensione” hanno mostrato una certa spinta all’internazionalizzazione con relative acquisizioni; è il caso, ad esempio,  di A2A in Montenegro e in Francia (EPCG, Cofatech Coriance). Per quanto riguarda il Mezzogiorno, Gilardoni scrive che in queste regioni

<<il processo di aggregazione non è mai realmente iniziato limitandosi ad alcune sporadiche operazioni. I player meridionali del gas e dell’elettricità si contraddistinguono ancora per ridotte dimensioni, elevata posizione debitoria e scarsa efficienza>>.

In generale le mancate aggregazioni, i limiti nelle dimensione delle multiutility vengono viste come un elemento negativo soprattutto rispetto all’efficienza economica e alla redditività; ma queste operazioni di M&A soprattutto nel settore energetico potrebbero scontrarsi con gli interessi dei nostri maggiori player capaci di agire efficacemente in campo internazionale. Lo ammette anche Andrea Gilardoni quando scrive:

<<…il mercato europeo è passato da una struttura caratterizzata da monopoli nazionali a un oligopolio continentale ove sei aziende controllano larga parte dell’offerta anche indirettamente. Eni e Enel possono giocare un ruolo di rilievo. Se per il primo player la presenza internazionale è un asset strategico fin dalla sua fondazione, per Enel questo processo risale a soli pochi anni fa, ma i risultati sono stati ugualmente importanti. A seguito di una aggressiva politica di M&A, ora, Enel è presente in tutti i principali Paesi europei, in Russia e in Sud America. Per il futuro, visti gli esigui spazi di crescita in  Italia, il gruppo intende spingere ulteriormente la propria internazionalizzazione. Ne è conferma il recente piano di investimenti di Enel Green Power: 4 dei 6,4 miliardi di euro di capex (2) al 2015 su America Latina, Nord America ed Europa dell’Est.

Ma anche per l’Enel come a maggior ragione per l’Eni pesa l’incertezza politica internazionale, con la nuova situazione in Nord Africa e Medio Oriente, che vede la ripresa di iniziativa di alcuni paesi occidentali guidati dagli Usa nei confronti in particolare di una Russia e una Cina alle prese con problemi interni sia di leadership che di “crescita” (soprattutto la seconda riguardo il pericolo di inflazione e  di aumento del costo del lavoro). Il nostro governo ha ormai abdicato a quelle iniziative politiche indipendenti che per qualche anno avevano permesso di stabilire legami con paesi emergenti e comunque indipendenti (come la Libia) e le attività delle nostre maggiori aziende – con quota azionaria pubblica ma gestite efficacemente in maniera imprenditoriale – non potranno non risentirne.Per quanto riguarda Eni ricordiamo che lo scorso 25 maggio Alexey Miller, viceministro russo dell'energia e presidente del Cda di Gazprom, ha presentato il progetto South Stream a Bruxelles dove è intervenuto anche l’ad dell’Eni P. Scaroni che sino all’ultimo momento aveva pensato di non presentarsi. Entro il mese di giugno dovrebbe venire ufficializzata la cessione di quote Eni del gasdotto alla società tedescaWintershall, del gruppo Basf, alla quale andrà un 15%, la stessa quota sarà ceduta pure ai francesi di Edf, il cui ingresso nella struttura azionaria è stato discusso in questi giorni in un incontro tra Alexey Miller, presidente di Gazprom e Henri Proglio, presidente e ceo di Edf Group; a Eni rimarrà il 20% mentre a Gazprom il 50%. Nonostante i problemi posti anche dalla crisi libica il medesimo Scaroni, il 16 maggio,  ha dichiarato in un intervista al Financial Times:

<<Non sono preoccupato per il futuro ma per il presente. Personalmente non ho il minimo dubbio che ad un anno da oggi il problema della Libia sara' alle nostre spalle[…] Tuttavia, la situazione in Libia resta difficile: non c'e' alcuna posssibilita' di produrre e l'unica attivita' che portiamo avanti è quella di proteggere i nostri impianti. Una volta risolta la crisi, tuttavia, la posizione di Eni in Libia sara' forte come lo era prima dello scoppio della guerra. La nostra esperienza ci dice che chiunque salira' al potere avra' come primo obiettivo quello di riprendere a pompare petrolio il prima possibile. E perche' non farlo con le compagnie che conoscono il paese e i pozzi di petrolio ?

Siamo cresciuti nella produzione e nella presenza a livello mondiale piu' di chiunque altro e vogliamo continuare a farlo.>>

 Il discorso di Scaroni può avere un solo significato: d’ora in avanti, in questa fase, l’Eni e le altre industrie di punta italiane dovranno tener conto soprattutto della volontà politica degli Stati Uniti e delle potenze europee allineate con essi: Germania (nonostante qualche titubanza), Regno Unito e  Francia.   Il mutamento avvenuto nella politica estera di Berlusconi, sempre più prono ai voleri degli Usa, e questa nuova strategia dell’Eni sono ovviamente in perfetta sintonia; e d’altra parte in quale altra maniera potremo convincere i nostri “alleati” a permetterci di <<riprendere a pompare petrolio>> in Libia non risultando certo sufficiente essere accreditate come  << le compagnie che conoscono il paese e i pozzi di petrolio>>?

 

(1)   Mergers & Acquisitions: Fusioni ed acquisizioni.

(2)   Con Capex (da CAPital EXpenditure, ovvero spese per capitale), si intendono quei fondi che una impresa impiega per acquistare asset durevoli, ad esempio macchinari. Si tratta prevalentemente di investimenti in conto capitale che dovrebbero permettere all'azienda di espandere o migliorare la propria capacità produttiva. (da Wikipedia)

 

Mauro Tozzato                 06.06.2011