ALLA RISCOPERTA DELL'AMERICA di G.P.

L’analisi di La Grassa sul capitalismo antinazionale e sul connubio nefasto ID-GF (l’inversione degli acronimi, in questa particolare congiuntura politico-economica, è d’obbligo, soprattutto dopo che le banche si sono sputtanate alla grande e la Fiat si è dovuta fare avanti quale testa di ponte pro-Usa in Italia) ha messo sul piatto molti problemi che, nei prossimi mesi, potrebbero ingigantirsi dispiegando tutti i loro effetti deleteri.  

Particolarmente, risulta scandaloso l’unanime coro politico-giornalistico-mediatico che ha incoronato il management del Lingotto ad antidoto contro la crisi, capovolgendo ogni verità di fatto. Troppa smemoratezza sotto il cielo d’Italia e se solo fino qualche mese fa erano in molti a dare addosso all’azienda torinese per le sue assurde pretese di ulteriori aiuti pubblici, in una fase delicata per tutta l’economia nostrana (la crisi globale era ancora lontana), oggi le schiere timidamente critiche si sono rimesse in riga per fare la riverenza al duo Marchionne-Montezomolo, partito alla conquista dell’America e dei suoi giacimenti di latta.

Ciò che più infastidisce è la poca chiarezza con la quale i vertici Fiat hanno condotto l’operazione annunciando che non avrebbero sborsato un solo centesimo per scalare il gigante dell’auto di Detroit. Poi invece, gratta gratta, gli inghippi sono cominciati a venire a galla grazie alle mezze frasi di Obama e a quelle dei vertici di Chrysler. Delle buone domande sull’argomento sono state poste anche da un tipaccio filo-americano e filo-CIA come Giuliano Ferrara. Costui, al pari di tutti gli altri simulatori dell’italianità riscoperta, ha subito messo le mani avanti dichiarandosi sì felice per la traversata oceanica delle utilitarie torinesi ma, esprimendo, al contempo, non poche perplessità sulla consistenza dell’affare.

In primo luogo, dopo aver riconosciuto le grandi “qualità” di affabulazione di Obama e Marchionne – certamente utili in tempi bui come i nostri, se non altro per generare un po’ di speranza (e tanta illusione, aggiungo io) – Ferrara ricorda che tali proprietà personali non hanno nulla di manifatturiero (bel lisciamento che arriva sul viso alla stessa velocità di un cazzotto). In secondo luogo, il “Gargantua della Capitale” espone in sequenza tutto ciò che secondo lui è, per lo meno, avvolto da troppa incertezza e ambiguità:

“Vedo le banche americane che rinunciano a riscuotere i crediti, anche perché incassano i finanziamenti federali e la rinuncia gliela chiede la Casa Bianca con il Tesoro Usa (invece gli "speculatori" degli hedge fund non prendono soldi dai contribuenti, fanno quel che vogliono, e hanno portato Chrysler al fallimento in un batter d’occhio).

Vedo i sindacati che rinunciano a conquiste messe in discussione dal semplice fatto che hanno affondato sia la Chrysler sia la General Motors: nel sud degli Stati Uniti e nel resto del mondo il manufatto automobilistico si fa con costi che sono di almeno un terzo inferiori a quelli di Detroit, e se le Unions non cambiano linea negoziale la città dei macchinoni sul lago Michigan, che è già parecchio desertificata, diventerà spettrale, una ghost town.

Vedo l’eccellenza relativa di una Fiat che è riuscita a imporre una sua ripresina manifatturiera, nuovi modelli come la bambina magica, e soprattuto detiene l’imprinting di un’automobile meno kolossal e meno dispendiosa di quelle chrysleriane. Ma non vedo gli americani in 500, e se è per questo nemmeno in Alfa. Per una semplice ragione: se quelle erano le macchine adatte alle loro strade, ai loro bisogni, alle loro distanze, non potevano pensarci prima?

Mi riesce anche difficile immaginare, al di là della cortina di high talk che ci ammannisce soave il team Obama, capace di vedere "un futuro luminoso" anche quando manca la luce, a una grande operazione euro-americana, magari con estensioni asiatiche, che fa nascere senza una lira di Torino, e con 6-8 miliardi di dollari americani, un colosso da sei milioni di auto prodotte.

In realtà, io, nel mio piccolo, oltre a tutto ciò vi vedo una manovra ben più articolata che gli americani stanno orchestrando (e che non riguarderà soltanto il settore industriale qui tirato in ballo) per portare i peggiori servi europei alla guida dell’economia continentale. Tutto ciò servirà per influenzare, in maniera ancor più incipiente, il corso politico dell’Europa che dalla Germania alla Francia ha già deciso di piegare la schiena. Ci aspettano tempi davvero cupi.