ANNOTAZIONI GRAMSCIANE di M.Tozzato

 

Ci pare utile riportare il testo di due brevi frammenti gramsciani tratti entrambi da Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno – Editori Riuniti 1977:

<<Sul concetto di previsione o prospettiva. E’ certo che prevedere significa solo veder bene il presente e il passato in quanto movimento: veder bene, cioè identificare con esattezza gli elementi fondamentali e permanenti del processo. Ma è assurdo pensare a una previsione puramente “oggettiva”. Chi fa la previsione in realtà ha un “programma” da far trionfare e la previsione è appunto un elemento di tale trionfo. Ciò non significa che la previsione debba sempre essere arbitraria e gratuita o puramente tendenziosa. Si può anzi dire che solo nella misura in cui l’aspetto oggettivo della previsione è connesso con un programma esso aspetto acquista oggettività: 1) perché solo la passione aguzza l’intelletto e coopera a rendere più chiara l’intuizione; 2) perché essendo la realtà il risultato di una applicazione della volontà umana alla società delle cose (del macchinista alla macchina), prescindere da ogni elemento volontario o calcolare solo l’intervento delle altrui volontà come elemento oggettivo del gioco generale mutila la realtà stessa. Solo chi fortemente  vuole identifica gli elementi necessari alla realizzazione della sua volontà. Perciò ritenere che una determinata concezione del mondo e della vita abbia in se stessa una superiorità di  capacità di previsione è un errore di grossolana fatuità e superficialità. Certo una concezione del mondo è implicita in ogni previsione e pertanto che essa sia una sconnessione di atti arbitrari di pensiero o una rigorosa e coerente visione non è senza importanza, ma l’importanza appunto l’acquista nel cervello vivente di chi fa la previsione e la vivifica con la sua forte volontà. Ciò si vede dalle previsioni fatte dai così detti “spassionati”: esse abbondano di oziosità, di minuzie sottili, di eleganze congetturali. Solo l’esistenza nel “previsore” di un programma da realizzare fa sì che egli si attenga all’essenziale, a quegli elementi che essendo “organizzabili”, suscettibili di essere diretti o deviati, in realtà sono essi soli prevedibili. Ciò va contro il comune modo di considerare la quistione. Si pensa generalmente che ogni atto di previsione presuppone la determinazione di leggi di regolarità del tipo di quelle delle scienze naturali. Ma siccome queste leggi non esistono nel senso assoluto o meccanico che si suppone, non si tiene conto delle altrui volontà e non si “prevede” la loro applicazione. Pertanto si costruisce su una ipotesi arbitraria e non sulla realtà.>>

 

Il modo in cui La Grassa e Petrosillo, e comunque il nostro blog, guarda alla realtà sociale e sente il momento politico corrisponde, sostanzialmente, alla maniera in cui Gramsci imposta il problema.

Nella misura in cui la riflessione sulla storia e sulla società si pone, in La Grassa, come teoria (necessariamente) di fase essa sembrerebbe, però, non ricercare più “gli elementi fondamentali e permanenti del processo”. In realtà, comunque, anche Gramsci, nella misura in cui aderiva ad un integrale storicismo, non si riconosceva più in un pensiero che ricercasse le determinazioni universali e permanenti dell’ordine sociale né in un teleologismo che ponesse al termine del percorso storico la realizzazione del mito millenaristico. Quando egli si riferisce alla “applicazione della volontà umana alla società delle cose” viene qui rappresentato, nel suo pensiero, una idea generale tesa a denotare una struttura conflittuale di gruppi sociali che portano avanti progetti simili ma diversi anche se, seguendo la tradizione marxista, è sempre la contraddizione e contrapposizione tra dominanti e dominati (e governanti e governati) – posti secondo un asse verticale– a giocare il ruolo prevalente. E’ da rilevare, poi, che La Grassa si riconosce sicuramente in una teoria la quale, rifiutando l’astratto approccio della complessità, “si attenga all’essenziale” per mappare il terreno sociale attraverso una lettura tesa a cogliere i mutamenti possibili e le evoluzioni che, volta a volta, nella specifica fase, e magari all’interno di una puntuale congiuntura (della fase stessa), si possono ipotizzare. La ricerca positivistica di “leggi di regolarità” non tiene conto dello squilibrio permanente implicato nello sviluppo diseguale e nella distruzione creatrice prodotta da gruppi sociali, che portano avanti strategie diverse, anche se tutte finalizzate alla supremazia intesa come sintesi di dominio ed egemonia.

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Il secondo frammento gramsciano si presenta, nel testo, col titolo di Morale e politica:

<<Si verifica una lotta. Si giudica della “equità” e della “giustizia” delle pretese delle parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene colpita da biasimo. Eppure questa parte continua a sostenere di “aver ragione”, di essere nell’”equo” e ciò che più conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici, ciò che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e operose nelle coscienze. Significherà che la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di equità e giustizia sono puramente formali. Infatti può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione, “così stando le cose”, ma non abbia ragione “ se le cose dovessero mutare”. Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose così come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come realtà effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato ? E da chi potrà essere giudicato ? Il giudizio stesso non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o dell’altra parte ? In ogni caso si può dire: 1) che in un conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché esso può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il conflitto tende a modificare; 2) che l’unico giudizio possibile è quello “politico” cioè di conformità del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è “immorale” in quanto allontana dal fine o non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi più conformi al raggiungimento del fine) ma non è “immorale” da altri punti di vista “moralistici”. Così non si può giudicare l’uomo politico dal fatto che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso l’”essere onesto”, cioè l’essere onesto può essere un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il giudizio è politico e non morale), viene giudicato non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un male e in questo può essere necessario l’”operare equamente”, ma come mezzo politico e non come giudizio morale.>>

Nella misura in cui, un uomo politico, da una parte alimenta il suo consenso elettorale elaborando un programma che si ponga come obiettivo il miglioramento del tenore di vita e delle condizioni di sviluppo di un paese (inteso per lo più come formazione statuale) e nello stesso tempo, per il medesimo fine, ottiene di  stabilire un rapporto (ovviamente occulto) con forme di criminalità organizzata si può, in certo qual modo, ammettere che egli metta in pratica correttamente la massima che il fine giustifica i mezzi. Può essere indispensabile per continuare a governare e mantenere il potere riuscire a “onorare” “i suoi impegni” anche nei confronti di quest’ultima. Dal nostro punto di vista, riguardo a  comportamenti di quest’ultimo tipo, il giudizio non può non essere che negativo sia dal punto di vista morale che politico, però, nella misura in cui, nella pratica politica – per usare una espressione di B. Croce – viene applicato il principio economico (inteso ovviamente in senso lato) e non quello morale  si può dire che l’agire politico, nella sua specifica distinzione dall’agire morale, risulta sia nei suoi aspetti strumentali che in quelli strategici rispondere al criterio dell’efficacia mentre è la determinazione dei fini (politici e sociali) che riguarda propriamente la sfera dell’eticità. Questo mi pare venga espresso da Gramsci con le sue considerazioni. Se i principi morali a cui ognuno di noi fa riferimento – e che fortunatamente non vengono mai messi in pratica del tutto altrimenti il frequente   prodursi di fenomeni di eterogenesi dei fini genererebbe spesso “disastri” non voluti  – condizionassero completamente la scelta dei mezzi per raggiungere determinati obiettivi si creerebbero ben presto contraddizioni paralizzanti e conflitti acuti con forte riduzione della capacità di governo all’interno di un certo sistema politico-istituzionale. La regolazione del conflitto tra gruppi dominanti e tra questi e i dominati segue i principi della razionalità strategica e non quelli della ragion pratica kantiana. Nella sfera dell’eticità ovverosia  nell’ambito  del diritto pubblico e dell’etica pubblica e sociale troviamo invece la trasformazione, in termini hegeliani, dell’astratta e irrelata moralità dell’individuo isolato in una serie di principi e di regole che mirano a permettere  il regolare funzionamento delle diverse sfere  delle formazioni sociali e la costituzione di un ethos, ovvero dello “spirito pubblico” e di un sistema di costumi condivisi in un certo territorio a sovranità statuale.   Non bisogna far riferimento, perciò, soltanto al rapporto tra i principi morali che sorgono nella nostra coscienza e la pratica “limitata” di essi perché, preliminarmente, questi stessi principi risultano già mediati, più o meno consapevolmente, dall’azione che i rapporti sociali esercitano su di noi alimentando l’ambiente ideologico in cui siamo sempre immersi e condizionando non solo i risultati delle pratiche ma la stessa concreta deformazione (trasformazione) dei fini che inizialmente ci eravamo proposti di perseguire. Ovviamente, nel momento in cui potessimo trovarci nelle condizioni – in una futura epoca storica – della ripresa di  una nuova prospettiva di trasformazione sociale che investisse il sistema nel suo complesso, assisteremmo sicuramente ad una crisi della strutturazione “ordinaria” della stessa sfera dell’eticità la quale verrebbe ad essere scossa da una violenta lotta per il potere e in cui si manifesterebbe l’inizio di una nuova transizione costituente ed istituente “rivoluzionaria”.

 

 

Mauro Tozzato                        06.07.2008