BREVI CONSIDERAZIONI SUL POSSIBILE RAPPORTO TRA LE PRESUNTE “FORZE NAZIONALI ITALIANE” ED IL COMPITO TEORICO-PRATICO CHE CI SIAMO ASSEGNATI

 

1.         Esiste un’idea (di ispirazione marxiana e diretta filiazione leniniana) piuttosto diffusa tra una buona parte dei (e quindi, credo, non fra tutti i) collaboratori del blog (tra cui chi scrive), circa la natura dello Stato, la quale attinge ad un’elaborazione operata, mai (fuorché, se ben ricordo, in un’occasione) ex professo e sempre nell’ambito di discorsi imperniati su altre tematiche, da Gianfranco La Grassa. Egli, in particolare, assume che lo Stato andrebbe concepito come un campo (costituito da correnti) di energia conflittuale permanente che, generatosi dallo scontro nella sfera politica fra gruppi dominanti volti alla reciproca sopraffazione per la supremazia su un’intera formazione sociale, troverebbe poi condensazione e precipitazione in apparati (tra cui, fondamentali, gli apparati della coercizione), istituzioni, corpi vari, i quali, pertanto, costituirebbero l’esito e risultante finali (ma giammai definitivi ed anzi sempre sostanziantisi in un equilibrio instabile, pronto a risolversi in ulteriori e diversi assetti di rapporti di forza) dell’azione combinata ed interazione di e tra siffatte correnti conflittuali. Insomma, lo Stato non come soggetto (tanto meno unitario) ma come processo.

Diretta conseguenza, tra le altre, della riportata concezione dello Stato, mi pare sia l’impossibilità logico-teorica di configurare un qualcosa come un interesse nazionale, vale a dire un interesse realmente ed indefettibilmente comune a tutta intera la popolazione insediata sul territorio di un dato Stato la quale si riconosca (laddove postulo l’esistenza di siffatta forma di coscienza unicamente per comodità argomentativa) nell’appartenenza ad una nazione. Ed infatti, assunto che gli apparati statuali da cui dovrebbe promanare l’azione che sostanzia e da corpo al supposto interesse nazionale altro non sono che risultante e condensazione dello scontro tra fazioni di dominanti, dunque portatori di una visione (e dei connessi interessi che tale visione sottende e presuppone) scaturente da uno specifico punto di vista (e di attacco), consegue inevitabilmente che tale supposto interesse nazionale è, innanzitutto e per lo più, e non può non essere, interesse della fazione che ha prevalso. Sarà poi compito dell’ideologia e propaganda, e forse anche della fede (pure religiosa), indurre presso il più ampio insieme possibile di strati e segmenti di società una percezione della natura e portata di detto interesse nei termini dell’autentico ed irrinunciabile interesse nazionale, a fronte ed in nome del quale subordinare i disparati interessi particolari, concepiti, questi si, come coinvolti in una ben più visibile e regolamentata competizione.

Corollario di quanto detto è che, quando – oramai da tempo e sempre più frequentemente – nel blog invochiamo la difesa dell’interesse nazionale come obiettivo politico da perseguire in questo momento storico, e sulla base del quale tentare di proporre la costruzione di un’unità fra istanze e (auspicabili) forze seppure di matrice ideologico-culturale assai diversa, altro non faremmo, perlomeno coloro che ritengono teoricamente convincente la concezione dello Stato più sopra concisamente descritta, che riferirci, in una prima ma essenziale accezione, ad un interesse non certo comune a tutta la popolazione italiana bensì soltanto ai ceti sociali che riteniamo propulsivi sia di un miglioramento del benessere (di costoro in via diretta, ovviamente, e poi, ma solo per auspicabile ricaduta e riverbero, di altre, certo quanto più ampie, aree sociali) nel nostro paese sia, ma molto in prospettiva, di un mutamento dei rapporti sociali in direzione di una configurazione ritenuta più consona alle nostre finalità politiche. E tutto ciò – è essenziale sottolinearlo- nell’assunto che esistano gruppi (non tanto dominanti in senso stretto, ché altrimenti avremmo già conseguito un risultato che invece ad oggi non c’è, bensì) apicali, muniti di mezzi e relazioni opportune, che nutrano il convincimento per cui i propri interessi possano essere attuati, difesi e sviluppati necessariamente, per ragioni oggettive, soltanto o comunque con maggiore efficacia mediante il sostegno e la promozione degli interessi dei suddetti ceti sociali propulsivi. Questo e nient’altro è, a mio avviso, la tipologia di interesse detto nazionale che noi tentiamo di proporre quale obiettivo di azione politica.

E dunque, a rigore, non di interesse nazionale (ossia di tutta la “nazione italiana”) si dovrebbe parlare, bensì di interesse innanzitutto di determinati ceti sociali (che qui non mette conto di individuare, non solo poiché ora mi interessa determinare non tanto il contenuto ma lo schema concettuale che utilizziamo quando parliamo di “interesse nazionale”, ma anche perché trattasi di problematica, quella della costruzione politica di un blocco sociale di consenso, certo cruciale, ma che allo stato non sono in grado di risolvere), realizzato facendo leva su determinate fazioni politiche apicali. Soltanto successivamente, e non necessariamente e quale obiettivo intrinseco al perseguimento dell’interesse supposto nazionale, potremmo, come accennato, assistere ad auspicabili ricadute per una maggiore estensione del campo di operatività sociale dell’interesse stesso. Insomma, ed anche qui in logica correlazione con quanto prima sottolineato in tema di concezione dello Stato: interesse nazionale come processo da costruire (per di più, almeno a partire da una data soglia, dall’esito intrinsecamente aleatorio), e non come dato da cui muovere.

È per le ragioni sopra sommariamente esposte che il sentiero che stiamo percorrendo mi sembra assai stretto. Da un lato, teoricamente persuasi che lo Stato è risultante e coagulazione, in sempre instabile equilibrio, di conflitti fra interessi di gruppi in lotta fra di loro per il controllo della società, e dunque che non è logicamente concepibile un qualcosa come l’”interesse nazionale” in quanto interesse di un soggetto unitario chiamato nazione (italiana) che sintetizzi il bene di tutta la popolazione. Dall’altro, parimenti consapevoli della necessità – che origina dall’ipotesi che le forze che fra un attimo menzionerò, nel perseguire i propri interessi, possono farsi al contempo vettori di interessi che noi riteniamo utile realizzare e coltivare – di stringere interlocuzioni proprio con forze (la cui esistenza, in ogni caso, è del tutto congetturale) che, pur perseguendo in thesi particolarissimi interessi di date fazioni apicali, si presentano tuttavia come, o comunque lasciano intendere di essere, “sovraniste” e “sensibili all’interesse nazionale”; con tutti i rischi di occultamento e sviamento ideologico nonché di abbagli teorico-pratici che l’evocazione di categorie di siffatta “gravità” e “solennità” generano.

Così individuate, seppure assai succintamente, le nozioni essenziali che servono alla definizione ed impostazione della problematica, vorrei testarne l’ipotetica valenza chiarificatrice mettendole alla prova in relazione all’articolo di Piero Laporta, intitolato e pubblicato sul quotidiano “Italia Oggi” del 14 settembre u.s. e di poi proposto recentemente sul blog. Articolo che ha suscitato anche vari commenti, in uno dei quali, peraltro, Gianfranco La Grassa ha ribadito la necessità di costituire “un <polo nazionale>”. Ed è proprio dal richiamo a tale ritenuta necessità che prenderò le mosse, perché il discorso che la sottende ben si presta ad esser posto in interazione con quanto più sopra ho esposto, tenendo particolarmente presente quanto affermato da Laporta stesso circa la presunta convivenza, “nell’establishment statunitense, […di] due anime: una idealista, democratica, profondamente legata ai valori fondanti del 1776; l’altra banditesca, stragista, sanguinaria e senza scrupoli”. Concluderò, poi, con alcune considerazioni che, in modo più diretto, investono anche altri passaggi, oltre quello contenente la riferita affermazione, del suddetto articolo.

2.         Impiegato nel contesto di un discorso di carattere politico, l’aggettivo “nazionale” designa anche, ed in negativo, il perseguimento di un’azione politica non schiacciata organicamente sugli interessi fondamentali (di alcuno e dunque nemmeno) degli USA. E ciò a prescindere dall’eventualità che in quest’ultimi prevalga l’una o l’altra delle suddette due presunte “anime”; che comunque, sulla scorta del tenore complessivo del citato articolo di Laporta sembrano potersi identificare, con tollerabile approssimazione, rispettivamente nei repubblicani, che incarnerebbero l’anima “idealista, democratica, profondamente legata ai valori fondanti del 1776”, e nei clintonian-obamiani, che al contrario impersonerebbero l’anima “banditesca, stragista, sanguinaria e senza scrupoli”.

Ad ogni modo, dicevo che – e scusate se mi ripeto nella banale considerazione – il connotato nazionale di una politica esige l’affrancamento da qualsiasi organica sottomissione a poteri stranieri, quali che siano le caratteristiche della fazione che in quel momento eserciti il potere straniero di cui di volta in volta trattasi. Pertanto, se qualche potenziale compagno di strada – così da qualificarsi in quanto ipotetico affiliato nella costituzione di un “polo nazionale” -, tra cui magari il citato Laporta, stimasse di dover concretamente declinare la propria idea di indipendenza nazionale, ad es., da un canto, nell’avversione attuale alla corrente clintonian-obamiana e, dall’altro, in un sodalizio con la corrente (per semplicità) repubblicana, magari in vista della forse probabile vittoria di quest’ultima alle prossime elezioni presidenziali statunitensi, mi parrebbe piuttosto ovvio dissociarsi recisamente da un siffatto disegno politico, fatte salve stringenti, comprovate ed irrefutabili motivazioni che mi persuadessero del contrario.

In altri e più generali termini, ritengo che la costituzione di un “polo nazionale” esigerebbe, a mio avviso, la prodromica chiarificazione dell’idea di indipendenza nazionale che i potenziali compagni di strada (noi compresi, ovviamente) intenderebbero perseguire. Assumo, più precisamente, la necessità che qualsiasi anche solo ipotizzata consonanza politica, per quanto temporanea e congiunturale, onde evitare il rischio di andare incontro a naufragi pratici ancor prima che teorici, sia preliminarmente illuminata dall’individuazione dei suoi presupposti essenziali e del perimetro (dunque dei limiti) entro cui detta consonanza potrebbe funzionare. Talché, se le forze (posto che esistano)  sedicenti sovraniste e sensibili all’autonomia nazionale, e le loro supposte espressioni istituzionali e/o giornalistiche, cui noi guardiamo con favore, ritenessero, ad es., preferibile stringere rapporti con la corrente (sempre per semplicità) repubblicana, e dunque restare pienamente nel recinto dell’atlantismo, dovrebbero spiegare e giustificare anche teoricamente (sotto il profilo strategico, geopolitico, sociale, economico, ecc.) la presunta convenienza di siffatta preferenza ai fini della difesa e potenziamento degli interessi (supposti) nazionali italiani.

Certo, figuriamoci se tali ipotetiche forze si sentirebbero minimamente tenute a fornire la spiegazione e giustificazione appena sopra menzionate. Ed infatti dovremmo essere precisamente noi a comportarci in modo tale da far emergere quanto richiesto, incalzando i nostri possibili interlocutori con gli unici strumenti di cui disponiamo: rigore analitico combinato ad inventività, arguzia e progettualità politiche. Ora, desidererei far notare che questo mio discorso si muove in un orizzonte temporale assai limitato, avendo riguardo eminentemente alla presente congiuntura, sicché risulta necessariamente orientato anche alla considerazione di esigenze tattiche. Ma credo si veda bene come tale considerazione non escluda punto la formulazione di interrogativi e dubbi in merito alla reale direzione di marcia (posto ne abbiano una) delle ridette ipotetiche forze e né, quindi, richiederebbe l’assopimento della nostra acribia. Insomma, la tattica non esclude la chiarezza ed il rigore nel porre le questioni cruciali a coloro con cui tentiamo di stabilire un’interlocuzione. Altrimenti, mentre ci si ritiene di essere campioni della tattica, nei fatti si corre il rischio di scivolare, senza nemmeno accorgersene, in una torpida mollezza acritica (il che credo costituisca atteggiamento antitetico anche rispetto ad un’auspicata attitudine machiavellica).

3.         Vengo ora, come preannunciato, alla considerazione di alcuni passaggi contenuti nel più volte citato articolo di Laporta. In proposito, già mi sono soffermato, sotto altro profilo, sulle perplessità suscitatemi dall’asserto che sottolineava l’esistenza delle “due anime” nell’ambito delle fazioni apicali statunitensi. Pertanto, qui mi limiterò soltanto ad aggiungere che giudico detto asserto piuttosto manicheo nel tono apologetico con cui s’inneggia all’asserita “altra vera” America. Inoltre, fa indubbiamente riflettere la contraddizione che ravviso fra l’asserto appena ricordato – nella misura in cui si ritenga corretto tradurlo nell’opinione per cui, ripeto, le “due anime” si identificherebbero rispettivamente, nei buoni ed idealisti repubblicani e nei cattivi e stragisti clintonian-obamiani – e quella che appare la continuità di azione strategica che l’autore invece sembra rintracciare fra i fatti dell’11 settembre 2001 e l’aggressione alla Libia. Infine, non dovrebbe trascurarsi – come fatto notare all’autore sotto forma di quesito posto in un commento all’articolo in parola – il silenzio, in effetti anomalo ove si consideri l’elencazione (su cui è incentrato l’intero articolo) delle infamie commesse dall’”anima empia” clintonian-obamiana anche a mezzo di asserite intelligenze con l’islamismo qaedista, serbato sull’attacco alla Serbia del 1999 e, più in generale, sulla strategia di inglobamento filoatlantico dei Balcani, con l’ausilio decisivo di queste stesse intelligenze.

Come si vede, peraltro, è a partire dagli interrogativi posti dal soprasegnalato silenzio che emerge la proficuità di un’interlocuzione più diretta ed a tutto campo con le più volte citate ipotetiche forze nazionali. Sarebbe utile oltreché interessante, difatti, sapere se tali forze o chi per loro, ritengano sussista un qualcosa come la suddetta strategia di inglobamento filoatlantico dei Balcani; e, nell’affermativa, se la considerino diretta all’avvolgimento e contenimento innanzitutto della Russia; e, infine, nella ricorrenza di quest’ultima ipotesi, se detta strategia sia da costoro (geo)politicamente condivisa. E quindi, in definitiva, se, di là di contingenti avversioni alla linea strategica che sembra attualmente prevalente negli USA, rimanga fermo ed inscalfibile, nella concezione delle menzionate forse nazionali, l’indebolimento della Russia come obiettivo ineludibile al fine del mantenimento della primazia mondiale degli USA, questa si missione ultima ed irrinunciabile, unitamente all’atlantismo concepito e voluto come orizzonte insuperabile per l’Italia. Tutti interrogativi, questi elencati, che verosimilmente resteranno inevasi. E comunque, il solo fatto di por(se)li, e ciò mediante l’analisi e la critica (che quindi confermerebbe la sua utilità, e non certo a detrimento del soddisfacimento di eventuali esigenze tattiche), apre alla non insensata possibilità di congetturare che gruppi che pure si presentano (espressamente o meno) come portatori di istanze di indipendenza nazionale, ben possono essere invece portatori di posizioni sensibilmente ed irriducibilmente diverse dalle nostre in punto rapporti con l’atlantismo e, più in generale, in punto tipo e contenuto delle relazioni internazionali dell’Italia.

Ma proprio a quest’ultimo proposito, mi si conceda ancora un po’ di attenzione per svolgere una puntualizzazione riguardo una tematica sicuramente non all’ordine del giorno, ma che può rivelarsi utile già al presente per dare un’idea riguardo al modo in cui mi accosto alla questione consistente nell’individuazione del tipo di rapporti internazionali che sarebbero più conformi al nostro interesse (supposto) nazionale. Ora, è nota la nostra propensione per una politica internazionale italiana che “guardi ad est” (oltreché, nell’immediato, al vicino oriente ed all’Africa mediterranea; ma questo versante, alla luce degli avvenimenti recenti ed in atto, andrebbe radicalmente ridefinito). Ebbene, ritengo che, ove un domani si dessero le condizioni per attuarla, si dovrebbe mettere nel conto l’instaurarsi di una certa quota di dipendenza e subordinazione del Paese alla Russia, e ciò almeno per il periodo iniziale di siffatta ipotetica nuova politica. L’importante, mi pare, è che ci si adoperi affinché tale subordinazione non sia organica, strutturale e di lungo periodo come lo è quella nei confronti degli USA; e ci si adoperi con questa precisa consapevolezza. Proprio tale consapevolezza, precisamente, rappresenterebbe uno dei tratti differenzianti essenziali rispetto all’atteggiamento, divenuto nei decenni ideologia e poi senso comune, di chi, in Italia, ha sempre creduto e continua a credere all’esistenza di una sorta di comunità di destino, dunque recante lo stigma di una tendenziale eternità, fra il nostro Paese, e con esso l’Europa, e gli USA.