CAOS E MENZOGNE: DOBBIAMO MOLTO RIFLETTERE di Giellegi il 27 marzo 2011

1. Praticamente impossibile sintetizzare, sia a livello di sentimenti sollevati che di lucidi ragionamenti, quanto è stato scatenato in questi giorni assieme al forsennato e infame attacco alla Libia. Si sono lette tutte le trame compiute dai francesi nell’articolo di Bechis giorni fa su Libero, o quelle intessute dagli inglesi (e dalla loro Sas), con dietro a tutti gli Usa di Obama, che si era già sentito oltraggiato quando Mubarak non se ne andò immediatamente al suo ordine (ma venne convinto poche ore dopo dall’esercito, fin dall’inizio controllore della situazione per conto degli yankees) e, di conseguenza, si è offeso mortalmente quando Gheddafi gli ha fatto addirittura “marameo”, restando al suo posto.

Diciamo intanto che siamo stati in passato con entusiasmo dalla parte della lotta dei neri negli Usa; ricordiamo specialmente Malcolm X (con assai minore partecipazione Luther King), abbiamo tifato per i pugni di Muhammad Alì, ecc. Questo meschino Obama ci ha tolto il gusto di quel tempo, poiché sembra tornato alla “capanna dello zio Tom”. Un vero arrogante, di bassa levatura politica, con in mano però armi strapotenti, il che rende il tutto assai pericoloso e particolarmente disumano e vigliacco. Comunque, sappiamo che non si tratta di singole persone, ma di apparati, di staff, di centri strategici, di gruppi dominanti fra loro in lotta sorda per far prevalere i rispettivi interessi pur quando sono (solo apparentemente) uniti nel commettere i loro atti criminali. Comunque, questa catena di dominio trova oggi al vertice della sua mera rappresentanza soggettiva un nero; e ciò dispiace, è un affronto a quella lotta di liberazione che ci aveva scaldato in altri tempi. Obama, insomma, rappresenta il palese tradimento di tanti ideali del passato (ormai tramontato).

   I punti focali della questione sono tuttavia altri. Intanto, non esiste l’Europa unita. E’ una grossa invenzione dei “progressisti”; in Italia europeisti della piccolezza di Ciampi, Amato, e altri. Stendo un pietoso velo su quelli del passato tipo Altiero Spinelli, su cui pesa pure la grave responsabilità di avere messo al mondo una reazionaria di rara intensità; su La Repubblica ha aggredito Berlusconi perché sarebbe ipocrita, scordandosi di citare Napolitano secondo cui non siamo in guerra, applichiamo soltanto la risoluzione Onu per difendere la pace. L’unica unità europea possibile è quella voluta da De Gaulle, quella “delle Patrie” o, meno enfaticamente, delle nazioni o paesi. Non eravamo entusiasti nemmeno di questa, ma oggi, vedendo la catastrofe realizzata, dovremmo quanto meno ripiegare su quel progetto. Sarebbe ormai ora di chiudere con questa dannosa esperienza; ma si può essere sicuri che un occidente, apparentemente votato alla morte, resterà ancora in surplace. Ho l’impressione che sarebbe meglio lasciar perdere anche l’euro, ma su questo al momento soprassediamo; non penso sia il problema centrale, ma comunque dobbiamo almeno non lasciar comandare la politica monetaria alla BCE e tanto meno restare appesi per il collo ai parametri di Maastricht. Ogni paese ricominci a prendersi larghi margini di autonomia e si stabiliscano alleanze bi o multilaterali su precise istanze legate ai nostri interessi.

   Quanto sta accadendo nel settore agroalimentare (l’ultimo evento è quello riguardante la Parmalat), che lasciamo nelle mani altrui, in questo momento quelle francesi – o peggio ancora nel settore assicurativo, dove sempre i francesi (Bolloré) sono all’attacco delle Generali (tramite Mediobanca) [vedi appendice], coadiuvati da personaggi dei nostri settori non di punta (tipo il Della Valle) – dovrebbe ormai condurci verso una svolta politica netta, che al contrario non è nemmeno all’orizzonte.

   2. Ancora una volta, le mie previsioni si sono realizzate. La “sinistra” (l’ammucchiata dei rinnegati) è divenuta la più marcia forza al servizio degli Stati Uniti e delle loro guerre, attuate sia direttamente sia per l’interposta azione di una serie di gruppi subdominanti europei: francesi e inglesi in testa. Certamente però – soprattutto nell’ultima grave crisi, quella libica – con la figura particolarmente meschina degli italiani nella loro indecisione tra ottemperanza agli ordini e desiderio di escogitare qualche furbata. E’ in questi giorni tollerabile leggere Libero o Il Giornale (a malapena, sia chiaro, perché le motivazioni dell’avversione alla guerra sono abbastanza disgustose); mentre La Repubblica, il Corriere, L’Unità, il Fatto quotidiano, Europa, ecc. sono di una vergogna forse finora mai raggiunta. La disunione e scarsa fattività delle forze governative (troppo personale raffazzonato) è evidente. La sinistra raggiunge però vertici irraggiungibili. Il suo capo è ormai, senza più mascheramenti, il presdelarep. Anche questa è una mia previsione corretta.

   Sia lui che Fini erano andati negli Usa. Avevo sostenuto che Fini si sarebbe schierato con la sinistra “tradendo” Berlusconi; fatto avvenuto puntualmente. La destra lo ha attaccato – come del resto è stato sempre fatto dalla sinistra nei confronti del cavaliere, sia chiaro – su questioni personali e ha semplicemente cercato di farlo passare per un individuo pieno di rancore verso il premier; falsità evidente. I motivi erano affatto diversi, e sono convinto che il leader dell’ex An ne abbia discusso nei colloqui avuti con Nancy Pelosi e John Kerry a Washington, subito dopo seguiti dalla marea dei documenti Wikileaks, non certo diretti in modo specifico contro Berlusconi, ma comunque anche a lui indirizzati. Fini, per vari motivi su cui è inutile insistere, ha fallito il compito assegnatogli e anzi il premier è riuscito, con improvvido riavvicinamento agli Usa (sintomi, nulla più che sintomi, del quale sono stati i ritorni di Ferrara e Guzzanti), a far fallire l’assalto della “prima linea”. La sinistra è andata fuori di testa ed è partita la “seconda linea” di cui fa parte Napolitano, anzi ne è il “capo”, che ha incontrato l’altro ieri pure lui Nancy Pelosi a Roma.

   La situazione era comunque di stallo quando Gheddafi ha resistito – al contrario di Ben Alì e Mubarak (che ha avuto un accenno di resistenza per qualche ora, facendo incazzare Obama e obbligandolo ad impartire l’ordine all’esercito di metterlo alla porta senza più indugi) – e ha messo in caos totale la coalizione (in realtà l’accolita di banditi sotto predominio Usa). Berlusconi – personaggio debole di per se stesso, ma ancor più debole perché le forze che lo appoggiano, il management delle industrie strategiche salvate da “mani pulite” (senza che ripeta per conto di chi ha agito la magistratura), sembrano non avere agganci sufficienti negli apparati di Stato decisivi – si è trovato nelle panie, da cui tenta in
qualche modo di uscire. Tuttavia, la “sinistra” sta disperatamente tentando l’ultimo affondo; e Napolitano – che si recherà presto negli Usa e spera di parlare perfino all’Assemblea dell’Onu per acquistare prestigio – è ora la punta di diamante dell’attacco per togliere di mezzo il “fastidio” Berlusconi, in questo momento in difficoltà perché non aiutato nemmeno dalla Russia, dove tutto lascia credere agisca un novello Gorbaciov (Medvedev). Spero di sbagliarmi, ma quanto visto negli ultimi tempi è poco incoraggiante.

   Quando era in evidenza la crisi economica – per nulla rientrata come ci si racconta con totale irresponsabilità – la sinistra tramava con parti del Pdl (e Lega) nella speranza di un Governo di unità nazionale (a questo serviva la preparazione di tutte le pantomime poi svolte per il 150° dell’Unità d’Italia, sabotate però dalla Lega, che non può spingersi troppo oltre con il suo elettorato) a guida Tremonti, l’uomo dell’Aspen Institute. Poi, lo scatenamento forsennato, perfino forse oltre il voluto, della magistratura ha messo in primo piano Alfano. Uomo meno coinvolgibile in funzione “nazionale” (in realtà anti) in alternativa al premier attuale, comunque sempre impegnato in defatiganti pourparler con magistrati e il presdelarep; un personaggio che si cercava di solleticare nella sua naturale ambizione ad essere il possibile sostituto di Berlusconi in caso di impedimenti di quest’ultimo.

   Infine è arrivata la guerra; e il mediocre Frattini si è  probabilmente messo nelle vesti del possibile sostituto del premier in un governo di unità nazionale, questa volta anzi di emergenza bellica, scoppiata subito dopo le retoriche manifestazioni per l’Unità; mentre La Russa si è creduto il vice di cotanto primo ministro in pectore. Come sempre, le guerre mettono in mostra il peggio delle classi dirigenti nazionali, il peggio della maggioranza governativa, l’ancor peggio dell’opposizione fellona. Il presdelarep è protetto contro giudizi assai duri, per cui di lui dirò a fine settennato. Comunque, credo sia lecito rilevare che è il peggiore presidente di sempre. In definitiva, alla pari di Scalfaro e Ciampi. Solo che il primo era più scopertamente, e radicalmente, reazionario; il secondo untuoso e infido, ma non gli è capitata addosso una evenienza negativa di tale portata.

   3. Da molto tempo ho indicato nella sinistra null’altro che un’ammucchiata di rinnegati per i motivi più volte messi in luce. Ci sono spiegazioni sia politiche che psicologiche per illustrare che cosa sono i rinnegati, a quale specie ormai sottoumana appartengano. Inutile perdere altro tempo. Semmai bisogna mettere in luce le loro determinanti ideologiche e la base elettorale a disposizione. La sinistra – con i traditori della destra passata di campo in ondate successive – si è divisa da tempo (possiamo dire da sempre) in liberista e statalista (vanitosamente etichettatasi keynesiana, per darsi una patina di nobiltà). La sinistra liberista non si distingue – salvo che nel forsennato odio ad un individuo solo: Berlusconi – dalla destra affascinata dalla medesima ideologia. La statalista ha come correlato un certo tipo di destra, in Italia quella ex Msi, AN, ecc. Liberismo e statalismo degli ultimi vent’anni (della seconda Repubblica, mai nata) sono aberrazioni delle rispettive “case madri” di più antico lignaggio; più o meno come i degenerati residui “marxisti” odierni sono la putrefazione di un grande pensiero teorico rivoluzionario.

   Il liberismo usa la smithiana “mano invisibile – ideologia progressista al suo tempo, in cui bisognava vincere le ultime e ancora forti resistenze di derivazione semifeudale per perfezionare la rivoluzione borghese (quella industriale, fulcro del capitalismo vero e proprio) – per raccontarci che esiste il libero mercato cui affidare ogni giudizio di efficienza e convenienza economica. Il mercato è in realtà soverchiato dalla politica (le strategie di conflitto) che si servono della politica nel senso degli apparati dello Stato, in particolare quelli della forza sul piano mondiale. Dove la forza non è semplicemente quella bellica (di ultima istanza), bensì quella delle trame nascoste, dei colpi di Stato, della costituzione di quinte colonne sia politiche che economiche (per interesse) in paesi altrui, della penetrazione culturale in tali paesi presso gruppi particolarmente organizzati e capaci di violenza, di grossa turbativa dell’ordine onde influenzare e confondere le idee alla maggioranza della popolazione amante del tranquillo vivere, ecc. ecc.

   All’ideologia del libero mercato è associata quella della “democrazia”, delle libere elezioni. Ogni tot anni si chiamano le popolazioni ad esprimere un giudizio su accozzaglie politiche delle cui manovre, dei cui rapporti con gruppi dominanti interni, spesso subordinati ad altri stranieri (per cui si tratta di subdominanti: dominanti sulla propria popolazione, subordinati ai predominanti stranieri), nessuno sa nulla. Non esiste democrazia, solo passiva adesione ad interessi poco conosciuti di gruppi che hanno il bandolo della matassa in mano. In certi casi, questa passività si esprime tranquillamente, quando i gruppi pre o subdominanti si sono spartiti pacificamente le aree di influenza (politica ed economica) nel paese; in altri casi, si è squassati da violenti scontri quando tali gruppi sono in competizione netta, soprattutto quando quest’ultima dipende dall’intervento di predominanti esterni (caso tipico quello dell’Italia da vent’anni).

   Libero mercato e libere elezioni sono, quasi sempre, il “Cavallo di Troia” attraverso cui procede il predominio di certe “cosche”. A ciò serve il liberismo. Come sempre accade, a quest’ultimo si oppone una ideologia “antagonistico-polare”, che si fa carico con modalità diverse degli stessi compiti. Si attacca in modo radicale il liberismo, se ne mettono in luce le radici negli interessi di certi settori dominanti, pretendendo di essere i reali rappresentanti dell’interesse collettivo in quanto si fa appello allo Stato, di cui si propaganda l’ideologia – tanto falsa e menzognera quanto quella liberale – di organo super partes, di custode degli interessi generali del paese. In realtà, questo statalismo si limita poi a voler intervenire nel sistema economico o per regolarne in qualche modo alcuni indici (ad es. l’inflazione e la politica del credito, la costruzione di certe infrastrutture, ecc.), e ciò non è affatto in contrasto con il liberismo; oppure vuol incidere più pesantemente nell’economia con elevato carico fiscale e ampio utilizzo della spesa pubblica, di solito sotto la copertura ideologica dello Stato detto sociale.

   In realtà, i fini perseguiti sono essenzialmente assistenziali e clientelari. Assistenza ai gruppi dominanti che hanno maggior peso nella conduzione politica degli apparati statali; assistenza (e addirittura creazione) di ceti sociali che costituiscono la base elettorale (ecco sempre all’opera la bufala della “democrazia”) di quei partiti che, attraverso lo statalismo, assistono e servono quei dati gruppi dominanti. Non posso qui troppo dilungarmi in discorsi teorici da fare (già in buona parte fatti) in altra sede. Ricordo solo che il “keynesismo” – ideologia di questo statal
ismo – si è diffuso nel dopoguerra, prevalendo a lungo in ambito accademico, soprattutto nel mondo anglosassone e specialmente negli Usa. Guarda caso, però, in tale paese lo Stato non ha avuto grandi aneliti di socialità. La spesa pubblica è servita soprattutto a potenziare enormemente il suo apparato militare e a renderlo, ancor oggi, il paese predominante in senso globale (altro che globalizzazione del “libero mercato”).

   4. In poche parole, liberismo e statalismo si sono divisi i compiti nell’assicurare, via “democratica”, la supremazia di una data (pre)potenza (gli Usa): prima nel campo capitalistico, dato lo slancio antagonistico che impresse la Rivoluzione d’Ottobre a quello che fu pensato quale “socialismo” (in grado di espandersi, esercitando un forte influsso, per un dato periodo storico); poi nel mondo complessivo, con il suo incrinarsi ancora non decisivo nell’ultimo decennio. Lo statalismo si è potuto presentare nella sua accattivante forma detta sociale solo nei paesi di fatto subordinati alla (pre)potenza statunitense. In questi paesi esso – grazie all’alleanza di lunga data con il “movimento operaio” della socialdemocrazia e, più di recente dopo la seconda guerra mondiale, con il comunismo finto-marxista, rimasto ancorato alla vecchia formulazione del marxismo relativa al modo di produzione capitalistico, con la sua bella divisione in capitalisti (visti come finanzieri, rentier) e produttori (classe operaia, poi “masse lavoratrici”, “lavoratori”, con crescente genericità, sintomo del fallimento pratico e teorico del “comunismo”) – è riuscito nel “bell’intento” di fare la sintesi tra preminenza del capitalismo più parassitario e assistito, quello delle vecchie fasi dell’industrializzazione, sempre più subordinato agli Usa, e gruppi di lavoratori dotati, per una fase storica, di un minimo di assistenza sociale e in crescita come livello medio di reddito.

   Lo statalismo detto sociale, in realtà appunto assistenziale, è stato di particolare forza nel capitalismo italiano, strutturalmente il più debole anche perché minato da una “questione meridionale” sempre falsificata dal vittimismo di certi ceti medi del Mezzogiorno, dotati di buona influenza su quelli popolari. Il “famoso” sfruttamento dei lavoratori del sud da parte dell’industria del nord ha infine comportato – grazie all’enfasi posta sulla spesa pubblica assistenziale “ben orientata” da date forze politiche (con la complicità dell’opposizione finto-radicale del Pci, in realtà in pieno compromesso detto storico) – due gravi distorsioni: sviluppo dei settori industriali (soprattutto settentrionali) di minore rilevanza strategica; emigrazione dal sud al nord di lavoratori con impoverimento “sociale” del sud, accompagnata dall’abnorme crescita, in tutto il territorio (ma, inutile negarlo, soprattutto in area meridionale), di settori del terziario e dell’amministrazione pubblica di speciale inefficienza e “peso morto” per il sistema produttivo del paese. Nello stesso tempo, si è verificata la crescita di un ceto politico e intellettuale che di tutte queste distorsioni si è fatto portatore ideologico per eccellenza; sia inneggiando all’industria “matura” e non strategica del nord (tipico il caso della Fiat), sia enfatizzando il vittimismo meridionale, condito con l’innocua critica al fenomeno criminale sempre attribuito alla collusione con i “cattivi” del nord.

   Da tutte queste distorsioni è stato pure influenzato lo specifico sessantottismo italiano, di cui molti hanno notato l’abnorme prolungamento, che ha prodotto degenerazioni sempre più gravi dal ’77 in poi, non verificatesi con la stessa intensità altrove. Un ’68 preso per una “rivoluzione fallita” che avrebbe comunque condotto ad una modernizzazione della società. In realtà, di rivoluzione non si è visto nemmeno l’accenno; e la modernizzazione è stata solo “di costume” (sessuale), accompagnata però da tali fenomeni degenerativi, sia culturalmente sia nella funzione dei ceti intellettuali, da rendere impossibile una sua considerazione complessivamente positiva. Non mi sogno di dire che sarebbe meglio tornare ai costumi sessuali del passato, alle chiusure insopportabili in questo ambito della vita sociale. Tuttavia, nel bilancio bisogna mettere la degenerazione politico-intellettuale giunta a livelli ormai parossistici.

   5. E’ tuttavia innegabile che – se in Italia certi processi degenerativi, politici e del tessuto sociale ed economico (produttivo e finanziario), ha raggiunto livelli altissimi – fenomeni analoghi non sono mancati in altri paesi europei. In particolare in Francia, dove la degenerazione del ’68 ha avuto sviluppi di una certa rilevanza con effetti simili a quelli italiani nei settori politico e intellettuale. In ogni caso, liberismo e statalismo (detto sociale e in realtà assistenziale e clientelare) sono fenomeni non solo italiani. La lotta tra i due – con la partecipazione subordinata, oggi ormai pressoché inessenziale e con ultimi sussulti residuali soprattutto italiani, del marxismo e del comunismo – chiude ancora l’Europa nel cerchio della (pre)potenza Usa.

   Altrove – anche in potenze emergenti o in paesi nuovi – tale dualismo antitetico-polare è assai meno rilevante; non però l’ideologia della “democrazia”, in quanto grimaldello per tentare di scardinare l’autonomia di quei paesi, il cui sviluppo ha creato ceti ricchi che, da simile inganno, ricevono impulso per influenzare alcuni settori di popolazione, in movimento con particolare virulenza in modo da farsi passare per “interi popoli in rivolta”, con l’aiuto di vecchi ideologi terzomondisti delle “rivoluzioni” d’antan, che in realtà furono effettive lotte di liberazione nazionale, sfociate nello sviluppo di nuove classi dominanti locali. I vecchi arnesi, delusi nelle loro furie rivoluzionarie, oggi riciclano il terzomondismo a ideologia di supporto di “lotte di popolo”, che hanno ormai ampiamente rivelato la loro reazionaria funzione di appoggio ad avventure di sapore vetero-coloniale (da studiare seriamente in questo aspetto antico che esse ripresentano) delle ormai decadute potenze europee manovrate, anche tramite blandizie, dalla nuova tattica statunitense. 

   L’Italia, per il cumulo di contraddizioni accumulate (e da noi non ancora studiate con nuove categorie d’analisi), è un paese fra quelli a più alto sviluppo capitalistico; con però una debolezza strutturale incredibile. Intanto, i settori strategici rimasti sono pochi, e per di più incapaci di dotarsi di autentica forza politica; sono quindi solo potenzialmente strategici, ma non hanno l’energia necessaria ad attuare l’inevitabile conflitto, per il quale occorre un certo tipo di controllo degli apparati non semplicemente amministrativi dello Stato. Diventa quindi indispensabile abbandonare lo statalismo fintamente sociale, in realtà assistenziale e clientelare. E’ necessario che lo Stato sia al servizio della forza. La spesa pubblica deve essere indirizzata non genericamente alla “domanda” – che sia il liberismo sia lo statalismo già considerati propongono come molla dello sviluppo – bensì al rafforzament
o effettivo dell’industria strategica e soprattutto degli apparati capaci di intervenire per difendere e possibilmente ampliare aree d’influenza (interne e, ancor più, esterne) mediante salde, e ben mirate, politiche di alleanza in grado di affrontare la cosiddetta competizione globale, che sia i liberisti sia gli statalisti credono si limiti alla semplice ricerca dell’efficienza produttiva, al massimo supportata da regolazioni giuridiche (di solito predicate per attuare la “salvifica” liberalizzazione) o da interventi per rinsaldare la concertazione tra imprese e lavoratori, per incrementare la domanda pubblica quando si considera carente quella privata, ecc.

   In Italia sussiste l’ulteriore peso delle residue cariatidi sindacali, di cui le più esiziali sono non a caso quelle dette radicali (la “mitica” Fiom). E’ in realtà tutto da ripensare. La lotta sindacale, e senza più privilegiare questo o quel settore, va considerata nei suoi effetti di redistribuzione del reddito, di difesa delle condizioni di vita e di lavoro, senza caricarla di altri significati di rivolgimento che essa non ha. Quindi, non ha più senso rinchiuderla negli steccati del conflitto capitale/lavoro. Il capitale come il lavoro hanno sfaccettature molteplici e diverse. Il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale; mai come oggi simile affermazione ha valore, ma proprio per smantellare la retorica di una lotta che è spesso reazionaria, condotta non tanto in difesa di interessi corporativi, l’accusa stucchevole che i liberisti rivolgono ai loro “polar-antagonisti”, ma piuttosto per alterare i rapporti di forza intersettoriali a favore delle industrie non strategiche, “mature”, di passate fasi dell’industrializzazione: quelle industrie che si pongono in complementarietà (e dunque complicità) con la (pre)potenza statunitense.

   Ecco allora l’origine della reazionarietà della sinistra, anche finto-radicale, quella appunto del conflitto capitale/lavoro, che è poi non a caso la stessa che appoggia le “masse in rivolta” nei paesi sottoposti all’azione vetero-coloniale della medesima (pre)potenza. Una spiegazione mi sembra posta proprio nella solidarietà tra la funzione reazionaria all’interno e quella in politica estera. Capita perciò che oggi la “sinistra” in Italia (e non solo da noi) sia incredibilmente la più favorevole alla guerra coloniale contro la Libia. Le due funzioni reazionarie, interna ed estera, si sorreggono vicendevolmente.

   6. Per quasi mezzo secolo siamo rimasti congelati in un mondo bipolare, in cui nel campo capitalistico – l’altro è stato a lungo ritenuto socialista, e alcuni (di “destra” e “sinistra”) lo trattano ancora così – è esistito un sostanziale monocentrismo Usa. Il “socialismo” (detto reale) tale non era; si è trattato del provvisorio irrigidirsi di una formazione sociale non ancora definita pur se oggi fondata sul funzionamento di impresa e mercato nella sfera economica, mentre quella politica resta strutturata in modo diverso da quella del capitalismo che conosciamo con le nostre invecchiate categorie. Per quanto riguarda il campo capitalistico, esso non era esattamente quello che le categorie d’analisi in questione, a qualsiasi “ismo” appartengano, ci hanno finora obbligato a definire capitalismo tout court. Se per forma capitalistica di società continuiamo semplicisticamente ad intendere quella che nella sfera economica, come già detto, è caratterizzata da impresa e mercato, allora dobbiamo ancor oggi definire l’intera formazione mondiale come avvolta da una rete di tipologia capitalistica. E’ però sempre più urgente uscire da una visione strettamente economica, riuscendo così a rilevare ampie differenziazioni tra le varie aree mondiali.

   Per quanto riguarda il capitalismo più tradizionale (“occidentale”, pur comprendente il Giappone) ho proposto di distinguere intanto un capitalismo borghese (periodo del predominio inglese) e uno dei funzionari del capitale a preminenza statunitense. Qui mi interessa soltanto ricordare che, durante il quasi mezzo secolo di monocentrismo Usa nel campo capitalistico “occidentale”, si erano supposte molte modificazioni del capitalismo tout court da parte degli apologeti di tale forma societaria; mentre i critici, specie marxisti, continuavano a vederlo come condannato alla putrescenza e al deperimento. Tutti hanno comunque dovuto prendere atto del cambiamento delle crisi economiche in più blande recessioni; e del mutamento del dominio coloniale in nuove forme di preminenza basate soprattutto sul cosiddetto neocolonialismo, che avrebbe evitato vere forme di occupazione militare e amministrativa e di imposizione culturale, instaurando più sottili legami di dipendenza economica tramite investimenti, creazione di filiali di multinazionali (di cui la stragrande maggioranza era all’epoca rappresentata da società a controllo di capitali statunitensi). I colpi di Stato organizzati dagli Usa e gli scontri militari tra i “due mondi”, tipo Corea e Vietnam, sono stati visti come fenomeni localizzati nel terzo mondo in quanto effetto di frizioni tra i due principali “campi” (con terzo incomodo la Cina).

   Il crollo di un mondo (socialistico) non ha in effetti condotto ad un nuovo monocentrismo, ma ha anzi accresciuto il disordine e lo scoordinamento a livello planetario malgrado le tante dichiarazioni (solo di principio in definitiva) contrarie, il gran daffare degli organismi detti internazionali (in realtà influenzati dalla potenza statunitense), il continuo intervento militare degli Usa ancora localizzato in aree “terzomondiali”. In realtà, si è assistito alla netta supremazia militare degli Usa, ancor oggi in atto malgrado il crescente ritmo di riarmo di alcune potenze in crescita. Solo che il monocentrismo non è mai un fatto di mera superiorità militare, per quanto accentuata essa sia. Il mondo, dopo il crollo socialistico, ha iniziato ad apparire scoordinato, non monocentrico pure se ancora ben lontano da ogni policentrismo effettivo. Ed è questo il multipolarismo di cui spesso parlo.

   Sono così riapparse le crisi economiche e non più le semplici recessioni; crisi che hanno investito anche, con modalità diverse e per molti versi ancora sfuggenti alla nostra analisi, i paesi caratterizzati in ogni caso da una formazione sociale non assimilabile a quella dei funzionari del capitale di matrice appunto statunitense. Inoltre, le guerre condotte sotto la direzione e l’impulso degli Usa, pur ancora localizzate in aree a sviluppo capitalistico assente o arretrato, sono apparse viepiù differenti rispetto a quelle dell’epoca bipolare. Allora, almeno in prevalenza, si è trattato di guerre di liberazione nazionale (e anticoloniale), spesso ma non sempre guidate da partiti comunisti. Il loro successo non ha impedito a tutti i paesi liberatisi dal giogo coloniale di ricadere verso le sottili forme del “neocolonialismo”. Oggi si sta assistendo al mutamento di quelle guerre. Sembra quasi in ripresa il vetero-colonialismo; l’ultimo esempio, libico, è particolarmente eclatante al proposito.

   Tuttavia, quando possibile, si tenta la carta del non aperto intervento militare. Poiché i movimenti di liberazione nazionale hanno creato sia gruppi dirigenti spesso irrigiditisi in forme auto
ritarie sia nuovi ceti sociali arricchitisi o comunque benestanti, i più sensibili a stili di vita di tipo occidentalizzante, si cerca di sfruttare, ove possibile, la tenaglia costituita da un braccio principale e da uno secondario ma che stringe nello stesso senso. Il primo è rappresentato dalla mobilitazione “democratica”, dove la “democrazia”, già falsa (e una farsa) nel capitalismo occidentale, è promossa da gruppi organizzati, abbondantemente finanziati e diretti da “consiglieri” soprattutto americani (ma con qualche spazio concesso ai subdominanti europei); ove non si riesca con questo inganno, subentra il secondo braccio, organismi militarizzati (ma “civili”) che ricorrono a violenze e manifestazioni di piazza, per le quali è sempre possibile mobilitare alcuni spezzoni di popolazione, guidati da quelli a più alto livello di reddito, più che sufficienti per parlare allora di “popoli in rivolta”.

   Quando si verifica la seconda condizione, si agitano nei paesi promotori dei disordini (sempre Usa in testa, seguiti dai soliti servi subdominanti) i fautori dei “diritti umanitari”, della “libertà dei popoli”. Gli zombi del passato, sempre sotto la vecchia e ormai putrefatta distinzione di destra e sinistra, stanno generalmente insieme nel contrabbandare queste ideologie che ripropongono, in forme nuove e decisamente più ipocrite, il vecchio colonialismo. Diciamo che tra certi settori di destra e certi di sinistra permane una qualche differenza culturale. I primi tendono a rispolverare il vecchio razzismo comportante per noi “civili” l’obbligo di portare la nostra cultura a chi è ritenuto un barbaro e poco più che una rozza massa ignorante. La sinistra – ormai solo ceti medi semicolti, formati da abbienti che criticano quel consumismo cui sono pienamente dediti – piange sulla sorte dei “popoli” (solo i loro simili occidentalizzanti di quei paesi in ancora ritardato sviluppo) e li vuole “liberati” a suon di bombe e interventi militari “umanitari”.

   Solo alcuni settori nazionalisti sono culturalmente e ideologicamente preparati a capire la nostra supina acquiescenza agli ordini degli Usa. Non sono teneri verso i popoli dei paesi soggetti ad aggressione colonialista, ma difendono l’autonomia dei propri paesi e si schierano contro i gruppi subdominanti di questa laida Europa, capendo che essi sono i gruppi capitalistici dei settori “maturi”, complementari a quelli statunitensi; quindi assolvono le stesse funzioni degli Junker prussiani e dei “cotonieri” del sud degli Usa nell’800, in posizione di interessata subordinazione rispetto all’allora predominante capitalismo (borghese) dell’Inghilterra.

   7. Per tutto un periodo successivo al crollo del “socialismo” e dell’Urss, i dominanti statunitensi – sia i gruppi politici democratici sia quelli repubblicani – hanno pensato alla riproposizione del loro predominio monocentrico allargato dal “polo capitalistico occidentale” a tutto il mondo. Sono stati gli anni delle illusioni dei predominanti. Intanto, la convinzione che la cultura americana – a suon di coca cola, rock, jeans, ecc. – divenisse la principale via della subordinazione mondiale. Qualche recalcitrante, collocato nella lista dei “cattivi” (gli Stati canaglia), veniva ridotto alla ragione con mezzi militari, ormai molto più potenti di un tempo, per cui si possono ammazzare migliaia di nemici con poche proprie perdite. Ovviamente, ad uso della rappresentazione scenica presso i “civili” popoli occidentali, vi era sempre un Hitler di turno da abbattere e da portare al Tribunale dell’Aja, nuova versione di quello, già laido e da puri falsari, di Norimberga, controllato da uno Stato talmente canaglia, assassino, criminale, da aver sganciato le atomiche sul Giappone con la scusa – falsa in radice, ma comunque già infame di per se stessa – di abbreviare la guerra e salvare qualche migliaio di militari americani, al prezzo di centinaia di migliaia di civili ammazzati subito (e ancor di più per le conseguenze).

   Gli aggressori si sono prodotti e riprodotti nella scena a più riprese dall’Irak alla Jugoslavia, ecc. Nel 1999 si diffuse la falsa speranza di poter eliminare i “nemici” dall’alto senza nulla rischiare. Ormai la guerra era mutata, disse il gen. Wesley Clark, uno dei tanti Stranamore che l’occidente ha prodotto; solo bombardamenti di piccoli Stati. Ufficialmente perché riottosi agli ordini, in realtà per controllare aree strategiche dove impiantare nuove basi militari dei predominanti mondiali. La speranza cadde ben presto e si dovette ridiscendere a terra e avere qualche morto, ma sempre pochi visto che si sono scelti gli avversari con cura: sempre paesi a basso sviluppo e poco armati e però ben collocati strategicamente per il predominio mondiale voluto.

  Con Bush jr. i neocon (alcuni dei quali erano, in origine, “di sinistra” anche radicale) crederono di poter arrivare – con relativamente pochi interventi mirati e le minime perdite civili delle “due torri” (non voglio mettere in dubbio che sia stato un attentato, non però certamente del novello “Spectre” e punteggiato inoltre da molte insipienze) – a riunire il mondo sotto la direzione statunitense, finalmente affermando quel monocentrismo (il kautskiano “ultraimperialismo”), che implica coordinamento e ordine complessivo, salvo qualche modesto disturbo, più che altro causato dalle crisi interne al sistema capitalistico; che tuttavia, se un centro esiste, sono relativamente modeste come si era dimostrato nel “campo capitalistico” durante la bipolarità mondiale del 1945-91. Un altro sogno come quello della guerra ormai solo aerea. Un sogno che iniziò a cadere già durante l’ultimo biennio di Bush, ma che esigeva un più vivace ammodernamento di facciata.

  Una “faccetta nera” (non dell’Abissinia), che portò tutti i “progressisti” dell’ormai noto ceto semicolto abbiente a sbavare, a farsela addosso per il troppo piacere; e che invece ha significato la fine della lotta progressiva dei neri d’America, mostrando che non c’è “diverso” che tenga. Il razzismo è falso anche quando è buonista. Che si tratti del colore della pelle, della differenza sessuale, dei gusti etero-omo-bisessuali, ecc., siamo veramente tutti eguali. E quando si è fetenti e vigliacchi, quando si è oppressori e aggressori, ecc., non vi è alcuna diversità di comportamento. E non vi è per il semplice motivo che non sussiste responsabilità personale se non nei limiti del giocare la parte dell’attore in una recita, il cui teatro muta rapidamente le sue scenografie in seguito ai conflitti tra gruppi sociali, le cui mosse fondamentali avvengono dietro le quinte. Solo i cretini del ceto semicolto abbiente non lo sanno; quei cretini che urlano, strepitano e oggi incitano, tutti (anche quelli che recitavano in spettacoli contro la guerra in Vietnam, tanto per fare un solo esempio), ad aggredire il “feroce dittatore” Gheddafi.

  Oggi, mentre si continua comunque con la farsa degli Stati canaglia, con gli Hitler di turno, ecc, sono avvenuti importanti cambiamenti; non ancora completamente visibili sol perché – malgrado sia ormai dimostrato che il monocentrismo, sognato per un decennio dai gruppi dominanti americani, è inesistente, non c’è in effetti mai
stato veramente (in questo devo correggere mie credenze precedenti) – la supremazia militare americana, grazie all’ingripparsi della potenza sovietica promossa con duri sacrifici da Stalin e via via smantellata dai successori (con accelerazione dopo il 1985), è ancora netta. Una supremazia militare non è però quella “imperiale”, monocentrica, non è il kautskiano ultraimperialismo coordinatore, durato quasi mezzo secolo ma solo nel “campo capitalistico occidentale”. Oggi, in realtà, la tattica americana (non so ancora se si debba parlare di autentica strategia) mira al caos, in cui vengono coinvolte, con il miraggio di qualche “offa”, le vili subpotenze europee (sono cioè vigliacchi e miserabili i suoi gruppi subdominanti). Da questa nuova tattica deriva la somiglianza sempre più netta tra predominanza statunitense e il vetero-colonialismo, con però appunto aspetti nuovi e ancora inesplorati per mancanza delle categorie analitiche necessarie. 

  8. Difficile prevedere l’immediato futuro, soprattutto con riguardo alle potenze ancora in crescita che, per la loro inferiorità militare (e anche economica), sono sostanzialmente in posizione di spettatrici, semmai attente (almeno questo si crede e si spera) nelle loro più immediate vicinanze. Tuttavia, la debolezza del fronte antiamericano è evidente. Questo però non inficia minimamente il fatto che non esiste monocentrismo. Oggi, gli Usa devono rassegnarsi a predominare creando il caos, minando regimi alleati consolidati da riverniciare a nuovo (ma il processo è appena cominciato) e distruggendo o indebolendo quelli a loro invisi. Stanno partendo con intenti più sistematici di prima, almeno sembra. Non Irak, Jugoslavia, Afghanistan. Intanto nord Africa e Medio Oriente; tentativo di incapsulare nuovamente la Turchia, di riprovarci in Iran non con improvvide rivoluzioni colorate, evidentemente dimostratesi inefficienti data la strutturazione sociale (e culturale) lì esistente. Ritenteranno pian piano anche verso la Russia soprattutto; meno verso la Cina perché nell’area del Pacifico forse si accontentano per il momento di mantenere la situazione esistente.

   E’ pericolosa la nuova tattica? Non esprimiamoci troppo in fretta. Rileviamo intanto quanto siamo indietro nell’elaborazione teorica. E senza nuovi “occhiali”, rassegniamoci a dover modificare talvolta rapidamente le nostre prospettive, i fasci d’osservazione. Per il momento possiamo solo vedere in piena luce la criminalità dei gruppi dominanti. Siamo però certi che questa categoria generale basti? Intanto, come minimo, dobbiamo individuare i dominanti non nei soli capitalisti, intesi come quelli che hanno proprietà di capitali; e nemmeno solo in quelli che controllano imprese o muovono ingenti masse di denaro. I gruppi dei dominanti sono più complessi e la loro caratteristica fondamentale, da studiare con maggiore finezza, è nella capacità di attuare le strategie del conflitto per la preminenza, che rappresentano in senso proprio la politica; troppo spesso ridotta agli apparati di Stato o ai partiti, ecc. o anche agli althusseriani apparati ideologici di Stato. Non è così semplice. E non possiamo prendere alcuni gruppi organizzati, che ancora si trascinano dietro alcuni ceti popolari, come semplicemente subordinati ai dominanti; la loro interrelazione con questi ultimi è assai più intricata e “intrigante”. Sono dei complici, ma molto strettamente implicati nell’azione della dominanza. Servi, certo, ma soprattutto per la funzione espletata nel servire interessi altrui, che coincidono spesso con i propri.

   Basta con le rassicuranti tesi della lotta duale antagonistica. I predicatori delle stesse sono finiti malamente, portano acqua al mulino dei peggiori fra i dominanti. Sono quelli pronti a costituire bande, che poi i soliti ceti politico-culturali abietti ci presenteranno come la riedizione delle BR. Nient’affatto, cari signori. Questi sono veri sbandati e non hanno più valori di cui farsi portatori; non hanno quindi alcun orientamento ideale, ma soltanto la ferma intenzione di non tornare a lavorare. Poiché la loro funzione politico-ideologica è ormai nulla, essi non possono più avere seguito elettorale, non possono più apportare pacchetti di voti a questo o quello schieramento politico. L’unico modo per vivere come sono sempre vissuti è accettare di compiere atti “impropri” su commissione di precisi settori politici. Si costituirà una complicata rete tipica delle cosiddette squadracce con ampie connivenze nel ceto intellettuale e giornalistico che ha subito lo stesso processo involutivo, ben oltre le mie previsioni (da ormai molti anni). Questo avverrà soprattutto in Italia, ormai “anello debole” della nuova catena di subdominanza costituitasi, in specie con la nuova tattica americana. Temo che, nel nostro paese, tale rete troverà la complicità di dati apparati di Stato, detti con involontario umorismo di Sicurezza. Il tutto legato, come chiarito più volte, alla debolezza (“strutturale”?) di quei comparti avanzati trinceratisi dietro la figura di Berlusconi, uomo indeciso e vacuo, senza vera caratura di statista, circondatosi, anche per ambiguità propria, di schiere di traditori non tutti ancora rivelatisi. E, da ormai vent’anni, è stata sempre assegnata la massima carica dello Stato a individui, legati in varia guisa a settori antinazionali.

  Siamo in un momento cruciale. Occorre un grandissimo sforzo per togliersi dal pantano della ripetizione stantia dei vecchi “ismi” ormai putrefatti. Non per la fine delle ideologie, sia chiaro. Non sarà mai superata l’ideologia (in questo Althusser ancora docet). Non possiamo però più esimerci dall’affrontare i compiti anche teorici (non solo questi, in una situazione come l’attuale). La criminalità dei dominanti (e dei loro scherani) ha superato con la Libia una determinata soglia; non l’ultima prima del “dramma finale”. Spetta soprattutto ai più giovani compiere un grande sforzo, mandando al diavolo tutta la merda intellettuale dei nostri giorni e della nostra area. I vecchi “ismi” al macero; una critica veramente radicale per ripulire ogni angolino pieno zeppo di ragnatele. Per il momento, ho scritto a sufficienza. Per favore pensate al….. “pensatoio”. 

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APPENDICE

 ECCO IL “BUSILLIS” 

  Il francese Bolloré – in sintonia, direi, con le posizioni sempre più colonialiste della Francia, ma in subordine agli Usa (povero De Gaulle!) – ha criticato la direzione delle Generali (Geronzi) perché contrario all’eccessiva importanza data agli affari verso “est”. Dove questo est riguarda pure, di fatto, dati paesi della UE, ma si può essere sicuri che il vero “fuoco di sbarramento” è verso l’andare ancora più “a est”. Ecco svelato il “busillis” anche delle prese di posizione di Della Valle (lo scarparo) che si trincera dietro la vecchiezza di Geronzi, “uomo di altri tempi”. In realtà, gli uomini di altri tempi sono questi scherani della subordinazione più piatta agli Usa, mentre il “nuovo” dovrebbe proprio essere rappresentato dalla “diversificazione” degli affari con baricentro meno orientato a occidente e che comincia un qualche spostamento verso est.

   Bolloré ha soprattutto criticato l’alleanza con il gruppo ceco Ppf< /em> (di Petr Kellner), ma il vero obiettivo sembra in realtà l’entrata in Generali della banca russa Vtb (ecco l’effettivo “busillis”). Il Cda ha respinto l’attacco e confermato la fiducia all’ad Perissinotto, anche perché nel 2010 l’utile societario è aumentato del 30% e il dividendo del 28,6%. Tuttavia, sono entrati in azione i soliti “analisti” (ben pagati da chi manovra la Borsa), sostenendo che era previsto un risultato più brillante e che è preoccupante il risultato negativo del ramo Danni; cosicché in Borsa le Generali hanno perso qualcosa (si sta parlando di una decina di giorni fa). Si tratta delle solite oscillazioni al ribasso o al rialzo manovrate per gli scopi di chi pesa maggiormente in Borsa. Solo gli affetti da “sindrome di Pinocchio” (seminare zecchini per far crescere la pianta degli stessi) possono dare eccessiva importanza a questi sbalzi, che segnalano gli umori di chi aggredisce per finalità, a volte, di guadagni finanziari ma, altre volte, per evidenziare appunto il malcontento di coloro che pesano politicamente (e ai quali la Borsa fa da sponda). Una vera crisi si manifesta finanziariamente, ma poi continua con l’ingripparsi del sistema produttivo e la caduta generale dei suoi indici.

   In effetti, pur respinto in via ufficiale l’attacco di Bolloré, l’ad ha affermato che per il futuro non sono previste nuove importanti acquisizioni, dedicandosi prevalentemente ad una “crescita interna”, cioè al consolidamento delle posizioni raggiunte. Affermazione da cui non possono trarsi conclusioni univoche. Potrebbe trattarsi di un cedimento alle pressioni per evitare scontri più duri come, invece, dell’intenzione di rafforzare intanto la posizione raggiunta con l’ampliamento degli affari ad est. Tutto lascia comunque pensare che l’Italia, visto anche ciò che sta accadendo in ambito assai più rilevante come quello della crisi libica, sia sotto attacco esterno, ma con ampie quinte colonne (GFeID e “sinistra”) che portano avanti una politica di grave, nonché subdolo, tradimento nazionale.